In questo «autoritratto con bandiera nera» Onfray rivendica la sua appartenenza a un anarchismo «non devoto» che si affranca dal catechismo rivoluzionario del Novecento. Convinto che questa concezione eretica del mondo sia un potente motore del mutamento sociale, comincia a mettere ordine in questo cantiere in cui si accatastano idee e pratiche, tracciando una vera e propria genealogia della rivolta. E lo fa distinguendo nettamente tra la tradizione hegeliana di un Bakunin o di uno Stirner e la tradizione pragmatica di un Proudhon o di un Reclus. è proprio quest'ultima che a suo avviso si salda con quella riflessione filosofica denominata French Theory, le cui intuizioni hanno fecondato l'anarchismo classico dando vita a un pensiero libertario contemporaneo. Il risultato è appunto quello che l'autore definisce post-anarchismo, ovvero un anarchismo per il ventunesimo secolo – immanente, contrattuale, pragmatico – la cui potenza politica libertaria appare più che evidente anche alla nonna di Onfray.

Applichiamo quanto afferma Diogene il libertario parlando di Platone il dottrinario: «A che serve un filosofo che per tutta la vita non ha mai turbato nessuno?»

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5 luglio 2013 12.07

Il post-anarchismo spiegato a mia nonna

Un anarchismo libero dalle categorie del novecento sembra un’eresia, ma è un potente motore del mutamento sociale, sostiene il filosofo francese Michel Onfray.

UNO
Genealogia delle viscere

La genealogia dell’anarchico va cercata nelle sue viscere. Non vi si accede attraverso i libri, ma la si avverte prima come un’evidenza che solo in seguito è confermata sulla carta. Perché prima di tutto quello che si manifesta è una ribellione istintiva nei confronti dell’autorità, in ogni sua forma. Fino all’età di dieci anni ho vissuto nella paura delle botte che mi piovevano addosso per un nonnulla. Mia madre, che era stata un’orfana abbandonata all’assistenza pubblica, sistemata presso famiglie che lucravano su quei bambini, sottoponendoli ad angherie e sfruttandoli senza pietà, aveva subìto ciò che aveva generato in lei una coazione a ripetere: picchiata, anche lei picchiava, avendo avuto a che fare solo con la violenza, non conosceva che la violenza, il suo linguaggio. Ho fatto spesso le spese di quella incapacità alla ragione ragionevole e ragionante che provoca ceffoni, botte, scariche di cinghiate, oppure parole che feriscono, che mortificano l’animo, gesti che uccidono, come simulare di abbandonare il focolare domestico e altre varianti
sul tema della cattiveria… Per prima cosa, io sono stato quel bambino lì.

Poi sono stato anche quel bambino che, a dieci anni, sempre in virtù degli stessi principi, fu sistemato da mia madre, con il tacito assenso di mio padre, in un orfanotrofio di salesiani, alcuni dei quali pedofili, che facevano regnare il terrore nell’esistenza quotidiana. Nella prefazione di La potenza di esistere ho raccontato quei quattro anni segnati dalla sporcizia, dalla paura, dalla perversione, dall’umiliazione, dalle botte, dalla violenza, dall’avvilimento, dalla vessazione. Quell’odio verso il corpo e il desiderio, la sessualità e le donne, l’intelligenza e i libri, si combinava, per quei preti, con un’esaltazione dello sport e del lavoro manuale, della virilità e della competizione, della famiglia e del capo. Tra i dieci e i Quattordici anni, orfano di genitori viventi, ho vissuto l’inferno sulla terra. Dopo di allora, tutto il resto non poteva che essere un paradiso. Quanto a mia madre, non ha certo vissuto meglio per aver messo il figlio maggiore all’orfanotrofio, mentre si teneva attaccato alle gonne il minore. E quanto a mio fratello…

”Non voglio essere né un carnefice
né una vittima

Ho il preciso ricordo di una promessa che ho fatto a me stesso quando avevo quattordici anni: non voglio essere né un carnefice né una vittima. Non intendevo umiliarmi riproducendo i comportamenti che certi preti avevano avuto nei miei confronti: esaltarsi per il proprio potere, godere nell’opprimere e schiacciare quelli meno forti, usare l’istituzione come un paravento, mimetizzarsi nel mucchio, ricorrere alla forza. Ma non mi andava nemmeno di continuare a essere quello che ero stato una volta: intimorito dalle botte, spaventato dagli abusi sessuali, succube dell’arbitrio, come tenerci a turno sotto le docce mentre il curato apriva i rubinetti dell’acqua bollente o, in caso di punizione collettiva, tenerci tremanti in cortile nelle notti d’inverno, con addosso il solo pigiama, mentre la neve rifletteva l’azzurro del chiaro di luna…

Nello stesso periodo osservavo attentamente anche la vita quotidiana dei miei genitori: mio padre, che affittava la propria forza per il lavoro dei campi, e mia madre, che faceva altrettanto per le faccende domestiche. Mio padre con le sue misere buste paga, il lavoro al gelo o sotto la canicola, la rudezza delle mansioni agricole, la fatica spossante al limite dello sfinimento fisico, le notti in bianco per la mietitura, le ore straordinarie mai retribuite e mai recuperate, nemmeno quando il gelo induriva il terreno rendendolo impossibile da lavorare… E poi mia madre, che puliva i gabinetti dei padroni, quegli stessi che si divertivano a non tirare lo sciacquone sapendo che lei era di servizio; quegli stessi che durante le loro vacanze riponevano i giocattoli dei loro bambini in scatole sigillate con il nastro adesivo perché non ci venisse in mente di usarli per trastullarci nella loro sala giochi tre volte più spaziosa della nostra abitazione (una licenza che comunque mia madre non avrebbe mai tollerato).

Più tardi, come ho già raccontato nella Politica del ribelle, per due stagioni ho lavorato qualche settimana nel caseificio del mio paese, Chambois. Avevo quattordici anni il primo anno, quindici il secondo. Il padrone di quello stabilimento era anche il proprietario della fattoria dove lavorava mio padre e del «castello» nel quale mia madre faceva le pulizie. Ma un capetto che imponeva la propria legge ce l’aveva con me e con il mio amico Ghislain Gondouin, oggi libraio antiquario nel nostro paese d’origine, con il quale condividevo pene e passioni dell’adolescenza. Un giorno in cui il caporeparto aveva esagerato, buttai, in senso letterale, il mio grembiule e mi diressi deciso verso di lui, che si prese paura temendo uno scontro fisico. Mi accontentai di esprimere vivacemente le mie critiche. Ma dato che avevo abbandonato il mio posto, l’intera catena di produzione si era fermata: ricordo ancora il rumore del motore, lo sciacquio del latte nelle grandi vasche dove si metteva sotto pressione, lo stridere degli ingranaggi, ma ricordo soprattutto lo sguardo degli operai che invidiavano quello studente stagionale che si poteva permettere di dire con veemenza il fatto suo a un capetto e poi mollare tutto…

”Ho odiato il potere, qualsiasi potere,
molto prima di sapere quello che
ne raccontavano i libri

Quel giorno, rientrato nello spogliatoio con i capelli e gli abiti intrisi del siero di latte che ci gocciolava addosso per tutta la giornata lavorativa, feci a me stesso una promessa: di non dimenticare mai lo sguardo dei miei compagni di sventura, con quel misto di invidia e di stupore, di tristezza e di soddisfazione, e soprattutto di non tradirlo mai. Quando quel battibecco gli arrivò all’orecchio, il padrone mi convocò in ufficio per dirmi che a lui piacevano le «teste dure». Mi propose un’assunzione in un posto di responsabilità, mi promise una patente di guida, una casa in paese, un ufficio da giacca e cravatta e il relativo stipendio. Mi fece balenare una vita diversa da quella dei miei genitori: un peccato mortale ai miei occhi. Conobbi allora, per la prima volta, il piacere del rifiuto.

I preti della mia infanzia, i padroni dei miei genitori e la gerarchia di fabbrica conosciuta nel mio paese mi hanno illuminato sulla natura del potere. Non l’ho scoperta leggendo Machiavelli, ma l’ho vista negli occhi di coloro che lo possedevano. Ho odiato il potere, qualsiasi potere, molto prima di sapere quello che ne raccontavano i libri. Non c’è bisogno di leggere sull’argomento quando lo si è visto, da bambini, da adolescenti, da giovani, nella carne maligna dei potentati: quel nero ha una luce particolare nella pupilla del predatore, dello sciacallo, dell’avvoltoio. Né boia né vittima, ma sempre dalla parte delle vittime.


Michel Onfray, filosofo francese e fondatore della Università popolare di Caen, ha scritto saggi sul postanarchismo, l’edonismo e l’ateismo, tra cui Trattato di ateologia e Illuminismo estremo.