Alla luce dei progressi economici attuati dalla Cina negli ultimi anni e della efficace risposta che Pechino ha saputo dare alla crisi finanziaria globale, sono in molti a chiedersi se bisogna imparare dalla potenza asiatica e se è opportuno adottare il “Modello Cina”. Il concetto circola ormai da qualche tempo. “Per anni - come ha avuto modo di direSuisheng Zhao, docente presso l’Università di Denver e editor della rivista Journal of Contemporary China - il Modello Cina è passato inosservato fino a quando, in occasione del 60esimo anniversario della Repubblica Popolare cinese, un ciclo di seminari che ha riunito molti studiosi che si sono confrontati sul tema ha portato a una conclusione: il sistema cinese si è dimostrato valido, mentre non si può dire lo stesso per quello occidentale”. Questo libro proponendo le sintesi di queste ricerche vuole capire limiti e pregi di questo modello che non risulta avere basi ideologiche precise, ma che di fatto ha permesso alla Cina di mantenere una crescita costante nonostante la crisi (grazie soprattutto al pacchetto stimoli varato dal governo), una considerevole riduzione della povertà, e un maggior impegno del governo sul fronte estero

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7 may 2012

Ricchi, poveri e scarsa affidabilità: ecco a voi il “modello Cina”
di Andrea Enrico Pia

Mi ritrovo su un rangerover bianco ad avanzare a passo d’uomo lungo una strada ben asfaltata ma senza guardrail, che si getta direttamente nei campi di fagioli persi nello Yunnan. Dobbiamo suonare a lungo per, nell’ordine: far spostare una intera scolaresca che ha deciso di scoppiare in fragorose risate giusto in mezzo alla strada per motivi a noi sconosciuti; evitare di investire una signora facilmente più anziana di me e del conducente messi insieme; convincere un cane che non è il momento di importunare il gallo che canticchia tronfio sul ciglio della strada.

Siamo in cinque in macchina e dobbiamo recarci alla latitudine/longitudine che biancheggia su un piccolo led all’altezza del gomito sinistro del conducente per poter installare un giroscopio. Un nuovo canale per l’irrigazione verrà realizzato a breve e i tecnici devono determinare la pendenza e l’orientamento delle colline, completamente disboscate e terrazzate, che si rincorrono a qualche kilometro da noi.

“Ti dico io qual è il problema, è che voi occidentali ci capite troppo poco (liaojie tai shao le). La Cina e la gente comune intendo. Qui c’è un enorme problema di mentalità: o la gente si vende per i soldi, fa le cose solo se pagato, o non fa nulla e si fa schiacciare”. A parlare è un funzionario di medio livello di un Ufficio delle risorse idriche (shuiwuju) gerarchicamente sovraordinato all’ufficio presso il quale risiedo. Il conducente interviene: “E poi c’è questo enorme problema della povertà: con i soldi con cui noi andiamo qui al karaoke (80 yuan), a Chediao non si va da nessuna parte, ne servono duemila. Questa macchina qui, me la pago con lo stipendio di tre anni, tu (riferendosi al funzionario di poco fa) col tuo stipendio te ne compri quattro in un anno e viviamo a trenta kilometri di distanza! Ognuno di noi è povero in misura relativa al cinese che gli sta a fianco”. Parole sante, sotto-segretario. Rivolto a me: “Prima dicevi che l’America non è un modello (mofan) da seguire. Ma il nostro che modello (moshi) è?”

Parola di funzionario

Ecco a voi il “Modello Cina”. O meglio, non quello che si glorifica sui giornali e in pile di .pdf accademici che escono fumanti dalle stampanti di numerose università dell’emisfero occidentale, ma l’idea di Cina proposta da molti funzionari statali e membri del Partito che sto avendo la fortuna di incontrare nelle campagne del sud della Cina. Grande disparità di reddito e pochissima affidabilità.

Che altro? In un ufficio governativo discuto con un ingegnere idraulico, funzionario statale, in attesa del solito sproporzionato (e assolutamente fuori contesto) banchetto serale. “Il nostro è un sistema che non tutela la proprietà privata (siren caichan), vedi? La terra è dello Stato. Per esempio se hai i genitori contadini e tu,come me, hai un lavoro nel governo, quella terra non è già più tua, verrà ricollocata. Per i contadini questo è un tipo di insicurezza che non ti permette di cooperare (tuanjie), e così i contadini non fanno che pensare al loro, e non vedono che potrebbero arricchirsi se solo unissero le forze. I vostri paesi (occidentali) sono l’opposto vero? Le persone partecipano attivamente per regolare (tiaozheng) i propri affari. Qui no. I contadini non si fidano. Devi capire una cosa. Voi dividete fra potere esecutivo (zuo zhengce) e legislativo (xie falü), ma noi no. Noi siamo un paese dove un superiore può decidere arbitrariamente (manheng) di prendere quello che hai fatto e gettarlo nel cesso (wang cesuoli reng). Il governo centrale detiene potere assoluto e noi, qui in periferia (xiao difang), non abbiamo leggi a proteggerci”.

Ma almeno è una economia in perenne crescita no? “Non esiste crescita economica senza stato qui in Cina”, un giovane membro del Partito, raro caso di lavoratore migrante à rebours, da una grande città alla campagna per lavorare in una cooperativa agricola che sta avendo grande successo. “Le vedi tutte queste case belle bianche? Il governo è arrivato qui e le ha dipinte lui, con i suoi soldi, come ha fatto tutto il resto”. E non che questo sia una brutta cosa.

Il “nostro” modello Cina

Dopo questa lunga premessa, vorrei cercare di far fruttare quanto piccoli funzionari dello stato Cinese mi hanno riferito a proposito del “modello” di società nel quale vivono, contrapponendolo a quanto comunemente leggiamo e ascoltiamo.

Recentemente per i tipi de l’Asino d’Oro è uscito un volume dal titolo piuttosto esplicativo: Il Modello Cina. Il testo, curato da Marina Miranda e Alessandra Spalletta, è una collezione di saggi scritti da alcuni fra i massimi esperti mondiali di relazioni internazionali, scienze politiche ed economia, tutti incentrati sulla Repubblica Popolare e sul modello di società che questa oggi proporrebbe al mondo. Il libro è stato già recensito altrove e non mi ritengo capace di condensare in un breve post il contenuto di un testo eterogeneo e poliedrico come il suddetto. Marina Miranda ha già provveduto e la sua introduzione è disponibile online. Preciso fin da subito che il modo in cui in Il Modello Cina si discute, appunto, di “modello cinese” è estremamente articolato e difficilmente riconducibile ad una semplice ricetta facile da digerire per il lettore. Ed è così che deve essere. Questo post, dunque, non è una critica al taglio del volume.

Da Il Modello Cina vorrei invece prendere alcune idee contenute nella Prefazione a cura di Federico Masini. Per semplicità potete ascoltare questa breve intervista o leggere l’interessante scambio di battute pubblicato qualche tempo fa sul sito del Fatto Quotidiano per farvi un’idea della posizione di Masini sul suddetto “modello cinese”. Federcio Masini è una istituzione della sinologia italiana e non siamo qui per fargli le pulci. Ma ci sono due affermazioni che Masini fa nella sua intervista, e che ripropone nella prefazione del suddetto libro, che vorrei commentare. Per motivi di spazio e di coerenza non posso dilungarmi sull’affermazione “è un modello fondato sull’ateismo, sull’assenza di religione” che ritengo come minimo da chiarire e spero in futuro di poterci tornare. Passo dunque alla seconda:”il modello del comunismo cinese è molto legato alla propria tradizione, un modello statalista che ha oltre duemila anni di storia”.

L’idea che il “Modello Cinese” esista e sia espressione diretta della sua cultura millenaria è secondo me intellettualmente compromettente, nella misura in cui si ritiene che l’eredità storica cinese sia, per qualche motivo, maggiormente vincolante, di quella che ad esempio connota i paesi occidentali.

E’ evidente che la potenza economica cinese abbia oggigiorno bisogno di una grande narrazione e, Marina Miranda lo riconosce nella sua introduzione, che dia legittimità alla propria ascesa sul teatro internazionale. Su Cineresie abbiamo parlato di Minbenismo e abbiamo commentato come, ad una analisi approfondita, l’equazione Cina Moderna = Cina Imperiale appaia per quello che è: retorica. Quando si tenta di legittimare un determinato ordine sociale, la Storia e la Cultura sono cadetti ben disposti ad essere arruolati. Il “Modello Cinese” sembra dire: vedete è sempre stato così, c’è sempre stato uno Stato come metafora della famiglia patriarcale e noi facciamo le cose ancora così. Sembra quasi che la storia e la cultura cinese debbano determinare necessariamente la struttura politica dello Stato cinese contemporaneo. Ma allora perché tutti quei funzionari si lamentano? Dormivano durante le lezioni di Storia a scuola?

Appare chiaro che, per chi governa la Cina in questo momento, una simile argomentazione non è altro che uno strumento di validazione di un privilegio ottenuto in tempi storici (appena sessant’anni fa). Il comunismo, in questo modello, sarebbe solo una deviazione da questa, altrimenti inarrestabile, cavalcata storica del “Modello Cinese”. Eppure solo quarant’anni fa avevamo la Rivoluzione Culturale e la critica alla mentalità “feudale” cinese.

Il punto è però piuttosto un altro: come ci lascia basiti sentire parlar di democrazia come di quel “Modello Occidentale” tramandatoci dai greci, in tutta la sua purezza, dovremmo mantenerci scettici sul fatto che la Cina imperiale abbia trasmesso, intatto, questo fantomatico “modello” ai cinesi. O se proprio non riusciamo a metterci d’accordo sull’esistenza o meno di questo “Modello”, si dia almeno credito a quanto ci dice un piccolo funzionario di provincia: “voi occidentali ci capite troppo poco”.