Diciotto ore. Diciotto ore con Suad Amiry e con i lavoratori della Cisgiordania, che ogni giorno sfidano check-point ed esercito per entrare in Israele alla ricerca di un lavoro sottopagato. Suad Amiry raggiunge nottetempo un villaggio vicino a Ramallah e con la collaborazione di Murad e della sua famiglia si traveste da uomo. Da qui parte il suo viaggio, un viaggio che inizia alle due e mezzo del mattino e che la costringe a camminare per ore tra gli ulivi che costeggiano la strada che conduce in Israele. Il rischio di essere scoperta è altissimo, le conseguenze potenzialmente letali. Con lei ci sono i lavoratori palestinesi che ogni notte tentano di non farsi arrestare dai soldati israeliani, di evitare una diffida che sancisce una "carcerazione preventiva", o persino una pallottola sparata da qualche cecchino nascosto tra gli alberi. Per lo più sono obbligati a desistere e a tornare a casa a mani vuote, stanchi, affranti, umiliati. Dopo una marcia sulle colline, Suad e una parte del gruppo devono nascondersi e aspettare che i soldati, allo spuntare del giorno, abbandonino le loro postazioni. Riescono infine a superare il muro e a mettere piede in Israele, ma è tardi, il lavoro non c'è più. Si confondono con i civili israeliani e salgono su un autobus che li porta prima a Tel Aviv e da lì a Gerusalemme. Davanti a loro un paesaggio non ignoto ma visto forse per la prima volta con occhi diversi: tutto quello che era stato "palestinese" non c'è più.