Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso
di Renata Pisu


"Né Dio, né legge". Religiosità e Cina moderna
di Danilo Soscia


«A noi è bastato Confucio: a lui non interessava l’universo, tanto meno l’aldilà. Quando un discepolo chiese al Maestro cosa fosse la morte, questi gli rispose: se non comprendi ancora cosa è la vita, come puoi pretendere di sapere cosa sia la morte?»

Soltanto in Occidente la religione è tutto e tutto pervade. Non è concepibile un’Europa senza cristianesimo, senza teologi, senza papato, senza guerre di religione, senza grandi eretici. Ma come hanno fatto i cinesi la cui civiltà è stata autorevolmente definita ‘Né Dio né legge’? Come hanno vissuto per tremila anni se presso di loro l’umano non si contrappone al divino, i santi o i saggi sono concreti e non compiono miracoli, l’ordine nasce dal buon accordo e le regole si impongono in quanto forniscono dei modelli? Comesi sono imposti come potenza egemone, facendo a meno di quelli che sono considerati i due pilastri fondamentali della civiltà, almeno la nostra? Questo libro racconta storie di ieri e di oggi ed è un racconto di chi ha vissuto in Cina e l’ha compresa nel profondo del suo cuore. Va dalla predicazione dei missionari gesuiti alla più grande ribellione della storia cinese a metà Ottocento. Dai difficili tentativi di modernizzazione del Celeste Impero, quando fu necessario inventare una parola per dire ‘religione’, alla violenza della guerra dei Boxer; dal dichiarato ateismo dell’epoca di Mao e delle Guardie Rosse all’attuale rinascita di una religione popolare, che fonde buddhismo, taoismo e confucianesimo.
Se ora si assiste alla convergenza di elementi cinesi e occidentali, sarebbe sbagliato giungere alla conclusione che stanno diventando come noi. È più probabile che noi si sia obbligati a diventare più simili a loro in un prossimo futuro.

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Mercoledì 15 Maggio 2013

Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso 

di Renata Pisu

...insistendo sul fatto che i cinesi non subiscono volentieri alcuna coercizione, 
neppure semplicemente dogmatica, 
mi limiterò a caratterizzare lo spirito dei costumi cinesi con la formula: né Dio né legge.

Marcel Granet

Né Dio né legge si cimenta nell'ardito compito di comporre il quadro della spiritualità cinese. La cultura millenaria, il maoismo, la religiosità e la lingua sono elementi che spesso tralasciamo nel racconto della contemporaneità. Eppure ne sono radici e linfa vitale. L'ultimo lavoro della Pisu è uno strumento indispensabile per leggere la Cina in profondità. China Files ve ne regala uno stralcio (per gentile concessione di Laterza editori).

In questo libro Renata Pisu racconta storie di ieri e di oggi ed è un racconto di chi ha vissuto in Cina e l’ha compresa nel profondo del suo cuore. Va dalla predicazione dei missionari gesuiti alla più grande ribellione della storia cinese a metà Ottocento. Dai difficili tentativi di modernizzazione del Celeste Impero, quando fu necessario inventare una parola per dire ‘religione’, alla violenza della guerra dei Boxer; dal dichiarato ateismo dell’epoca di Mao e delle Guardie Rosse all’attuale rinascita di una religione popolare, che fonde buddhismo, daoismo e confucianesimo. Se ora si assiste alla convergenza di elementi cinesi e occidentali, sarebbe sbagliato giungere alla conclusione che stanno diventando come noi. È più probabile che noi si sia obbligati a diventare più simili a loro in un prossimo futuro.

Negli anni ho intrecciato un saldo rapporto con la Cina, un rapporto di consuetudine, di conoscenza, di lunghi soggiorni di studio e di lavoro, di viaggi, di amore e di ripulsa. La pratica della Cina è stata il segno costante del mio tentativo di spiegarmela e spiegarla agli altri. Se non avessi studiato la lingua, non avessi trascorso anni a esercitarmi nella scrittura degli ideogrammi e della fonetica, di certo non avrei affrontato alla leggera tanti argomenti. E poi non avrei potuto leggere i giornali cinesi, non avrei potuto parlare con tanti amici all’epoca dell’università, con la gente per la strada, con i quadri del partito comunista, con i monaci daoisti, con le donne al mercato, con gli operai delle fabbriche dismesse. Non avrei potuto litigare in cinese. Già, ho anche litigato in cinese.

Oggi, giunta alla pausa di riflessione, mi rendo conto della necessità di unire la teoria alla pratica. Di affrontare finalmente qualche argomento che penso di aver trascurato perché sospinta dall’urgenza delle occasioni della storia giorno per giorno. Nelle mie cronache cinesi, chiamiamole così, ho sempre privilegiato il tempo verbale del presente, sono, vado, il tale mi dice... e qualche volta il passato prossimo, sono andata, ho visto, mi ha detto il tale... Ora vorrei introdurre l’imperfetto del nomade, che racconta con nostalgia, a volte, qualcosa che avvenne tanto tempo fa, che non ha visto con i suoi occhi ma che l’esercizio dello sguardo attivo e vigile gli permette di visualizzare e di prolungare nel presente quasi come se il flusso fosse continuo. Rifuggo invece dal passato remoto che porta alla conclusione. Non intendo mai concludere, sempre sfiorare il possibile. Forse questa mia attenzione ai tempi dei verbi deriva dalla conoscenza della lingua cinese. I verbi non ci sono, ovvero ogni sostantivo può anche essere verbo. Così non ci sono i tempi e i modi. Eppure parlare una lingua senza verbi è possibile, ci si intende benissimo.

C’è un verbo che secondo noi occidentali è indispensabile: è il verbo essere. Non intendo inoltrarmi in elucubrazioni metafisiche, filosofiche e teologiche, ma in cinese non c’è. Così non c’è nemmeno il non essere. Allora, come si dice in cinese «Essere o non essere, questo è il problema»? E «Cogito ergo sum»? E «Io sono colui che è»?

Quanti equivoci possono nascere quando in una lingua non ci sono le parole per dirlo...

«Essere o non essere, questo è il problema» diventa in cinese, a seconda delle preferenze: Dopo la morte, vivere ancora o non vivere? Vivere o morire? Morire o non morire? Esistere o non esistere? Sussistere o annientarsi? Sopravvivere o sparire? Essere in vita o non più vivere? Essere vivo o morto?

Ecco, questo è il problema perché quell’«essere o non essere», così apparentemente semplice, rimanda a tanti interrogativi di senso. Non è semplicemente un caso di genio della lingua, non è un gioco intraducibile di parole: ma come tradurlo in cinese? Forse è davvero intraducibile anche se non è un gioco?

C’è però un gioco di parole cinese che forse sta alla pari con il dubbio di Amleto.

Eccone la storia. Nel 1972 il giornalista americano Edgar Snow domandò a Mao Zedong come avrebbe amato definirsi. Mao rispose: come un monaco solo sotto un ombrello, che da Snow fu tradotto come «un monaco solitario che cammina sotto un ombrello bucato», ma in realtà si tratta di un antico indovinello: e cioè, alla domanda «cosa vede un pidocchio che sta sul cranio rasato di un monaco?», si deve rispondere (e qui trascrivo la fonetica dei quattro caratteri cinesi usati da Mao) wu fa wu tian, cioè niente capelli (i monaci si radono il cranio), niente cielo (nascosto dall’ombrello). Wu vuol dire niente, senza; fa, se è pronunciato con il quarto tono discendente, significa capelli, con il secondo tono significa invece legge. Allora, se Snow avesse conosciuto l’indovinello avrebbe dovuto tradurre che Mao si sentiva «senza legge e senza Dio», visto che Cielo in cinese sta in generale per Dio.

È lunga e abbastanza contorta la spiegazione della traduzione di questo gioco di parole, soprattutto per chi non sa che i fonemi in cinese possono essere pronunciati con cinque toni diversi e lo stesso monosillabo cambia di significato a seconda del tono (non così il carattere scritto che è diverso e immediatamente riconoscibile); ma una volta risolto l’indovinello, ecco che la definizione che Mao dà di se stesso appare lapidaria: «senza legge e senza Dio» non una sua invenzione linguistica, visto che i proverbi o gli indovinelli o i calembour sono la saggezza di un popolo, come si dice anche in Cina (e Mao vi ha fatto sempre ampiamente ricorso), ma certamente appropriata dato il personaggio. Così potrebbe sembrare che essere «senza legge e senza Dio» in Cina sia una condizione umana abbastanza comune, visto che è passata nei modi di dire popolari.

Mi domando se il grande sinologo francese Marcel Granet, quando caratterizzò lo spirito dei costumi cinesi con la formula «né Dio né legge», avesse coniato la sua lapidaria definizione sulla scorta dei suoi studi originali o sulla saggezza popolare. Preferisco pensare che sia stata la sua disamina del pensiero cinese, specie di quello arcaico, a portarlo a questa conclusione che mette in luce come una civiltà dalla lunga e ininterrotta tradizione abbia potuto strutturarsi senza quelli che sono considerati i pilastri della nostra civiltà occidentale, da Mosè in poi.


Renata Pisu ha frequentato per quattro anni l’Università di Pechino fino allo scoppio della rivoluzione culturale, affermandosi poi come esperta di Cina. Giornalista da sempre attenta ai problemi dell’Asia orientale, è stata corrispondente de “La Stampa” da Tokyo dal 1984 al 1989 e dal 1990 è inviato di “la Repubblica”. Ha tradotto dal cinese opere di narrativa e ha scritto saggi sulla società cinese per varie riviste italiane e straniere.

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28-06-2013

"Né Dio, né legge". Religiosità e Cina moderna
di Danilo Soscia

«Né Dio né legge» fu la lapidaria formula elaborata da Marcel Granet, la stessa alla quale Renata Pisu si rivolge per riprender il filo di un discorso inaugurato nel remoto 1957, quando una giovane studentessa italiana in forze a Pechino si ritrovò testimone di quel tragico Grande balzo in avanti che mutò per sempre il corso della neonata Repubblica Popolare.

Il terzo giorno della Creazione Dio divise le acque dalla terra, ma anche l'Occidente dall'Estremo Oriente. La funzione della divinità, così come le forme e i processi culturali che ne hanno scandito la storia, da sempre è stata pietra miliare di una distanza incolmabile tra il pensiero occidentale e quello che – con necessaria approssimazione – chiamiamo il pensiero cinese.

Dalle parti di quel continente, infatti, in principio non era certo il Verbo, come scrive l'apostolo Giovanni, quanto invece il Wen, lo Scritto, il concetto rappresentato attraverso l'ideografia. Giustapposizioni per nulla oziose, che rappresentano invece la base dell'articolata riflessione condotta da Renata Pisu nel suo ultimo Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso (Editori Laterza).

Lavoro che giunge non a caso quale punto d'arrivo di una ricerca che l'autrice porta avanti da più di mezzo secolo, quando giovanissima giunse in Cina per studiare la lingua e la storia di quella regione del mondo. Quello che in apparenza potrebbe essere letto come un saggio sulle molteplici e complesse questioni intorno al problema religioso nella Terra di Mezzo – o Centro del Mondo, a seconda delle letture –, sembrerebbe in verità l'ultimo e fecondo capitolo di un'osservazione diffusa, e mai asettica, alla quale Renata Pisu si è dedicata senza sosta, toccando i nodi centrali di una diversità che spesso si è rivelata irrisolvibile, non-traducibile, cifra di una distanza che, in un'epoca di isterica contrazione spaziale, paradossalmente si è rinnovata di pagina in pagina.

Noi tutti, lettori e studiosi della parte occidentale di questo pianeta, siamo in diversa misura figli più o meno legittimi di una formulazione che ai tempi voleva suonare definitiva, incontrovertibile, ovvero la “famigerata” fine dei viaggi. Qualcosa che si armonizzava con una proiezione ancor più definitiva come la fine del mondo, intendendo con un simile corollario la raggiunta impossibilità di scoprire altro in quello che ormai era diventato uno spazio completamente noto.

La connessione sostanziale tra viaggio e scoperta veniva interrotta con toni drammatici, segnando così il primo miglio di quel villaggio globale che di lì a poco sarebbe diventata l'unica misura di confronto tra culture superstiti. Ma scoprire no, non era più possibile. Al limite ri-scoprire, seguendo con puntuale diligenza la traccia delle esplorazioni altrui, simili ormai a cicatrici sulla pelle del mondo.

La parabola di vita e di ricerca condotta da Renata Pisu ha seguito una direzione contraria. Viaggio a tratti sedentario, condotto molto spesso sul filo drammatico della memoria, esso compone un percorso enciclopedico intessuto di pagine di diario, lettere, articoli, riflessioni più o meno sparse eppure serrate nella loro funzione di divulgare storie e concetti non sempre di facile resa.

Un corpus orientato con severa caparbietà – e ispirata leggerezza - a smontare la ovvia rappresentazione della Cina odierna. E cosa vi è di più necessario che far ripartire la propria analisi dalla visione del mondo di un popolo, di una cultura, a partire dal suo rapporto con la religione e dallo spirito dei costumi che ne consegue?

«Né Dio né legge» fu la lapidaria formula elaborata da Marcel Granet, la stessa alla quale Renata Pisu si rivolge per riprender il filo di un discorso inaugurato nel remoto 1957, quando una giovane studentessa italiana in forze a Pechino si ritrovò testimone di quel tragico Grande balzo in avanti che mutò per sempre il corso della neonata Repubblica Popolare.

Cosa c'entra quindi Dio con Mao? Poco, probabilmente, o forse vi sono relazioni di senso celate sotto le rassicuranti cortine della storia che indicano un orizzonte nuovo, verso il quale indirizzare, appunto, viaggi nuovi. Perché noi abbiamo Cristo mentre i cinesi Confucio e Lao Zi? Un quesito che rievoca una pedagogia in apparenza datata, e che invece sopravvive quale enigma irrisolto.

In tal senso, nella sua ultima prova Renata Pisu non manifesta mai la presunzione di rispondere con formulazioni certe e incontrovertibili, ma ha avuto la prontezza di riproporre la questione in un momento determinante dei rapporti tra Occidente e Cina. Un nuovo ordine mondiale è alle porte, e gli strumenti forse logori della nostra tradizione non possono più bastare a se stessi per comprendere la novità in atto.

La Cina è qui, ora. La sua proverbiale vicinanza, predicata ormai da più di mezzo secolo, è diventata presenza quotidiana. È necessario dunque tornare alle origini di un simile confronto, rinnovandone i termini, pronunciando risposte nuove a domande secolari. Perché è vero che «In principio Dio creò il cielo e la terra», ma forse si era dimenticato di creare la Cina.

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