Pierre Rabhi traccia il bilancio di una civiltà che, volendo dominare la terra, la mutila, la tortura e la dissacra. Attraverso Tyemoro, il protagonista, si esprimono la sofferenza e l'abbandono dei quali sono vittime i popoli nativi del sud del Mondo, sottomessi a una logica disastrosa fondata sullo sfruttamento intensivo della terra in agricoltura. Il libro parla di una 'iniziazione africana' ma il suo messaggio di valore universale apre gli occhi e risveglia le coscienze sull'inscindibile legame che ci unisce al destino del mondo.

Il nutrimento della terra
di Pierre Rabhi

http://www.ilcambiamento.it
25 Luglio 2014

Parole di terra. Dal saccheggio al ritorno della comunità
di Ariele Pignatta

È appena stato pubblicato il nuovo libro di Pierre Rabhi che rappresenta uno straordinario atto di denuncia e uno straordinario atto di speranza: denuncia, dei disastrosi effetti sociali dell’agricoltura industrializzata sulle comunità indigene, e, speranza, di una riconciliazione con la madre terra, fondamentale per la nostra vita.

Il testo è un passo fondamentale per ogni persona che volesse riavvicinarsi alla terra attraverso l'analisi di quelle civiltà che dominano la vita utilizzando metodi intensivi e invadenti. Il libro rappresenta un percorso che ci porta a riscoprire quell'inscindibile legame che ci unisce alla terra e, con essa, al destino del mondo. 
Il viaggio è raccontato attraverso gli occhi del vecchio Tyemoro, il protagonista, che, insieme al piccolo Ninù, racconta a un antropologo che è ritornato in Africa per completare gli studi cosa è successo nel villaggio dopo l’introduzione delle sementi e dei metodi dell’agricoltura industrializzata. Viene espressa la sofferenza e l’abbandono dei quali sono vittime i popoli nativi del sud del Mondo, sottomessi a una logica disastrosa fondata sullo sfruttamento intensivo della terra.
Si parla di una ‘iniziazione africana’ ma il messaggio è di valore universale, apre gli occhi e risveglia le coscienze.
«Rabhi – osserva Yehudi Munuhin (autore della prefazione) in una nota in margine al libro - ci chiama a un atto di riconciliazione urgente, sia reale sia simbolica, tanto essenziale nella sostanza pratica quanto profondamente religiosa. La riconciliazione con la nostra madre terra è persino più urgente della riconciliazione tra gli uomini, poiché la nostra vita dipende dalla nostra terra. Nessuna vita sopravvive su di una terra morta. Sotto la forma del racconto, Rabhi presenta la triste storia dell’arroganza umana che, volendo dominare la vita, la distrugge; volendo dominare le specie, le annienta; volendo dominare la terra, la mutila, la tortura, la dissacra.» Pierre Rabhi, contadino, scrittore e filosofo francese, è un pioniere dell’agricoltura ecologica in Francia, della decrescita ed è un esperto contro la desertificazione di prestigio internazionale. Professa e pratica da decenni un nuovo modello di sviluppo che deve portare l'uomo ad amare ogni forma di vita invece che a distruggerla come sta facendo. Tutto ciò si rispecchia in questa sua opera che, in modo semplice e saggio, parla di umanità e della nostra società occidentale invitandoci poeticamente a comprendere i cicli della natura proponendo soluzioni semplici agli attuali problemi ambientali. Egli è inoltre il fondatore del Mouvement Colibris – Coopérer pour changer (http://www.colibris-lemouvement.org/) che, chiamato prima Mouvement pour la Terre et l’Humanisme, opera per la trasmissione dei suoi valori, dell’etica, della pratica agroecologica e del coinvolgimento di sempre più persone nella realizzazione di un mondo migliore, più rispettoso della natura. Infatti attraverso lo scardinamento delle fondamenta del nostro modello di sviluppo viene proposto di ritrovare la forza di agire e la libertà di pensare e creare.
Questo libro rappresenta quindi un insegnamento urgente nei tempi attuali quando ormai ci siamo dimenticati chi siamo e che cosa dobbiamo alla terra.

Proponiamo quindi direttamente le parole del filosofo-contadino. Per quest'intervista a Rabhi si ringrazia La Repubblica Cosa pensi del futuro dell'agricoltura, soprattutto rispetto all'urbanizzazione crescente e con il numero degli abitanti delle città che nel mondo ha già superato quello delle zone rurali? "Il processo di urbanizzazione mi preoccupa tantissimo, da molto tempo. Noi, nel 1961 abbiamo deciso di tornare a vivere in campagna come scelta politica, perché non volevamo sottostare all'evidente alienazione di chi baratta la propria vita con un salario. È un'esistenza che sa di carcere, nel nome del mito di un progresso che rinuncia alla natura. Questa in realtà è una contraddizione del progresso. Ciò che in teoria dovrebbe liberarci, non fa altro che imprigionarci". Mentre negli anni '60 tutti pensavano che la vera liberazione fosse quella dalla storica fatica contadina, tu sostenevi il contrario... "L'Europa ci proponeva un modello glorioso, grandioso. Qualcosa che prometteva di cambiare in meglio le nostre vite. Il problema è che era tutto fondato sull'uso del petrolio e, in realtà, il bilancio tra lo sfruttamento delle risorse e ciò che si è prodotto è stato negativo. Su questo paradigma illusorio si è costruito poi un grande malinteso, perché ora tutti i popoli del Paesi emergenti vogliono fare come noi, ma non ce la potranno fare". Il paradigma illusorio nel 1961 si iniziava però anche ad applicare all'agricoltura. Il modello industriale e produttivista invadeva anche le campagne. L'economia di sussistenza dei contadini era considerata miserabile, vecchia, legata a una terra che non può dare orgoglio e gratificazione. "Il modello funziona in maniera molto potente anche a livello psicologico. Abbiamo sempre sostenuto che i contadini sono l'ultima ruota del carro, e che se l'urbanizzazione era il progresso, nelle campagne non poteva esserci. Ma poi, quando c'è una crisi grave, tutti si ricordano della campagna. È il contadino che tiene in vita gli elementi, che detiene la vita e ciò che è fondamentale per essa". Questa è anche una visione spirituale, l'ultimo degli ultimi che sarà primo, e appartiene alla visione cristiana. È questa la tua formazione? "All'epoca sì. Ora resto dell'idea che l'amore sia la forza più grande in grado di cambiare il mondo, ma non ho appartenenze formali. Ora credo in quello che faccio: il contadino. Posso spiegarvi come fare affinché la terra riesca a creare energia per la vita, ma non il perché ci riesce. Coltivo una parte molto razionale ma c'è momento in cui la razionalità non può più darci delle risposte. Sono molto affascinato dal mistero della vita, ma se mi chiedono, l'unica cosa a cui non potrei mai rinunciare è il mio orto". La razionalità ha un limite, l'orto è un universo illimitato. "L'urbanizzazione ha creato un universo limitato e tutti si sono dovuti adattare, ma in quell'universo non c'è più il fondamento della vita. Abbiamo creato un mondo parallelo senza natura e ora la gente non la comprende più". Se giochiamo una partita contro un gigante non abbiamo nessuna possibilità, allora dobbiamo cambiare il campo di gioco e le regole del gioco. "È quello che si chiama l'uscita dal paradigma. Nel 2002 mi hanno chiesto di presentarmi alle presidenziali. Mi sono detto che sarebbe stato interessante donare uno spazio di espressione della gente e allora ho dato vita a un luogo per raggrupparsi e riflettere, per ricercare la creatività della società civile. Da lì è uscito un programma che apparentemente non aveva nulla a che fare con la politica, tutto basato sull'amore, sulle utopie, sull'agricoltura ecologica, sul ruolo della donna e sull'educazione. Tenemmo 40 conferenze in giro per la Francia ed erano sempre piene: significa che si può avere fiducia nel futuro". Che pensi della situazione in Africa? "Disastrosa, gli asiatici depredano le risorse, i capi di Stato sono corrotti. Guarda l'Algeria, non produce ma esporta, si è addormentata sullo sfruttamento petrolifero. Non si produce cibo, i settori vitali sono morti. Se l'Algeria smette di esportare petrolio muore. Ci sono caste che si prendono tutta questa ricchezza, come in altri Paesi, e lasciano il popolo nella povertà". Noi abbiamo scelto di fare 10.000 orti in Africa, e credo che sia il momento per costruire qualcosa nel continente. Una dimensione umana e di organizzazione, per ricreare una classe dirigente che abbia a cuore la comunità e non il commercio, la salvaguardia della biodiversità, la lotta alla fame e alla malnutrizione. "È una cosa straordinaria. Quando mi hanno domandato di intervenire in Burkina Faso, io non conoscevo quella parte dell'Africa. Ma ho analizzato la situazione. L'agricoltura chimica non si poteva fare, le persone dicevano "io sono talmente povero che non posso acquistare fertilizzanti e diserbanti". È un sistema insostenibile per loro, perché è un sistema fatto per vendere e non per nutrirsi. È il sistema che produce la fame. Ora questo meccanismo sta rovinando anche i contadini europei, perché per fare agricoltura industriale gli strumenti sono troppo cari e la crisi peggiora la situazione. Si impoveriscono e sono diventati, almeno in Francia, la categoria di lavoratori che subisce più suicidi. Se c'è gente che fa piccoli orti, io dico "bene!" Un orto è un atto politico, di resistenza".


http://comune-info.net/
19 luglio 2014

Il nutrimento della terra
di Pierre Rabhi

Il contadino malaccorto chiede alla terra di nutrirlo senza darle nulla in cambio. In questo caso la terra è come una nutrice che deve allattare molti neonati senza mai mangiare. Ognuno può rendersi conto di come in questo non ci sia né ordine né giustizia. L’anello sacro prevede che la terra nutra le piante, le piante nutrano gli animali, le piante e gli animali nutrano l’essere umano; ma chi nutre la terra? Non possiamo prendere continuamente dalla terra che lavoriamo e seminiamo, senza mai darle niente. Se gli esseri umani non la nutrono, certo non possono farlo animali e piante. Nemmeno la natura può farlo se viene coltivata ogni anno. Il contadino accorto sa che il suo dovere è di nutrire la sua madre terra se vuole che essa lo nutra.

Uno dei presenti disse a Usseinì: “Ciò che dici è giusto, e noi siamo d’accordo. I nostri avi avevano i loro sistemi per rispondere al bisogno della terra di nutrirsi. Quando ero piccolo, facevamo molti piccoli scavi sul terreno molto prima delle semine. Il vento e il tempo vi accumulavano residui vari come in una trappola. Quei resti si sposavano alla terra e seminavamo in quegli scavi. Ciò permetteva, evidentemente, di ottenere raccolti migliori”. Un altro disse: “A casa mia, ogni anno sto attento a spargere sui campi le deiezioni degli animali e anche umane”. Un altro ancora disse: “Ho utilizzato per anni la polvere dei Bianchi. All’inizio raccoglievo molto, ma poco a poco la terra è diventata meno generosa. Ho pensato: Non le do abbastanza. Allora ho aumentato la quantità di polvere, ma questo richiedeva sempre più cauri. Ho smesso, perché non ce la facevo più a pagare, i raccolti non bastavano più. A volte, quando la pioggia era insufficiente, le piante sembravano bruciate dalla polvere e altre volte il raccolto era scarso anche se le piogge erano abbondanti. Siamo stati in molti a rinunciare a quel nutrimento. Per di più, ci siamo accorti che la polvere rendeva la terra secca e dura (….)”.

A queste parole, Usseinì rispose: “Avevamo conoscenze i cui benefici non sono mai stati smentiti. Ciononostante, le abbiamo abbandonate ed è stata una grave perdita. Dobbiamo quindi riscoprirle. Le conoscenze degli esseri umani si sono sempre aggiunte le une alle altre. Oggi, pensiamo che quelle dei Bianchi siano migliori e ci siamo allontanati dalle nostre, a volte considerandole con disprezzo. Ci siamo detti: I Bianchi devono possedere la verità, poiché è evidente che sono ricchi e potenti. I Bianchi hanno senz’altro molte buone cose da insegnare ai loro simili di un altro colore, come hanno anche cose da imparare da loro. Ma non hanno solo cose buone e devono una gran parte della loro prosperità ai beni che hanno avuto a disposizione in tutto il mondo e presso tutti i popoli del mondo. Colui che può mangiare nella ciotola del vicino non ha problemi a ingrassare. Sono stato iniziato dai Bianchi al loro metodo di coltivare la terra. Ma il loro metodo ha rotto l’anello sacro. I loro padri rispettavano la terra, la nutrivano, la proteggevano. A volte davano persino nomi ai loro campi come fossero persone. Muri viventi li proteggevano dal vento, dal caldo e dal freddo. Il contadino sapeva che la terra era viva e sensibile. I nuovi coltivatori hanno voluto che la terra rendesse in abbondanza e in sovrabbondanza per avere sempre più cauri. Hanno fatto un uso sempre maggiore di polvere, di veleni, e di creature di metallo a volte troppo rudi e brutali per la terra. La terra si lamentava ma loro non la sentivano più.

Questi metodi hanno avvelenato la terra, l’acqua e persino il cibo. Perciò ora hanno molto cibo, ma esso non ha più in sé i principi della vita. (….) La natura stessa ha stabilito questo ordine e il contadino accorto deve rispettarlo e perpetuarlo. Perciò quando la terra ci dona un buon raccolto, dobbiamo condividerlo equamente. I cereali, i legumi, la frutta sono per gli esseri umani, il fieno e altre piante per gli animali, e gli scarti vegetali così come le deiezioni animali sono la razione della terra. La terra, come succede nella foresta, si nutre di scarti. Il campo del contadino però non è più amministrato dalla sola natura. È stato sottratto alle cure che la natura elargiva. Il contadino chiede al suo campo di nutrirlo ogni anno e non gli concede riposo. Ma se il contadino non è attento, il campo si stanca e si esaurisce. (….) È molto importante, allora, imparare a mantenere fertili i nostri campi e magari aumentare la loro forza con le nostre cure. Abbiamo il potere di lasciare, da una generazione all’altra, una terra sempre migliore, senza rovinare le terre selvatiche amministrate dalla natura, che sono salutari per lei e per noi”.

Usseinì ci ha accompagnati al bordo di un campo sul quale erano sistemati uno di fianco all’altro dei monticelli di scarti di media altezza e lunghezza. Il nostro iniziatore si è fermato davanti a uno di essi, ha spostato la paglia e ha prelevato una manciata della materia che questa ricopriva. Ha invitato ognuno di noi a fare lo stesso. Ho perciò avuto anch’io in mano quella materia. Era soffice di consistenza, bruna di colore. Odorandola, ho sentito che aveva un buon profumo. I più vecchi tra noi si sono rallegrati, dicendo che quello era proprio l’odore delle foreste della loro infanzia. Io stesso mi sono trovato per un momento immerso nelle sensazioni e nei ricordi del tempo in cui ancora prevaleva l’ordine naturale.

Usseinì ci ha detto: “Avete in mano il vero nutrimento della terra, e questo nutrimento, ciascuno di noi lo può produrre. Bisogna fare molta attenzione a questa operazione, è l’atto più grande con il quale l’essere umano ritrova il suo posto di custode attento a conservare all’anello sacro tutta la sua vitalità. Ciò che la natura crea, la natura è anche capace di trasformare, di digerire. Tutto il villaggio lo sa e nulla viene scartato. Ogni famiglia tratta gli scarti prodotti dalla vita domestica come un bene prezioso. Le foglie secche, le bucce della frutta e della verdura, la polvere raccolta in casa, tutto dev’essere restituito alla terra. Bililà, mia moglie, che come sapete è una guaritrice, incoraggia le donne a queste pratiche che considera salutari, perché i rifiuti sono fonte di germi e di insetti impuri, nocivi al benessere e alla salute dei bambini. In questo modo, il nostro villaggio è libero da sozzure e odori sgradevoli prodotti dalla decomposizione. Ogni famiglia si occupa di radunare i rifiuti raccolti vicino al proprio campo. Alcune famiglie allevano conigli, galline o un maiale. Questi animali si cibano dei rifiuti e restituiscono deiezioni che sono aggiunte a quelle, più consistenti, delle mucche e delle capre, che mischiano le proprie feci alla paglia e alle erbe che servono loro da lettiera. A queste si possono aggiungere le foglie morte, le piume, i peli, la cenere del camino, l’argilla e persino le corna o le ossa degli animali. Come una brava madre raduna tutti gli ingredienti prima di procedere alla cottura del cibo per nutrire la sua famiglia, il contadino e la contadina fanno lo stesso per nutrire il loro campo, ma in realtà si tratta più di una cottura-fermentazione. Se ci si accontenta di spargere gli ingredienti sulla terra, una gran parte verrà perduta e la terra esposta al sole, alla mancanza di acqua e al vento non potrà digerirli. Anche le deiezioni animali, che alcuni tra noi dicono di utilizzare per fertilizzare i campi, perdono una parte importante del loro potere perché hanno lo stesso effetto che hanno certi alimenti crudi nell’essere umano. Come potrete verificare, ogni famiglia ha un luogo speciale per realizzare facilmente l’opera di fermentazione.

Nella scelta del luogo dove siamo adesso, abbiamo tenuto conto di varie esigenze. Per la fermentazione, l’acqua è indispensabile e l’ombra necessaria. Il sole e il vento che inaridisce sono nocivi alla fermentazione e bisogna premunirsi. Perciò qui c’è il pozzo. Accanto al pozzo, c’è un bacino dove abbiamo accumulato la paglia dei cereali e altri scarti. Da due giorni abbiamo riempito il bacino così che la paglia possa essere bene intrisa d’acqua. Il resto dei rifiuti è costituito da deiezioni animali, foglie morte e altri rifiuti. Accanto ai rifiuti vegetali e animali, abbiamo ammassato un monticello di argilla, mentre la cenere è nel paniere che vedete. L’ombra, in caso non ci siano alberi, può essere prodotta costruendo delle coperture di ramaglie o coprendo i cumuli con la paglia, le stuoie o qualsiasi altra cosa. L’importante è che ci sia l’acqua. Se ci sono alberi ombrosi e acqua nello stesso luogo, quello è il posto migliore.

Alcune famiglie, per comodità o per accordi tra loro, si sono radunate in luoghi comuni per realizzare insieme le opere per la fermentazione. Tutte le soluzioni vanno bene, fintanto che vengano rispettate le raccomandazioni indispensabili. Gli scarti animali e vegetali, l’argilla, la cenere del legno, l’acqua e l’ombra insieme, ci danno tutto il necessario per una buona fermentazione. Come vedete, i cumuli riposano per terra, riposano nella terra. Questa vicinanza con la terra è molto benefica. Per facilitarla, abbiamo scavato quattro fossi larghi due piedi e lunghi quattro, profondi solo un palmo. Le fosse sono della stessa grandezza e sono una accanto all’altra. Solo un passo le separa. La terra scavata viene messa da parte e verrà utilizzata per ricoprire i cumuli o per essere mischiata a essi poco a poco. In questo modo abbiamo creato delle specie di marmitte per la cottura-fermentazione, che dura sessanta giorni, e che si conclude con la nascita della materia nera. Ora, insieme, costruiremo un cumulo nella fossa vuota, così che siate in grado in futuro di fare la vostra pentola di fermentazione”.

Usseinì si liberò del mantello, prese un attrezzo piatto di ferro e sparse l’argilla sul fondo della fossa dicendo: “Non dobbiamo dimenticare che l’acqua è necessaria alla fermentazione ma la terra potrebbe assorbirla troppo velocemente. Allora ricorro al potere dell’argilla per impedirle la fuga. Perciò, la spargo in modo uniforme con uno spessore di circa quattro dita. Poi bagno l’argilla con tre o quattro secchi d’acqua. Spargo le deiezioni animali nello stesso modo e con lo stesso spessore dell’argilla, e bagno anche quelle. Il letame animale contiene sostanze molto utili alla terra. Sopra il letame, stendo la paglia e gli scarti che prendo dal bacile in cui sono rimasti a bagno per due giorni. Questa volta, lo spessore è di un palmo. L’acqua in eccesso si sparge sull’argilla e sul letame e non va perduta. Poiché i diversi strati devono compattarsi, cammino sulla paglia e la costringo a stringersi, ma senza esagerare. A questo punto spargo qualche pugno di cenere di legna come quando si aggiunge il sale alle pietanze”.

Dopo aver completato l’opera, Usseinì ci invitò a provare anche noi a costruire un cumulo come ci aveva insegnato (….). Uno di noi ha detto a Usseinì: “La presenza della terra, dell’acqua e del soffio ci sembra evidente, ma il fuoco ci stupisce. Ci potresti spiegare?”. Il nostro iniziatore ha attirato la nostra attenzione su uno dei cumuli davanti al nostro e ha risposto: “Capisco il vostro stupore, è lo stesso che provai io stesso durante la mia iniziazione. Eppure è vero che il cumulo si riscalda nei primi giorni. Questo che vediamo è stato rivoltato una prima volta poco tempo fa. Ha diciotto giorni. Il fuoco è moderato adesso, ma lo potete sentire appoggiandovi la mano”.

Abbiamo messo le mani nel corpo del cumulo e ci siamo resi conto che era vero. “I primi tempi – continuò Usseinì – il calore è tale che non ci permette di tenere la mano nel cumulo. È come una forte febbre. Si può dire che il cumulo ha la febbre come se fosse un essere umano. La febbre purifica il corpo dai germi cattivi. L’acqua se ne libera evaporando e traspira, proprio come un essere umano. Il cumulo diventa la pentola per cuocere gli ingredienti. Con il fuoco e l’acqua, gli ingredienti si rammolliscono, gli odori si spandono proprio come da una pentola. Ciononostante, per evitare di bruciare e rovinare gli ingredienti, il fuoco alto non deve durare che tre o quattro giorni. Dobbiamo abbassarlo come fa la cuoca, aggiungendo acqua alla pentola. Perciò spargiamo acqua finché non riusciamo a tenere la mano nel cumulo. La febbre deve continuare la sua opera salutare, ma senza eccessi distruttivi”. (….)


Tratto da “Parole di terra. Dal saccheggio della terra al ritorno della comunità” (Pentàgora): 192 pagine, 12 euro (il libro si può richiedere direttamente all’editore: ordinipentagora.it, tel. 019 811800)

Contadino, scrittore e filosofo di origine algerina, Pierre Rabhi è uno dei pionieri dell’agroecologia e dell’agricoltura contadina, si occupa dei temi della decrescita e della lotta contro la desertificazione