“Quando sei incatenata a un albero per il collo e ti manca tutto… Mi ci sono voluti anni a capirlo, ma hai ancora la libertà più importante: quella di decidere che tipo di persona vuoi essere” --- Un inferno verde fatto di fango, afa, insetti e malattia sul quale regnano il cinismo e la brutalità dei guerriglieri. Gabbie e catene, marce forzate e un’incontenibile voglia di libertà. L’ansia per la famiglia lontana e il conforto della preghiera. Ingrid Betancourt, rapita dalle Farc nel 2002, racconta la vita ai confini della civiltà, e spesso oltre quelli dell’orrore. Dove una piccola radio, un cucchiaio di zucchero, una scimmietta da addomesticare possono salvare dalla follia. Ma dove le persone non sono mai quello che sembrano: le compagne di prigionia, i soldati, gli amici, gli aguzzini nascondono ciascuno segreti e traumi, e alcuni saranno protagonisti poi di aspre polemiche seguite alla liberazione. Un documento prezioso e spietato sulle ambiguità dell’animo umano di fronte all’estremo, una lettura appassionante e un’occasione per meditare.

Intervista a Ingrid Betancourt (video)

Beatrice Borromeo intervista Ingrid Betancourt per il Fatto Quotidiano. La prigionia, la conquista della morte, il rapporto devastato con i figli e le umiliazioni subite: l'ex candidata alla presidenza della Colombia racconta i suoi sei anni nella giungla ostaggio delle Farc.

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15 ottobre 2010

Betancourt, la conquista della morte

L'attivista rapita dai guerriglieri delle Farc: "Non ho più paura di nulla. Ma non ho gioito quando ho saputo che uno dei miei carcerieri era stato ucciso"

Otto anni fa, mentre correva per la presidenza della Colombia, Ingrid Betancourt è stata sequestrata dalle Farc, “incatenata a un albero per il collo, ricoperta d’insetti, presa a botte con i calci dei fucili e trattata come una bestia”.

Ora racconta in un libro, Non c’è silenzio che non abbia fine (Rizzoli, 709 pagine, 21 euro), i suoi sei anni nella giungla, dove “si è obbligati a chiedere il permesso per mangiare, per andare in bagno, per parlare”.

Betancourt, pochi mesi dopo il sequestro ha saputo che suo padre era morto leggendo un giornale dimenticato nell’accampamento. Si possono davvero superare il dolore, la rabbia e la frustrazione per quello che ha subito?

Frustrazione e rabbia è possibile. Non il dolore, perché dimenticare è molto difficile.

E perdonare?

Io l’ho fatto. Non volevo che i miei aguzzini mi trasformassero in un animale. Ho deciso che il giorno in cui mi avrebbero liberata volevo essere davvero libera: e l’odio è una prigione, l’ennesima catena.

Due settimane fa uno dei suoi carcerieri – Mono Jojoy, tra i principali leader delle Farc – è stato ucciso. Come ha reagito alla notizia?

Era uno dei più crudeli. Mi sono sorpresa perché non ho sentito alcuna gioia, non ho provato nulla. Ho pensato: ce l’ho fatta.

Nel libro dice che ha accettato serenamente l’idea di morire. È così?

Sì e non essere più atterriti da quella paura è stata un’enorme conquista. È successo dopo cinque anni di prigionia: ero molto malata, non avevo medicine e le Farc mi ignoravano. Ho pensato che la mia morte fosse imminente. E ho capito che era la mia opzione migliore.

Nonostante i suoi figli e sua madre che l’aspettavano?

Soprattutto per loro. Non avrei più sofferto, avrei raggiunto mio padre e liberato la mia famiglia dall’incubo della mia prigionia, dal dovere di aspettarmi. La loro vita si era fermata per colpa mia: sarebbe stato un bene per tutti.

Ora ha di nuovo qualcosa da perdere. Le è tornata la paura di morire?

No, non sento più alcun tipo di paura.

È quasi innaturale per un essere umano.

Per oltre sei anni la morte era sempre vicina a noi, eravamo costretti a metterla in conto ogni giorno. All’inizio ero paralizzata dal terrore ma a un certo punto si accetta tutto, anche quello.

Lei scrive: “Dio non esiste, e se esiste è un mostro”. Ha perso la fede nella giungla?

Quando mio padre è morto ho pensato che se esistesse un Dio buono non avrebbe mai permesso che io non fossi al suo capezzale. Riflettevo: posso onestamente credere che Dio esista?

Cos’ha concluso?

Il tempo passava e ho capito che è stata una benedizione che mio padre fosse morto così presto: non ha dovuto soffrire noi. Dio non poteva non esistere.

Quando l’hanno liberata, il 2 luglio 2008, un giornalista le ha chiesto se lei o altri ostaggi aveste subito abusi sessuali. Ha risposto: “Ci sono cose che devono restare nella giungla”.

Ho deciso di dire il necessario per essere capita. Ma penso che non bisogna parlare di tutto. E che era importante rispettare gli altri, raccontando solo la mia esperienza.

Cosa l’ha tenuta in vita?

Per colpa dei terroristi ho perso la mia casa, mio marito, il mio lavoro. Tutto. L’unica cosa che non volevo perdere era il mio essere madre. I miei figli sono stati la mia speranza. E quando sono tornata, anche la mia vera ossessione: volevo riuscire a essere madre ancora.

È riuscita a recuperare il rapporto con loro?

No. Era impossibile: ho lasciato dei bimbi e ho ritrovato due adulti. Ho dovuto costruire un rapporto tutto nuovo.

Si sono arrabbiati con lei perché è stata sequestrata?

Nonostante l’amore, erano furiosi. Non con me, con la vita. Volevano che capissi che anche loro avevano sofferto, forse più di me. Poi ci siamo detti: basta, andiamo avanti.

Quante persone sono ancora in mano alle Farc?

In tutto il Paese ci sono oltre tremila ostaggi sotto sequestro delle Farc, dei paramilitari o dei delinquenti comuni.

Lei ha fatto causa per 6,8 milioni di dollari allo Stato colombiano. Perché?

In Colombia è previsto un compenso per le vittime di terrorismo. Ma il governo ha presentato la mia richiesta come se fosse un’accusa verso i soldati che mi avevano liberata.

Temono che lei possa candidarsi di nuovo ?

Sì: ero diventata troppo popolare, mi avrebbero attaccato a prescindere, con ogni scusa. La mia famiglia e io siamo stati trattati come criminali da lapidare.

E ci tornerà, in politica?

Non sono pronta, mi fa schifo.

Molti colombiani sono arrabbiati con lei per la richiesta di risarcimento.

Quella è una società guasta. Pensano in modo ‘politicamente corretto’, che nel mio Paese significa credere ciecamente a ciò che dice il governo. Poi c’è il rapporto col denaro. La gente è avida, sempre pronta a puntare il dito quando si parla di soldi. Ma né per quella cifra, né per dieci o cento volte di più tornerei nella giungla. Quei soldi non mi ridaranno mio padre, né gli anni che ho perso senza la mia famiglia incatenata a un albero.

Crede che la sua gente abbia dimenticato quello che ha passato?

Possono provare compassione quando sanno che stai morendo nella giungla, ma non quando ne sei fuori. La compassione sparisce. Roba da malati.