Dopo la guerra jugoslava :
corpi di pace nonviolenti per la riconciliazione nel Kossovo
di Alberto L’Abate,
Campagna per una Soluzione Nonviolenta in Kossovo

articolo scritto per la Rivista “Testimonianze”,
numero di luglio-agosto 1999


La guerra nei Balcani ha distrutto non tanto le forze militari serbe (secondo il ministro della difesa tedesco, in una dichiarazione del 14 giugno “il danno loro inflitto dai bombardamenti della Nato è stato minimo”, e secondo il Times di Londra la Nato ha distrutto solo 13 dei circa 300 carri armati dell’Esercito Jugoslavo) ma la società civile serba, albanese, ed anche quella dei paesi occidentali.
La distruzione non è stata solo materiale (migliaia di civili uccisi, inquinamenti irreversibili che provocheranno danni e morti anche alle generazioni future, quasi un milione di deportati e profughi - prima albanesi del Kossovo, ora che questi stanno ritornando al loro paese serbi e rom che scappano da questa regione -, strade, ponti, acquedotti ed impianti per la produzione elettrica, industrie e abitazioni private - distrutte o bruciate, ecc. ecc.) ma anche psicologica. Il cittadino comune, non solo di quei paesi distrutti dalla guerra ma anche del mondo occidentale, si è visto trasformato in una pedina che subisce, ed alla fine spesso accetta - probabilmente anche a causa dell’uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa - una guerra che doveva durare pochi giorni e che è invece durata oltre tre mesi, e che non ha raggiunto gli obbiettivi fondamentali per i quali si è detto averla iniziata, e cioè la protezione della società civile kossovara, la cui pulizia etnica e la cui persecuzione è aumentata invece proprio dopo l’inizio della guerra. Una guerra assurda, da tutte e due le parti, che ha visto superare il conflitto armato con accordi che, se si fossero realmente voluti e ricercati, avrebbero potuto essere raggiunti anche prima, senza scatenarla.
Il singolo cittadino, e la società civile in genere, esce da questa guerra più “alienato” di quanto fosse già prima, con un gran senso di impotenza, e cioè con la sensazione che a decidere le guerre sono poteri più grandi di lui (economici, politiche di potenza, ecc.), e che la vera vittima della guerra è la stessa società civile, e la convivenza interetnica in tutti i paesi del mondo. La guerra ha infatti spezzato gli ultimi fili del dialogo e polarizzato i due gruppi nazionali, da una parte sulle posizioni di Milo_evic e degli ultra-nazionalisti serbi, e dall’altra su quelle dello UCK. E questo rende difficile ipotizzare un futuro di dialogo e di coesistenza. La guerra non è certo il modo migliore per far convivere due popoli. Essa è al più la premessa di una spartizione dei territori su base etnica, come è successo in Bosnia, e come rischia di accadere anche nel Kossovo. La comunità internazionale si è posto infatti l’obiettivo di far rientrare nel Kossovo i profughi albanesi espulsi o scappati da questa regione e fino a poco tempo fa bivaccanti nei paesi vicini (Albania, Macedonia, Montenegro, Bosnia, Italia). E questo sta avvenendo nelle zone sotto controllo delle forze internazionali di “peace-keeping” e nelle aree dove gli albanesi erano una maggioranza. Ma sarà molto più difficile nei comuni del nord del Kossovo in cui i serbi erano la quasi totalità della popolazione, a meno di non prevedere in queste aree una vera e propria occupazione militare da parte delle truppe internazionali. Ma questo porrebbe il grosso problema del comune di Pristina, prima della guerra abitata da circa il 20/25% di popolazione serba, con certe aree abitate prevalentemente da loro. Avremo una nuova Berlino divisa in due? E’ certo che le premesse per una convivenza pacifica tra le due etnie sono state estremamente ridotte dalla guerra che ha incrementato notevolmente gli odi reciproci, e che sarà necessario un grossissimo lavoro di riflessione critica sul passato, di riapertura del dialogo, e di ricerca di forme di riconciliazione tra i due gruppi etnici perché si possa pensare nuovamente ad una convivenza pacifica nello stesso territorio, soprattutto quando si porrà il problema (quando ?) dell’uscita delle truppe internazionali dal territorio. Una convivenza garantita dalla presenza di truppe esterne sarebbe infatti estremamente falsa e destinata a durare molto poco. Il dialogo può riprendere solo a condizione che ci sia un reale processo di democratizzazione di tutta l’area, e che si proceda, attraverso un valido piano di sviluppo economico, sociale e politico dell’area, al superamento dei singoli stati ed alla creazione di una entità balcanica come sub-area di una Europa Unita. In una entità del genere, se portata avanti non come imposizione dall’esterno ma come maturazione interna delle varie nazionalità dell’area, lo statuto finale del Kossovo assumerebbe una importanza relativa. Potrebbe essere una autonomia internazionalmente concordata e protetta, oppure una indipendenza alla pari con le altre entità statuali cui si leghi con rapporti confederali, ma l’elemento fondamentale è quello che di questa entità facciano parte non solo la Serbia, il Montenegro ed il Kossovo, ma anche l’Albania, la Macedonia, ma forse anche la Bosnia ed altri paesi vicini. Il processo di parcellizzazione della ex-Jugoslavia deve perciò finire per dare avvio ad un processo opposto di riaggregazione, indispensabile non solo a livello politico, ma soprattutto a quello economico. L’economia e lo sviluppo economico trovano nelle frammentazioni statuali una limitazione ed uno ostacolo, mentre sono aiutate da un processo inverso di limitazione dei confini. Ma tutto questo presuppone che l’Europa si affretti a diventare un soggetto politico esso stesso, e non si limiti ad una corsa per la spartizione del mercato di quest’area, come avvenuto finora, in concorrenza l’uno con l’altro.
L’azione della Nato (1) ha avuto l’effetto di destabilizzare tutta l’area, coinvolta nel conflitto o direttamente (si pensi al sempre maggiore coinvolgimento dell’Albania nel conflitto aperto) od indirettamente attraverso la massa dei profughi che si sono rifugiati nei paesi vicini, e molti stanno tuttora facendolo. La guerra, oltre a destabilizzare tutti i Balcani, è servita a mandare a fondo la moneta europea nei confronti del dollaro. Solo una Unione Europea politica può superare l’attuale unipolarismo statunitense che rischia di essere, per la pace, ancora peggiore del vecchio bipolarismo Est/Ovest ormai ampiamente affossato. Nel lavoro di ricostruzione della convivenza la teoria e la pratica della nonviolenza possono essere molto utili. In questo possono aiutare, da una parte, la concezione nonviolenta del superamento delle forme statuali chiuse e la ricerca di forme il più possibili aperte ed allargate, basate sull’uguaglianza e non sulla dominanza di un paese sull’altro, ed all’interno degli stati, sulla convivenza tra gruppi etnici e nazionali diversi e non sul predominio di uno sull’altro. Dall’altra parte chi ha lavorato con la nonviolenza conosce, meglio di altri, l’importanza e le tecniche di educazione alla pace, alla convivenza tra i popoli, ed al superamento dei pregiudizi interetnici, e può perciò lavorare per diffondere queste competenze tra le varie popolazioni della zona per aiutarle a ristabilire un dialogo reciproco ed a trovare forme di riconciliazione. Queste competenze esistono già nella zona: si pensi alle lotte nonviolente portate avanti dalla popolazione albanese del Kossovo per tanti anni, od a quelle organizzate dall’opposizione serba contro la falsificazione dei dati elettorali da parte del governo serbo, ed al bellissimo movimento della riconciliazione nel Kossovo che ha visto nel 1990, in pochi mesi, riconciliare oltre 1250 famiglie legate tra loro da un patto di vendetta, superato grazie alla rivalorizzazione del principio del perdono e della riconciliazione che facevano parte dello stesso codice (2). La maggior parte di queste riconciliazioni erano avvenute tra appartenenti della etnia albanese, ma un certo numero, quasi un centinaio, anche con membri di altre etnie (serbi, macedoni, montenegrini). Ma la guerra ha affievolito il ricordo di queste competenze ed ha messo in primo piano l’esercizio delle armi, ed ha aumentato gli odi ed i pregiudizi reciproci. Per questo è importante che nella zona non vadano solo forze armate delle Nazioni Unite, ma anche persone esperte in mediazione dei conflitti e nella pratica della nonviolenza, come, per esempio, i Corpi Europei Civili di Pace, che Alex Langer aveva promosso e che una raccomandazione del Parlamento Europeo, del febbraio 1999, suggerisce di organizzare (3). Tali corpi, in attesa della loro costituzione ufficiale, possono essere anticipati da persone facenti parte delle organizzazioni che hanno lavorato in questi anni in questa area con questi stessi fini (come, ad esempio, la Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, oppure i Beati i Costruttori di Pace, o i membri dell’Operazione Colomba dell’Associazione Giovanni XXIII) e possono portare avanti da subito un lavoro di questo tipo che serva come rinforzo alle capacità locali ora emarginate per farle ritornare in primo piano, aiutandole anche a riorganizzarsi e potenziarsi collegandosi a rete non solo all’interno dello stesso gruppo etnico ma tra gruppi diversi (ad esempio tra gruppi nonviolenti serbi, albanesi, macedoni, montenegrini, ecc.). Questo può permettere a queste stesse organizzazioni, una volta che abbiano ripreso le loro attività, e l’abbiano viste anche potenziate grazie a questo apporto esterno, e si siano collegate a rete, di lavorare sugli interessi comuni per la rinascita di queste zone, e per un processo di riconciliazione che non dimentichi le ingiustizie ed i crimini commessi in passato, ma cerchi di superarli nello stesso modo in cui è stato portato avanti il processo di riconciliazione, attraverso commissioni apposite, in Sud Africa, dopo la fine dell’apartheid (4).
Per portare avanti un lavoro di questo tipo può essere utile il progetto della costituzione di
ambasciate di pace a Belgrado ed a Pristina messo a punto, congiuntamente, dalla Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, e dalla costituenda Associazione dei “Berretti Bianchi” (5). L’idea della costituzione di Ambasciate di Pace in zone a rischio era stata lanciata da alcuni pacifisti jugoslavi dopo una delle varie iniziative in cui una carovana di pacifisti occidentali era stata a visitare i vari paesi dell’area per appoggiare le forze che in quella zona si opponevano alla guerra e cercavano forme nuove, ma importanti, per la convivenza tra i diversi popoli che componevano quel paese. Dopo una di queste marce apparve, su “Peace News” una lettera firmata da alcuni pacifisti dei vari paesi che componevano l’ex-Jugoslavia. In questa si diceva, in modo molto dolce, ma deciso, qualche cosa di simile: ”Apprezziamo la vostra buona volontà di appoggiare i nostri movimenti pacifisti ma crediamo che dovreste studiare anche forme nuove di intervento. Voi venite di solito da noi per una settimana o due. Durante questo periodo siamo lieti di collaborare con voi e ci mettiamo in luce come vostri amici. Ma quando ripartite noi restiamo qui, ed il fatto di essere vostri amici ci mette molte volte in difficoltà e ci espone alle angherie dei governi e della gente che è favorevole alla guerra. Dovreste perciò studiare la possibilità, invece di venire in tanti per pochi giorni, di venire anche in un piccolo gruppo restando a vivere qui da noi a lungo in modo da poter comprendere meglio le condizioni in cui viviamo, e di darci una mano, alla pari, con consigli, sostegni materiali, o in altri modi, da concordare insieme, per raggiungere i nostri comuni obbiettivi di pace e di convivenza tra i popoli”. Da questa lettera e dall’esperienza acquisita con il Campo della Pace realizzato nel 1990 a Bagdad, unitamente a ulteriori riflessioni all’interno di quell’area che aveva dato vita all’iniziativa irakena ed alla Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, nacque la prima idea dell’apertura di quella che è stata chiamata l’Ambasciata di Pace di Pristina. Questa si richiama anche alle esperienze di questo tipo fatte da comunità quacchere in vari paesi in conflitto o dove il conflitto stava per iniziare, esperienze che hanno portato queste comunità ad essere tra le più attive, ed anche esperte, nella mediazione dei conflitti armati. La richiesta di un appoggio a lungo termine si è ripetuta da parte della popolazione albanese del Kossovo che stava lottando con la non-violenza perché gli venissero restituite le prerogative statuali dell’autonomia di cui godeva questa provincia-stato sulla base della Costituzione del 1974, e che gli sono state tolte, nel 1989, con la violenza e con la frode . Essa si lamentava che i governi occidentali capissero solo il linguaggio delle armi e non quello della non-violenza, e chiedeva aiuto per superare questo stato di cose e per essere aiutata nella sua lotta nonviolenta per far comprendere le sue ragioni al mondo occidentale che sentiva sordo ai suoi problemi. Per questo nel 1993 si è costituita la “Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo”, che raggruppava e raggruppa varie ONG italiane impegnate nella nonviolenza attiva. E nel 1995 fu deciso, da parte di questa, di aprire una Ambasciata di Pace a Pristina, resa possibile da un finanziamento della Campagna Italiana, e poi anche di quella Internazionale, per l’Obiezione di Coscienza alle Spese Militari (OSM). L’Ambasciata è restata aperta fino al 1997, con visite successive fino alla fine del 1998. Ha lavorato per riaprire la comunicazione tra serbi ed albanesi della Serbia e del Kossovo, in particolare tra gruppi di base delle due parti; per appoggiare le poche organizzazioni del Kossovo non soggette alla pulizia etnica perciò miste, da noi definite “focolai di pace” (tra questi in particolare le associazioni handicappati); per far conoscere, con visite studio, mozioni, mostre fotografiche, video, convegni, libri, articoli, conferenze, i problemi di quest’area al pubblico più vasto del nostro paese ed alla nostra classe politica; per studiare a fondo, ascoltando le ragioni delle due parti, le possibili soluzioni nonviolente al conflitto, sia elaborate da noi stessi che da altre organizzazioni nongovernative attive in questa area, e presentarle in incontri appositi per la mediazione del conflitto cui erano presenti le due parti, (Vienna, Ulqin),al nostro ministero, ed al Parlamento Europeo.
Secondo alcuni critici l’esperienza dell’Ambasciata di Pace a Pristina sarebbe fallita perché non è riuscita ad evitare la guerra in atto. In realtà chi fa questo rilievo non tiene conto di vari aspetti:
1) I grossi interessi economici e strategici coinvolti tuttora nella guerra che portano gli stati più potenti ad investire nella produzione e nel traffico di armi quantità di risorse ingentissime, che sperano di riavere o attraverso la vendita di armi “nuove”, o nella ricostruzione del paese distrutto, o nell’influenza politico-strategica in una zona importante del mondo.
2) l’immenso squilibrio tra le spese investite per fare la guerra e quelle invece dedicate alla prevenzione dei conflitti armati. Basti dire, a mò di esempio, che le spese affrontate per le attività della nostra organizzazione e di tutte le altre che hanno lavorato per la prevenzione del conflitto armato nel Kossovo rappresentano, in totale, all’incirca solo il costo di pochi minuti di guerra (al massimo cinque), che, in termini percentuali, corrispondono solo allo 0,006%, ovvero 6 lire su 100.000 di quanto è stato speso in soli 60 giorni di bombardamenti (dei circa 75 in cui è durata la guerra). E questo senza tenere conto di tutte le spese che vengono e verranno investite per l’assistenza ai profughi causati da questa guerra e dei costi per la ricostruzione di ciò che la guerra ha distrutto (ma molte vite umane non saranno “ricostruibili”). Se alla prevenzione si fossero dedicate più risorse, economiche ed umane, sicuramente i risultati avrebbero potuto essere molto diversi.
3) Che quanto ha costruito l’Ambasciata non va visto soltanto dai risultati a breve raggio, ma anche nei suoi effetti a lungo andare, soprattutto al momento in cui, come attualmente, è necessario lavorare per la riconciliazione dei popoli che la guerra ha allontanato ulteriormente, affinché possano continuare a convivere su uno stesso territorio, cercando forme nuove di organizzazione, possibilmente a livello confederale, come sotto-area dell’Europa stessa.

4) Che, nella prospettiva dell’evoluzione storica, l’esperienza dell’Ambasciata di Pace segna un passo ulteriore nella direzione del rafforzamento dell’incontro tra i popoli, e della loro comunicazione tra di loro, grazie allo sviluppo di forme di diplomazia popolare che rispondono anche alla necessità di superare sia gli Stati-Nazione, sia l’attuale assetto delle organizzazioni sovra-nazionali le quali, per la loro stretta dipendenza dagli Stati più potenti, sono in gran crisi e sull’orlo della dissoluzione. Invece lo sviluppo, dal basso, di forme di diplomazia popolare, tra cui si inserisce, a buon diritto, l’esperienza delle Ambasciate di Pace, può aiutare la costruzione di una pace mondiale che non sia soltanto “assenza di guerra”, ma anche trasformazione delle relazioni tra i popoli, e fondi la risoluzione delle controversie sulla prevenzione del conflitto armato mediante la ricerca di soluzioni giuste ma pacifiche, piuttosto che sugli equilibri e le alchimie politico-militari.
NOTE

(1) Sulle possibilità di prevenire la guerra, e sulle ragioni che hanno portato al conflitto armato si veda il mio: Kossovo: una guerra annunciata, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba), 1999.
(2) Sul movimento della riconciliazione del Kossovo si veda il n° 29, sett.-dic. 1997, della Rivista “Religioni e Società”: Kossovo, conflitto e riconciliazione in un crocevia balcanico, da me curato; oppure il libro di G. eV. Salvoldi, L. Gjergji, Kosovo – Nonviolenza per la riconciliazione, EMI, Bologna, 1999.
(3) Il testo della raccomandazione, è pubblicato in “Azione Nonviolenta”, marzo 1999, pp.10-13.
(4) Si veda su questo l’articolo di N.Mandela, Perdono per il passato ma senza dimenticare, in “La Repubblica”, del 22 giugno 1999, ed il libro, Verità senza vendetta, curato da M.Flores, e pubblicato, nel 1998, da Manifesto Libri.
(5) La parte finale di questo scritto riprende parti del testo : “Progetto Ambasciate di Pace” da me predisposto e messo a punto ed approvato nel corso del Seminario di studio: Kossovo: che fare?, svoltosi a Firenze nei giorni 22-23 maggio 1999.

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