Esperienze di Nonviolenza nei Movimenti Italiani di Cambiamento Sociale

di Alberto Labate Docente presso l'Università di Firenze

discorso tenuto al Seminario Nazionale
"Verso la costruzione dei Gruppi di Azione Nonviolenta"
Roma 27-29 settembre 2001

La relazione si è sviluppata in 7 considerazioni generali e quattro esempi concreti.

1. la prima considerazione riguarda la generale incultura della nonviolenza, che traspare da molti opinionisti, anche molto famosi, che confondono pacifismo e nonviolenza, e che continuano a considerare quest’ultima come passività, come accettazione supina delle ingiustizie, come vigliaccheria, ecc.

2. La seconda considerazione riguarda la distinzione tra movimento pacifista e movimento nonviolento. Come accennato prima spesso questi vengono considerati essere la stessa cosa. In realtà tra loro c’è una differenza notevolissima. Infatti il movimento per la pace è semplicemente re-attivo. Si mette in moto quando si prevede o sta per iniziare una guerra. Allora molte migliaia di persone, che molto spesso prima non hanno mosso un dito per evitare che la situazione si incancrenisse, si mettono in moto, fanno grandi manifestazioni di massa, protestano e scrivono contro la guerra. Ma di solito, appena la guerra è iniziata, oppure si è conclusa, il movimento sparisce del tutto. Il movimento nonviolento è invece pro-attivo. E cioè si mette in moto molto prima (in numeri molto minori, e perciò meno visibili, ma in modo continuato e approfondito) per prevenire il conflitto armato, per cercare soluzioni nonviolente, oppure, durante la guerra, per interporsi in modo nonviolento e far terminare il conflitto armato, e mettere gli avversari ad un tavolo di trattative, oppure dopo la guerra, per ristabilire i rapporti umani tra i due contendenti, e trovare forme di riconciliazione tra di loro. La ragione principale di questa differenza è il fatto che nella nonviolenza ci sono due armi principali: l’azione diretta nonviolenta, che ci dà strumenti per contrastare quanto c’è di sbagliato (tanto) nella società attuale, ed il progetto costruttivo, che ci indica dove vogliamo andare, che tipo di società vogliamo mettere in vita, ecc. Le battaglie nonviolente vincenti hanno sempre utilizzato ambedue queste “armi”, o se non vogliamo usare una terminologia militare, “strumenti” di cambiamento sociale, in modo interrelato ed in simbiosi l’uno con l’altro.

3. Ci sono studiosi , come Bobbio, che pur molto simpatetico verso la nonviolenza, esprime dei dubbi sulla sua efficacia. In realtà ci sono moltissimi esempi di come questa, se ben utilizzata, possa essere molto efficace. Io ne citerò solo quattro, ma se ne potrebbero presentare molte di più:
3.1 Vari anni fa, a Genova, c’era programmata ogni anno una mostra navale bellica, per vendere meglio le armi prodotte dalle nostre industrie. Dalle organizzazioni di base di Genova fu organizzato un blocco alla mostra che, nella mattina, coinvolse svariate migliaia di persone, ma che, nel pomeriggio, vide la partecipazione ad una manifestazione nonviolenta (serpentone) di moltissime migliaia di persone. A mia conoscenza è stata una delle più belle manifestazioni nonviolente mai svolte in Italia. L’obbiettivo era quello di far chiudere quella che era stata definita, dai Genovesi “la mostra dei mostri”. In effetti, dopo questa manifestazione, la mostra fu sospesa e trasferita in mezzo al mare, su una nave militare raggiungibile solo con elicotteri. Ma dopo qualche anno i costruttori di armi italiani tornarono alla carica, chiedendone di nuovo l’apertura a Genova. La loro argomentazione era che l’Italia, a causa di questa limitazione, era passata dal 5° posto tra i venditori di armi del mondo, al 13° posto. Non so se questo sia vero, ma è certo che se le nostre iniziative sono riuscite a ridurre talmente il nostro commercio di armi, non possiamo certo dire che la nonviolenza sia inefficace. Con quella argomentazione i costruttori e venditori di armi nostrane sono riusciti a far riaprire la mostra a Genova, ma dopo un secondo blocco, cui ha partecipato pure una buona parte della popolazione genovese, la mostra è stata riportata nella nave militare.
3.2 Il secondo esempio è preso dalla lotta e dal lavoro di Danilo Dolci in Sicilia. Dopo una serie di sue denuncie (si pensi al suo libro “Banditi a Partinico”) sul fatto che lo stato italiano spendeva soldi solo per la repressione di coloro che si “ribellavano” al loro stato di miseria (spendendo perciò notevoli cifre per l’apparato repressivo : carabinieri, polizia, militari, giustizia, carceri, ecc.) ma quasi niente per aiutare le popolazioni di quella regione a svilupparsi economicamente e socialmente, grazie al premio Lenin per la Pace, ed al sostegno di molti gruppi di amici organizzatisi in varie parti del mondo, ha messo su, lui stesso, un lavoro di sviluppo di comunità (con tecnici vari, assistenti sociali, infermieri, agronomi, economisti pratici, ecc.), attuando forme di programmazione partecipata - dal basso (da lui definita maieutica reciproca, perché la partecipazione della popolazione stessa della zona arricchiva la presa di coscienza dei problemi reali e delle possibili soluzioni), e grazie al suggerimento di un contadino della zona, e vari anni di studi e lotte, è riuscito a far costruire una diga del fiume Iato, che dà acqua alle zone vicine (anche a Palermo), ha aumentato notevolmente il reddito delle campagne circostanti, e che viene gestito (contrariamente alle altre dighe della Sicilia strettamente controllate dalla mafia, e perciò con prezzi dell’acqua esorbitanti) da una cooperativa formata dai piccoli proprietari e contadini di quell’area. Ma se si va a vedere a fondo l’influenza di Dolci non è stata solo locale. Un notevole numero dei leaders studenteschi del 1968 erano stati, come me, a lavorare come volontari con Danilo Dolci. E questo aveva dato loro la forza di portare avanti una lotta, come quella studentesca, che grazie anche ad Aldo Capitini che aveva preconizzato molte delle idee che saranno riprese dal movimento, almeno di quella parte di questo che si ispirava alla nonviolenza (l’importanza della partecipazione dal basso- del “potere di tutti”, e di metodi decisionali consensuali – l’ ”assemblea”, ad esempio) ha contribuito sicuramente a far prendere coscienza ad una gran parte della popolazione italiana (si pensi allo sviluppo, tra gli operai, della “scienza operaia” e della “non delega della salute”) ed ha notevolmente contribuito anche a far attuare, dopo qualche anno, la nascita delle Regioni, che erano iscritte nella nostra Carta Costituzionale, ma che, fino ad allora, nessuna forza politica si era sentita di realizzare .
3.3 Il terzo esempio, dell’efficacia della lotta nonviolenta, viene dalle lotte contro le Centrali nucleari della Maremma Toscana e Laziale.. Oltre alla Centrale Nucleare di Montalto, nella Maremma Laziale, che era già stata decisa ed in costruzione, c’era il progetto di farne un’altra a Capalbio, nella Maremma Toscana. La sua realizzazione avrebbe portato la Maremma ad essere una delle zone italiane a più alta concentrazione di centrali nucleari, una vera e propria “mecca” del nucleare. Ma la popolazione si organizzò e, per opporsi a questo progetto, bloccò la linea ferroviaria Pisa-Roma per circa due ore. La polizia prese molte foto del blocco, e denunciò per questa manifestazione non autorizzata circa una quarantina di persone, alcuni dei quali erano gli stessi organizzatori, ma altri erano invece cittadini comuni che avevano partecipato al blocco, ma che erano in condizioni di difficoltà ad affrontare un processo (uno, ad esempio, aspettava di essere assunto dalle Ferrovie dello Stato, un altro aveva una licenza per vendita ambulante e rischiava che gli venisse tolta, e così via). Così quando si arrivò al processo la difesa cercò di diminuire l’importanza del blocco sostenendo che non c’era stata la volontà di farlo, ma che i treni erano stati bloccati per iniziativa del Capostazione di Capalbio che aveva paura che potesse succedere un incidente ai manifestanti. E molti di questi sostennero che non erano andati nelle rotaie per fare il blocco, ma solo per vedere degli amici, o per traversarle per altre ragioni. Ed i giudici assolsero i manifestanti per “insufficienza di prove” sulla volontà di voler fare un blocco. Ma Don Sirio Politi, un prete operaio che gestiva una chiesetta nel porto di Viareggio, ed era stato, per molti anni, il Presidente del Movimento Italiano per la Riconciliazione, ed il sottoscritto, che eravamo stati chiamati come testimoni, abbiamo invece dichiarato ai giudici che non eravamo solo presenti ma che avevamo partecipato anche al blocco. Ma varie altre persone (9) che avevano partecipato alla manifestazione si auto-incriminarono per la stessa azione, non tutte insieme ma progressivamente . Si arrivò così al nostro processo che si prolungò per oltre un anno, in tre diverse sessioni, perché ogni volta i giudici si trovavano di fronte ad altre auto-denunce e rimandavano il processo per unificarlo. Ma ad ogni incontro noi, la sera prima, organizzavamo un contro processo al quale erano invitati a parlare quelli che poi, il giorno dopo, avrebbero dovuto testimoniare in Tribunale a nostro favore. Tra i conferenzieri e testimoni a favore abbiamo avuto alcuni dei più noti studiosi italiani su questi temi (come Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Enzo Tiezzi, Giorgio Cortellessa, Giorgio Nebbia, ecc.). Gli imputati avevano, inoltre, scritto una lettera aperta ai giudici nella quale ammettevano la loro colpa ma sostenevano che il blocco era stato fatto per evitare dei danni alla salute della popolazione di quella area, ed avevano raccolto su questo aspetto una notevole documentazione che veniva messa a disposizione sia della stampa che dei giudici. Ed gli avvocati difensori, coordinati da Enzo Enriquez Agnoletti, che era stato vice sindaco di Firenze ai tempi di La Pira, e che era Vice Presidente del Senato, sostennero che avevamo agito in ottemperanza all’art: 6 della nostra Costituzione che dichiara la protezione della “Salute” come diritto fondamentale di ogni cittadino italiano. La stampa locale dette moto risalto a queste nostre tesi, ed a poco a poco, man mano che ci si avvicinava alla seduta finale del processo, l’appoggio da parte della popolazione alle nostre posizioni crebbe notevolmente. Tanto che il giorno del processo finale gli studenti di molte delle scuole superiori di Grosseto, il luogo dove si svolgeva il processo, non andarono a scuola per venire ad assistere all’udienza. E la sentenza fu molto coraggiosa, fummo assolti .per aver agito in “stato di necessità putativa”. E cioè perché credevamo che non ci fossero altri mezzi per salvare la popolazione da quel possibile rischio. La sentenza era così innovativa che la sera stessa, al giornale Radio 1, ne dettero notizia dicendo che era la prima volta che veniva utilizzata la motivazione di “stato di necessità” per la difesa di un diritto pubblico, come la salute, e non per la difesa di interessi personali, o di beni privati (come quando, per difendersi da un ladro, il padrone lo colpisce e ferisce). Ma in modo molto strano, per la giustizia italiana, in cui di solito tra il processo di primo grado e quello di secondo, passano vari anni, dopo nemmeno sei mesi c’è stato l’appello a Firenze, in cui i giudici non hanno voluto ascoltare nessun testimone di difesa ed è stata rivista la sentenza condannandoci a sei mesi per manifestazione non autorizzata. Sentenza poi confermata qualche anno dopo dalla Cassazione a Roma. La motivazione della condanna era stata che avremmo dovuto ricorrere a mezzi legali, come il referendum, per opporsi alla costruzione della centrale. Ma una smentita a questa motivazione c’è stata, nemmeno sei mesi dopo questa sentenza , quando la richiesta di referendum, già presentata da molte organizzazioni ambientaliste, era stata bocciata perché ritenuta non accettabile. C’è voluto, qualche anno dopo, il disastro di Cernobyl, con la caduta di particelle dell’incendio ivi divampato anche nel nostro paese ed il divieto, per molti mesi, di mangiare le verdure e l’insalata, o bere il latte delle nostre mucche, perché la situazione cambiasse e venisse approvata la nuova richiesta di referendum, poi, com’è noto, vinto dagli antinucleari, con l’affossamento definitivo del progetto della seconda centrale a Capalbio, e la riconversione di quella già costruita a Montalto. In questo caso la lotta nonviolenta, anche se non ha portato direttamente a risultati positivi alla fine della stessa, ha sicuramente influito in modo non indifferente sulla vittoria finale del referendum.
3.4 Il quarto esempio sono le lotte di Comiso contro la riconversione di quel vecchio aereoporto dismesso in una base per il lancio di missili nucleari Cruise. Questi sono missili detti “di primo colpo”; sono infatti missili molto precisi, e non facilmente individuabili, perché volano basso fuori dell’orbita dei radar, ma sono molto lenti, perciò sono utilizzabili solo in caso di guerra preventiva, prima che quelli del nemico siano stati già lanciati. Per questa ragione sono considerate arme di attacco e non di difesa. Infatti, nei vari processi che si sono tenuti contro i manifestanti che si opponevano al loro impianto, gli avvocati hanno fatto riferimento all’articolo 11 della nostra Costituzione che vieta la guerra di attacco, e riconosce solo quella di difesa. In realtà l’aeroporto è stato convertito in una base di missili, ma dopo alcuni anni si è arrivati al trattato Salt, tra Russia ed Stati Uniti, che vietava i missili a lunga gettata, come quelli Cruise., e la base è stato destituita come tale ed è servita per usi civili (come, ad esempio, per ospitare un certo numero di profughi dal Kossovo). E’ attualmente allo studio il suo ripristino ad aeroporto, ma per usi civili, e non militari. Il collegamento tra le nostre lotte ed il trattato Salt può essere considerato più tenue. Ma le nostre lotte non sono state le sole: in Inghilterra, in Olanda, in USA, ci sono state lotte altrettanto strenue, e qualche volta anche di più.., contro basi simili. Una domanda che mi sono posto spesso è questa: “Siamo proprio sicuri che il fatto che in Occidente ci fossero queste lotte contro gli impianti di missili di questo tipo, di attacco, non abbiano avuto alcuna influenza sulla proposta di “Disarmo nucleare unilaterale” fatta da Gorbaciov (che sapeva di avere dalla sua almeno una parte della popolazione dell’Occidente) e non abbiano influenzato anche l’accettazione della proposta fatta dal Presidente degli Stati Uniti , Ronald Reagan?”.. Io non ne sono affatto sicuro, per questo credo che queste lotte nonviolente siano state un successo.

4. Ma credo sia importante riferire anche di analisi storico-comparative fatte dal mio seminario di “Ricerca per la Pace” presso l’Università di Firenze. Queste avevano l’obiettivo di verificare l’efficacia comparativa di lotte nonviolente e di lotte armate ai fini del mutamento sociale.
I casi analizzati sono stati quattro:
4.1 Le lotte tra Israele e Palestina;
confrontando i risultati del periodo precedente alla Prima Intifada, durante il quale la strategia prevalente era quella di azione violente, normalmente definite “terroristiche” perché spesso non dirette contro i militari ma anche contro i civili, e quelle della Prima Intifada, che aveva usato la non collaborazione, l’obiezione di coscienza, il rifiuto di pagare le tasse, ed anche il lancio di pietre da parte di bambini, che, confrontate all’uso di carri armati e di mitra da parte dei soldati israeliani, sono state definite (Sharp) a “bassa intensità di violenza”;
4.2 La lotta contro Marcos nelle Filippine;
anche qui confrontando le azioni terroristiche precedenti, con quelle nonviolente portate avanti dalla popolazione civile guidata da Cory Aquino.
4.3. Le lotte studentesche di Piazza Tien an Men, a Pechino;
Il confronto in questo caso era tra la lotta nonviolenta degli studenti cinesi, e la risposta armata data dal governo;
4.4 Il confronto tra i risultati ottenuti dalle lotte armate delle “Brigate Rosse” e “Prima Linea”, con quelle nonviolente; in particolare della Campagna per l’Obiezione di coscienza alle Spese militari.

Le ipotesi che la ricerca ha potuto confermare, (esposte qui in modo molto sintetico), attraverso una analisi approfondita dei casi su citati, sono state quelle che la lotta nonviolenta tende a spaccare l’avversario tra una parte che appoggia quelli che lottano con la nonviolenza, e quelli invece che li contrastano comunque, senza tener conto della forma della lotta. Invece la lotta violenta ha l’effetto opposto, tende ad integrare l’avversario in un fronte unito contro quelli che usano questa strategia armata. Inoltre la lotta nonviolenta tende a trovare alleati anche nei paesi terzi, che possono svolgere un ruolo di mediatori, mentre quella armata tende a distaccarli ed allontanarli. Per questo la conclusione della ricerca, che è durata un anno, è stata quella che la lotta nonviolenta, in questi casi, è stata più efficace nel provocare mutamenti sociali di quella armata.

5. Una quinta considerazione riguarda invece il cambiamento all’interno della politica del nostro paese., attraverso un confronto tra il voto e le lotte nonviolente. Se si pensa al voto come strumento di cambiamento c’è da essere abbastanza delusi. Più le sinistre si sono avvicinate al potere, più queste hanno portato avanti politiche che prima venivano definite di destra. Ad esempio con l’impianto dei missili Cruise a Comiso, fatto durante il primo governo Craxi, oppure con la guerra Jugoslava, fatta dal Governo D’Alema. In complesso hanno portato avanti una politica di privatizzazione e di supremazia del mercato, abbandonando quasi del tutto i principi e le idee della programmazione, non solo quella di Dolci, dal basso, partecipata, ma anche quella più tradizionale, centralizzata. Le lotte nonviolente, con i tanti processi (spesso vinti), hanno portato a vittorie che si possono definire storiche, come l’equiparazione, nel tempo della durata, tra il servizio militare e quello civile, o come la sentenza della Corte Costituzionale (n. 165, del 24-5/1985) che ha dichiarato che la difesa della Patria può essere fatta anche senza l’uso delle armi, oppure, con la legge n.230 del 1998, con il riconoscimento che l’obiettore di coscienza può essere utilizzato per sperimentare e ricercare “forme di difesa civile non armata”, oppure che può prendere parte a missioni non armate all’estero. Tutto questo ha fatto si che il nostro paese sia uno dei paesi d’Europa più avanti, in Europa, nel riconoscimento istituzionale dei “Corpi Civili di Pace” che possano operare, nonviolentemente, per la prevenzione, il superamento dei conflitti armati, e la riconciliazione dopo la guerra.

6. La sesta considerazione riguarda un certo numero di indicazioni metodologiche che possiamo derivare dalle esperienze italiane di lotte nonviolente fatte finora, se si vogliono portare vanti lotte nonviolente vincenti: I, l’importanza della raccolta di documentazione alternativa, prima e durante la lotta (si pensi al ruolo di queste nel processo di Grosseto); II, a questo collegato c’è l’importanza del lavoro di informazione e di contro informazione; III, l’importanza del lavoro di formazione, indispensabile se si vogliono portare avanti lotte nonviolente che possono comportare situazioni di rischio ed eventuali processi; IV, importanza di un equilibrio tra quantità e qualità.. Spesso si cerca di essere in tanti senza preoccuparsi della qualità della partecipazione. In molti casi è meglio essere in meno ma avere persone ben preparate, che accettino le eventuali condanne di un processo, e che riescano a portare avanti manifestazioni creative ed innovative, e non le solite manifestazioni di massa, ma spesso banali; V, questo porta all’indicazione successiva, e cioè dell’importanza dell’allargamento del consenso a gruppi esterni, allargamento che spesso è strettamente collegato al fatto di riuscire a colpire la loro immaginazione con metodi di lotta diversi da quelli utilizzati normalmente, spesso accettando i rischi della propria azione sulla propria pelle; VI, da questo punto di vista è fondamentale il ruolo della stampa e dei media. Purtroppo attualmente la stampa sembra più interessata a parlare di morti, guerre, conflitti armati, che di pace e di nonviolenza. Ma la formazione di giornalisti nonviolenti è sicuramente un obiettivo importante da perseguire; VII, Ma per avere dei cambiamenti reali è importante saper organizzare bene, e portarle avanti, azioni dirette nonviolente, forme di obiezione di coscienza (al militare , alle tasse militari, alla costruzione di armi, ecc.), forme di non collaborazione alle ingiustizie, e disobbedienza civile di fronte a governi che portino avanti politiche ingiuste, o minaccino la democrazia; VIII, ma come accennato prima, per resistenza alle ingiustizie si deve lavorare anche ad un progetto costruttivo. In caso contrario, come successo in molti paesi dell'Est, e nelle stesse Filippine, i successi delle lotte non violente ( o a-violente) rischiano di svuotarsi trasformando le precedenti dittature comuniste o fasciste, in una dittatura di un mercato controllato inoltre dalla mafia; IX, ma un ulteriore insegnamento è quello di non illudersi. Ci sono fortissime resistenze al cambiamento anche se nonviolento (si pensi all’importanza, nelle economie nazionali, della costruzione e della vendita delle armi); X, una ulteriore indicazione è quella di saper cogliere le condizioni esterne facilitanti (come ad esempio il disastro di Cernobyl che ha fatto cambiare idea a molte di quelle persone che si lasciavano abbindolare facilmente dalla propaganda che insisteva sulla non rischiosità del nucleare civile); XI, la penultima indicazione è quella di saper istituire dei validi collegamenti internazionali che possano contrapporsi alla globalizzazione dei mercati, nell’interesse dei G8 o di poche industrie multinazionali, con una globalizzazione dal basso, nell’interesse di un “mondo diverso”, pacifico; XII, l’ultima indicazione è quella dell’importanza di una strategia dal doppio binario, all’interno delle istituzioni, ma senza lasciarsi bloccare dalle “regole del gioco” interne ma cercando di innovarle, ma anche al loro esterno, perché senza una pressione dal basso, esterna alle istituzioni, come quelle che hanno portato la Regione Toscana (vedi lotte di Capalbio) a passare dal primo posto nella scelta del nucleare civile, all’ultimo posto tra le regioni disposte ad accettarlo, è molto difficile cambiare realmente qualche cosa.

7. Ma l’ultima considerazione riprende un commento di Galtung, uno dei più profondi studiosi delle lotte nonviolente. Galtung sostiene che non si può sapere se la lotta nonviolenta funziona sempre, ed in tutte le circostanze, che la sua efficacia è incerta, e che dipende molto da come queste vengono portate avanti. Ma che quello che è invece è sicuro è che la violenza è fallita perché invece di eliminare l’altra violenza la porta ad accrescersi ed aumentarla in forma spirale, aumentando sempre più l’odio tra gruppi e le guerre.

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