Primo report sulla II conferenza internazionale di Bil'in
di Ettore Acocella
Associazione per la Pace e Coordinamento per una presenza civile
di pace in Palestina ed Israele

Breve storia del movimento contro il muro a Bil'in.

Bil'in e' un piccolo villaggio a nord-est di Ramallah, che
dista circa sei kilometri dalla linea verde, poco lontano
dalla grande colonia israeliana (in continua espansione) di
Modi'in Illit, secondo gli accordi di Oslo e' classificato
come zona A, quindi sotto completo controllo palestinese.I
circa 1600 abitanti di Bil'in sono prevalentemente
agricoltori a cui la costruzione del muro ha sottratto il
60% delle terre coltivabili. Le proteste contro il muro
israeliano sono cominciate nella primavera del 2005 su
iniziativa del comitato popolare del villaggio di Bil'in (
www.bilin-village.org/ ) e sono state appoggiate sin
dall'inizio dai pacifisti israeliani e internazionali.In
questi due anni dopo la preghiera del venerdi', ogni
settimana un corteo e' partito dal villaggio per cercare di
arrivare il piu' vicino possibile alla zona in cui il muro
e' in costruzione per cercare di rallentare il lavoro delle
ruspe, con azioni di disobbedienza civile e non violenta.
Le manifestazioni hanno avuto esiti differenti, a volte
grazie alla creativita' delle azioni messe in atto sono
riuscite a rallentare o a bloccare i lavori, altre volte
sono state soffocate sul nascere dalla repressione
dell'esercito israeliano. Una repressione fatta di
lacrimogeni, bombe sonore e proiettili di gomma che ogni
venerdi' ferisce in modo piu' o meno grave una decina di
manifestanti.
Le proteste di Bil'in sono diventate un simbolo di
resistenza popolare e nonviolenta all'occupazione. Nella
seconda intifada che ha visto uno resistenza prevalentemente
militare, Bil'in rappresenta senza dubbio una forma di
resistenza piu' simile alle modalita' della prima intifada,
che aveva un carattere popolare e di massa. Una resistenza
che passava attraverso differenti forme di protesta non
violenta che andavano dalle manifestazioni, agli scioperi
generali, passando per il boicottaggio dei prodotti
israeliani. Il cuore della movimento e' il comitato popolare
del villaggio, al quale si sono aggiunti nel corso degli
anni i principali movimenti pacifisti israeliani da quelli
storici come Gush Shalom o l'ICAHD (comitato israeliano
contro la demolizione delle case) di Jeff Halper a quelli
nati durante la seconda intifada come gli Anarchici contro
il Muro (tra i piu' attivi nella lotto nonviolenta con il
muro a Bil'in e altrove), Ta'ayush, le donne di Machsom
Watch che presidiano i check point, i Refusnik che si
rifiutano di servire nell'esercito israeliano. La loro
presenza e quella dei vari gruppi di pacifisti
internazionali presenti in Palestina come la coalizione
delle donne contro la guerra, i Christian Peacemaker Team, i
Quaccheri, l'International Solidarity Movement, o gli
italiani di Operazione Colomba di Pax Christi e
dell'Associazione per la Pace, ha contribuito ad abbassare
il livello di violenza e di repressione dell'esercito
israeliano e ha fatto in modo che i fatti di Bil'in
raggiungessero l'opinione pubblica israeliana ed
internazionale attraverso una fitta rete di contatti
attivati con i media. Inoltre sopratutto la presenza di
israeliani ha permesso di attivare un canale di dialogo e
trattativa con i soldati israeliani che si sono trovati di
fronte, in prima fila, giovani come loro, a cui erano
accomunati per origini e lingua.

Seconda conferenza internazionale di Bi'in (18-20 aperile 2007)
La tenda allestita nel paese di Bil'in ha visto avvicendarsi
nei due giorni di conferenza decine di relatori palestinesi,
israeliani e internazionali, tutti gli interventi sono stati
tradotti in simultanea in Arabo, Ebraico, Inglese e
Francese.
La conferenza e' stata molto partecipata, almeno 400 persone
sono passate dalla tenda nei due giorni di conferenza e
circa 200 hanno partecipato alla manifestazione del
venerdi'.
Tra gli attivisti provenienti da tutto il mondo c'era anche
il nostro piccolo gruppo di italiani, alcuni arrivati in
Palestina/Israele per l'occasione e altri che gia' vivono e
lavorano sul territorio per le ong italiane o in altri
ambiti.
La conferenza si e' aperta il 18 aprile con l'intervento
dell'europarlamentare Luisa Morgantini e dell'irlandese
Mairead Corrigan Maguire premio nobel per la pace nel 1976.
Luisa Morgantini ha evidenziato come la lotta di Bil'in
ricorda le azioni di disobbedienza civile di Bait Sahur
durante la prima intifada, ha chiesto alla comunita'
internazionale di riconoscere subito il nuovo governo di
unita' nazionale palestinese e a chiesto ai palestinesi che
partecipano ad iniziative pubbliche in giro per il mondo di
non parlare solo dei temi generali dell'occupazione, ma di
renderla reale, tangibile, attraverso racconti personali da
cui venga fuori la quotidianita' del vivere sotto
occupazione, "le vostre storie, sono la storia di questo
paese e dell'occupazione che subisce ormai da 40 anni"
La seconda sessione aveva come tema i media e la questione
palestinese.
I relatori erano Moustapha Barghouti neo-ministro
dell'informazione del governo di unita' nazionale
palestinese e Amira Hass corrispondente dai territori
occupati per il giornale israeliano Haaretz dal 1993.

L'intervento di Barghouti e' partito dalla "narrazione
sbagliata" (wrong narrative) che caratterizza ormai da anni
l'approccio mediatico alla questione palestinese, in cui
Israele appare sempre come la vittima e i palestinesi come i
carnefici, bisogna rovescire questa percezione, e per farlo
non e' necessaria la propaganda, basta raccontare la verita'
e mostrare la realta' del territorio.
Una delle verita' da raccontare e' che in questo momento ci
sono almeno quattro iniziative sul tavolo della trattativa
con gli israeliani:
1- la proposta di liberare Gilad Shalit (il soldato
israeliano rapito a Gaza l'estate scorsa) in cambio della
liberazione di una parte dei 10.000 prigionieri palestinesi
nelle carceri israeliane
2- la proposta di un completo e bilaterale cessate il fuoco,
cioe' la fine del lancio di razzi Kassam da Gaza e delle
incursioni militari israeliane nei territori occupati (solo
ieri sono statio uccisi 6 palestinesi)
3- un piano flessibile di trattative per una tregua di lungo
periodo
4- il cosiddetto "piano saudita" che prevede il
riconoscimento di Israele da parte di tutto il mondo arabo
in cambio del ritorno di Israele ai confini precedenti la
guerra dei 6 giorni del 1967 (piano appoggiato anche da
Hamas)
Tutte queste iniziative sono state fino ad oggi rifiutate da
Israele, a causa della debolezza del suo governo, il cui
consenso e' oramai ai minimi storici. Partendo da queste
considerazioni bisogna riconoscere che non e' Israele a non
avere un partner per la pace, ma e' vero il contrario: la
debole leadership israeliana non e' un partner affidabile
per la pace. La lotta non-violenta di Bil'in animata da una
comunione di intenti e di visione tra gli israeliani e i
palestinesi che vi partecipano e' un modello di pace
possibile.
Con l'inizio della seconda intifada e' cominciata la
strategia mediatica di deumanizzazione e delegittimazione
dei palestinesi, per combatterla occorre unificare la
narrazione della vicenda palestinese, unificarla e
organizzarla: quando sui media compare una notizia sgardita
o scomoda per Israele c'e' un'immediata reazione delle lobby
sioniste nel mondo, una contro-offensiva mediatica immediata
e forte che sul lungo periodo ha spinto i giornalisti ad
evitare di diffondere questo tipo di notizie, i palestinesi
conclude barghouti devono imparare a fare lo stesso.

Amira Hass evidenzia l'importanza del lavoro congiunto tra i
media e gli attivisti palestinesi, israeliani e
internazionali che sono testimoni di quello che succede sul
territorio. Lo fa raccontando un'avvenimento dei giorni
scorsi: una gruppo di donne di machsom watch (donne
israeliane che fanno monitoraggio ai check point) l'ha
contattata raccontando che al check point che divide la
valle del giordano dal resto dei territori occupati i camion
carichi di prodotti alimentari palestinesi erano bloccati da
un giorno, con la scusa che quei prodotti fossero destinati
al mercato israeliano e non al mercato interno palestinese
(la fertile valle del giordano e' considerata la "serra" dei
palestinesi).
Lei ha scritto subito un'articolo al riguardo su Haaretz, il
giorno dopo la situazione si e' sbloccata e lei ha ricevuto
una telefonata dai responsabili dell'esercito in cui le si
diceva che c'era stato un errore di comunicazione degli
ordini...
Piccole vittorie come questa, anche se non sono sufficienti
a mutare la situazione, hanno comunque un importante valore
simbolico sopratutto perche' veicolano i giusti messaggi
all'opinione pubblica isreliana, troppo spesso vittima di
una propaganda razzista e reazionaria. Piccoli risultati
come questi sono possibili solo grazie al lavoro congiunto
tra gli attivisti sul campo e i loro riferimenti nei media.
Il secondo punto toccato dall'intervento di Amira Hass e'
relativo alle campagne che in questi anni si sono rivelate
efficaci, campagne accumunate da alcune caratteristiche:
1) una partecipazione mista di israeliani, palestinesi e
internazionali
2) una base di appoggio popolare e diffusa
3) un'attenzione a restare dentro la cornice del diritto
internazionale
4) un utilizzo attento e intelligente dei media

Infine una riflessione sulle iniziative miste tra israeliani
e palestinesi. Tatbya in arabo significa "normalizzazione"
un concetto che e' diventato comune nelle due societa' dopo
gli accordi di Oslo e che ha caratterizzato tutte le azioni
congiunte degli anni novanta, azioni volte a normalizzare i
rapporti tra i due popoli, mentre la situazione sul
territorio andava tutt'altro che normalizzandosi (i check
point e le frammentazzione dei territori occupati sono una
della prime conseguenze degli accordi di Oslo), questo rende
sospetto agli occhi dei palestinesi questo tipo di
iniziative, molti di loro, memori degli anni passati le
vedono come fumo negli occhi, mentre intanto il muro avanza
inesorabile, cosi' come gli arresti, le incursioni militari,
lo strangolamento economico etc etc
Ciononostante queste iniziative sono l'unico modo per
combattare la strategia (israeliana ma anche di una
minoranza fondamentalista della societa' palestinese) di
separazione dei due popoli, una strategia cominciata dopo
Oslo e che continua tutt'ora, di cui il muro e' solo
l'aspetto piu' evidente.

Secondo giorno di conferenza. (19 aprile 2007)

Il secondo giorno di conferenza si apre con una sessione
sugli aspetti economici dell'occupazione, ne parlano
Muhammad Shtaye che insegna economia alla Birzeit University
di Ramallah e Sam Bahour, uomo d'affari palestinese con
cittadinanza americana, tra gli animatori della campagna per
il diritto di ingresso in Palestina ed Israele.

Il professor Shtaye durante il suo intervento fornisce
alcune cifre sulle conseguenze di 40 anni di occupazione
sull'economia palestinese.
Il 64% delle esportazioni palestinesi verso l'estero passa
attraverso lo stato di Israele, il quale ovviamente impone
dazi sulle merci esportate, sul fronte delle importazioni il
quadro e' ancora piu' disastroso: l'80% dei prodotti
importati nei territori palestinesi occupati proviene da
Israele o passa attraverso il territorio israeliano, i
territori occupati sono il principale mercato "estero" di
Israele. Anche le rimesse in denaro che i palestinesi
all'estero mandano in Palestina transitano e sono tassate da
Isarele; dal gennaio del 2006, dopo l'elezione del governo
di Hamas circa 800 milioni di dollari di rimesse dall'estero
sono congelate nelle banche israeliane, a questo si aggiunge
il blocco dei fondi da parte dell'Unione Europea e degli
Usa, aiuti senza i quali la fragile economia dei territori
occupati sta collassando.
La palestina occupata non e' un paese in via di sviluppo, e'
un paese ricco di risorse, di competenze e di opportunita'
di lavoro, solo il patrimonio archeologico e i siti di
interesse turistico e religioso (pensiamo a Bethlemme o
anche a Gericho) potrebbero sostenere gran parte
dell'economia dei 3.500.000 palestinesi che vivono nei
territori occupati, per non parlare del commercio e
dell'agricoltura.
Invece l'isolamento e le chiusure imposte dall'inizio della
seconda intifada hanno prodotto, per la prima volta nella
storia recente questo popolo una crisi economica ed
umanitaria di vaste proporzioni.
L'economia palestinese e' quasi totalmente dipendente da
Israele che ne controlla le risorse primarie (acqua,
elettricita'), i confini e le vie di comunicazione,
escludendola di fatto dal mercato arabo circostante.
Il reddito medio annuo pro capite in Israele e' di 17.000$,
quello palestinse di 800$, e piu' del 50% dei palestinesi
vive al di sotto della soglia di poverta'.

Queste indicazioni vengono riprese anche nella relazione di
Sam Bahour nella quale si interroga su come sia possibile
integrare la l'economia palestinese nella globalizzazione
economica guidata dagli USA che sono tra i maggiori
finanziatori dello stato di Israele e tra i promotori del
boicottaggio dell'Autorita' Nazionale Palestinese. E' questo
l'unico caso che si ricordi nella storia contemporanea in
cui si sanziona il popolo occupato e si premia la potenza
occupante.
Secondo Bahour il "cordone ombelicale" che lega l'economia
palestinese a quella israeliana si e' inspessito dopo gli
accordi di Oslo del 1992.
Bahour ritorna sul tema dello sfruttamento delle risorse: le
fonti idriche del territorio di Palestina e Israele sono per
la maggior parte localizzate nei territori palestinesi
occupati (e nel Golan siriano, anch'esso occupato da
Israele), ma la distribuzione dell'acqua e' controllata da
Israele che la rivende ai palestinesi, lo stesso discorso
vale per l'elettricita' e le reti di telecomunicazione, ogni
telefonata in arrivo o in uscita sulla rete telefonica fissa
o mobile palestinese passa per Israele che in questo modo ha
anche facile accesso alle conversazioni.
Nonostante quanto detto ci sono settori dell'economia
palestinesi potenzialmente in crescita, che potrebbero
costituire il cuore della sua ripresa economica, ma vanno
sostenute e soprattuto bisogna battersi affinche' abbiano
uno sviluppo autonomo dall'economia israeliana.

"Convergence Plan": Israele, gli USA e l'apartheid

Jeff Halper e' un israeliano di origini americane, e' stato
il fondatore dell'ICHAD (comitato israeliano contro la
demolizione delle case palestinesi).
Il suo intervento e' centrato sull'idea che quella che
Israele sta costruendo qui e' una forma di apartheid.
Apartheid, afferma Halper, e' solo una parola, ma
rappresenta un modello un modello di dominazione coloniale
slegato dal contesto locale, il contesto della Palestina
occupata e' di sicuro diverso da quello sudafricano (un tesi
difesa nei mesi passati anche da Uri Avnery) ma il modello
puo' tranquillamente essere applicato anche qui, ed e'
quello che il governo israeliano sta facendo.
Per l'opinione pubblica israeliana non e' tanto importante
la pace, ma la "quiete", una giusta soluzione per i
palestinesi e' opzionale, la cosa veramente importante e'
che niente turbi la vita degli israeliani, in questo senso
la divisione dei territori palestinesi in "bantustan"
dovrebbe garantire una separazione tra i due popoli.
Halper riprende e amplia le sue tesi sulla "matrice del
controllo": Israele si sta creando due confini orientali,
uno "demografico" disegnato dal tracciato del muro tra
Israele e i territori palestinesi occupati (che sono appunto
ad est della linea verde, linea che dovrebbe tracciare il
confine dello stato di Israele), e uno "di sicurezza" nella
valle del fiume Giordano che confina ad est con la
Giordania. In questo modo i territori abitati da una
maggioranza palestinese (o meglio quello che rimane) saranno
schiacciati, ad ovest dal muro, e ad est dalla fascia di
sicurezza controllata da Israele che li divide dalla
Giordania.
Se a questo si aggiungono i due grandi agglomerati di
colonie di Maale Adumim al centro e di Ariel nel nord che
tagliano i territori palestinesi in modo ortogonale rispetto
al muro, e' evidente che il risultato saranno delle
"riserve" densamente abitate da palestinesi, riserve,
bantustan, che non avranno nessun collegamento tra
loro...per non parlare della striscia di Gaza che dista
svariati kilometri dai territori occupati della West Bank.
In termini territoriali ai palestinesi resterebbe la
striscia di Gaza e il 15% dei territori occupati della West
Bank.
Niente accade a caso, Israele guarda sempre lontano, la
realta' che osserviamo oggi sul terreno e' il risultato di
una strategia cominciata decenni fa'.
Prima ancora che esistesse lo stato di Israele, Ze'ev
Vladimir Jabotinsky (uno dei padri della destra sionista)
agli inizi del secolo scorso gia' parlava della necessita'
di erigere un "muro di ferro" tra gli ebrei e gli arabi in
Palestina, nel 1977 Sharon proponeva di richiudere i
palestinesi in "cantoni", nel 1999 Ehud Barak vince le
elezioni con lo slogan "noi qui, loro li'", nel maggio del
2006 l'attuale primo ministro Olmert presenta al congresso
degli Stati Uniti d'America -notate bene, afferma Halper, al
congresso USA non al parlamento Israeliano- il "Convergence
Plan" (piano di convergenza) che prevede il completamento
del muro, lo smantellamento delle (poche) colonie israeliane
che rimarrebbero' ad est del muro e la creazione di una
specie di stato-arcipelago palestinese, senza nessun
collegamento con i paesi confinanti.
La riposta di Bush e Blair al piano di convergenza e' che
bisogna attuarlo non in modo unilaterale (come il disimpegno
da Gaza) ma seguendo la "Road Map" che prevede un percorso
negoziale con i palestinesi.
In pratica, continua Halper, gli hanno chiesto di fingere
una trattativa con l'Autorita' Nazionale Palestinese per
almeno un anno prima di applicare il suo piano...e infatti
nell'ultimo anno, almeno una volta al mese Condoleeza Rice
e' venuta ad incontrare la sua omologa, la ministra degli
esteri israeliana Tzipi Livni, per "cucinare lentamente"
l'apartheid per i palestinesi.
Lentamente, silenziosamente, senza clamori, senza conferenze
stampa, attraverso una "sommessa diplomazia al femminile"
l'afroamericana Rice e la Livni, approntano l'apartheid per
i palestinesi, apartheid che si basa principalmente su due
concetti forti: separazione e dominazione. Il governo
israeliano non sta costruendo una democrazia in questo
paese, ma una "etnocrazia". L'idea di uno stato etnico nel
2000 e' fuori dalla storia e fuori dalla realta' possibile.
Jeff Halper non ha dubbi sulla necessita' di lanciare
immediatamente una campagna internazionale anti-apartheid.
Bisogna che le leadership politiche, religiose e sociali
della comunita' internazionale vengano qui a vedere con i
loro occhi quello che sta succedendo, trascorrere anche solo
pochi giorni nei territori occupati aiuterebbe a
"re-incorniciare" la questione palestinese-israeliana e ha
sfatare dei miti.
Tre su tutti:
1- Israele e' il soggetto piu' forte, non la vittima come si
tende a credere.
2- Israele e' il terzo esportatore di armi al mondo dopo gli
USA e la Russia, non e' debole ma armato ed aggressivo.
3- L'occupazione dei territori palestinesi non ha uno scopo
difensivo, la costruzione di 300 colonie nei territori
occupati e di un muro che le circonda rubando terra ai
palestinesi non ha niente a che vedere con esigenze
difensive, quella delle colonie e' una politica di
espansione ed annessione.

Infine, rispondendo ad una domanda del pubblico Jeff Hapler
propone la sua visione per il futuro di quest'area:
non due stati, neanche uno, ma una confederazione regionale
che comprenda Palestina, Israele, Siria, Libano e Giordania,
una specie di "Unione Mediorientale" sul modello dell'Unione
Europea. Halper e' convinto che questa sia l'unica soluzione
possibile nel lungo periodo, e pensa che l'Unione Europea
che ha intrapreso da anni un percorso simile possa e debba
mettere a disposizione le sue competenze in merito.

Conferenza Bi'lin, terza parte e conclusioni

Il pomeriggio del 19 aprile, dopo l'intervento di Jeff
Halper i partecipanti si sono divisi tra i 12 workshop
previsti, poi ci sono state delle riunioni tra i gruppi
provenienti dallo stesso paese, e alla fine il traning
dell'International Solidarity Movemenet sulle tecniche di
resistenza non-violenta, in previsione della manifestazione
del giorno dopo.
Io ho partecipato al workshop organizzato dalla "Coalizione
contro l'occupazione", un coordinamento di organizzazioni
israeliane e palestinesi. Nel workshop si e' discusso della
lotta congiunta contro l'occupazione tra israeliani e
palestinesi.
Un'argomento delicato, e infatti non e' filato tutto
liscio...
Alcuni palestinesi presenti e anche un'attivista israeliana
hanno sollevato dubbi e perplessita' sull'utilita' e sulle
reali possibilita' di interazione tra i due popoli. A me
sono tornate in mente le parole di Amira Hass sul rischio
che queste iniziative possano diventare una forma di
"normalizzazione".
L'attivista israeliana ha dichiarato senza mezzi termini che
la sua presenza alle manifestazioni contro il muro a Bil'in
si limita a rispondere ad una richiesta fatta dai
palestinesi di stare in prima fila durante le
manifestazioni, in modo da creare una zona cuscinetto di
attivisti israeliani tra l'esercito e i palestinesi, tutto
qui, nessuna progettualita' o strategia di lotta comune.
Una posizione legittima, a mio parere priva di strategia
politica; il muro e' ovunque, ed ovunque ci sono
manifestazioni e occasioni di contatto/scontro tra
l'esercito israeliano e i palestinesi, non e' possibile
essere presenti sempre e dappertutto. E bisogna anche dire
che l'interposizione degli israeliani non sempre dissuade
l'esercito da forme di repressione piu' o meno violenta
(certo per gli arrestati fa' una grande differenza essere
cittadini israeliani o dei territori palestinesi occupati).
Alcuni dei palestinesi e delle palestinesi presenti
affermavano di non riuscire a fidarsi completamente degli
israeliani. Nella loro percezione gli israeliani sono quelli
che gli hanno rubato la terra nel 1948, quelli che ora
abitano le loro case, mentre i profughi palestinesi vivono
nei campi. Gli israeliani sono quelli che da anni votano
governi che continuano con la costruzione del muro, che
ordinano incursioni militari con carri armati ed elicotteri
contro i civili palestinesi, gli israeliani sono quelli che
li umiliano ogni giorno ai check point...
Per noi occidentali, non-violenza significa anche capacita'
di discernimento, significa riuscire a distinguere, ad
evidenziare le differenze, siamo tutti convinti che non
tutti gli israeliani siano responsabili delle azioni del
proprio governo, conosciamo ed apprezziamo molti israeliani
che da anni si battono per rendere giustizia ai palestinesi,
spesso pagando un prezzo molto alto in termini di isolamento
ed emarginazione all'interno della propria comunita',
rischiando anche la galera.
Ma noi non viviamo in campo profughi, non vediamo ogni sera
le jeep dell'esercito entrare in citta' ad arrestare o
uccidere qualcuno dei nostri figli o dei nostri amici, noi
non impieghiamo ore per raggiugere la nostra scuola o il
nostro posto di lavoro che dista pochi kilometri da casa.
Apartheid significa separazione e dominazione.
L'apartheid e' una strategia quella si, accurata e
omnicomprensiva, di creazione del nemico, dell'"altro", del
diverso. Le azioni congiunte tra palestinesi e israeliani
contribuiscono a ricostruire quella fiducia tra i due popoli
che negli ultimi 15 anni si e' persa, per questo vanno
appoggiate e diffuse, ma non illudiamoci che sia facile ne
scontato.
Una cosa e' certa, non saranno le manifestazioni a far
terminare l'occupazione, e non ci si puo' limitare solo a
quelle, e' necessaria una lotta su vasta scala che coinvolga
non solo palestinesi e israeliani, ma anche tutta la
comunita' internazionale, questo e' il mio punto di vista.

Manifestazione contro il muro.

Venerdi' 20 aprile c'e' stata la tradizionale
manifestazione contro il muro. Gia durante la mattina un
piccolo gruppo era andato nei pressi del muro (che a Bil'in
come in tutte le zone rurali non e' un muro concreto di
cemento ma una barriera metallica elettrificata) con il
ministro dell'informazione Moustapha Barghouti che ha tenuto
li' una conferenza stampa. In questo gruppo c'era Tito
Kayak, un attivista portoricano che approfittando della
distrazione dei soldati israeliani ha aggirato la barriera
metallica e si e' arrampicato su di una torretta
d'osservazione israeliana alta 100 mt ed ha issato un'enorme
bandiera palestinese. Tito e' rimasto sulla torretta fino a
sera. Durante la manifestazione del pomeriggio lui e la sua
bandiera hanno ricordato a tutto noi, all'esercito
israeliano e a quella parte di mondo che guardava attraverso
le tante telecamere presenti che quella terra e' terra
palestinese, illegalmente sottratta e utilizzata come zona
di espansione per la vicina colonia.
Il piccolo gruppo e' rimasto li, bloccato tra il muro e le
jeep dell'esercito che lo separavano dal resto del corteo.
Noi siamo partiti dal villaggio con il grosso del corteo
(circa 300 persone) nel primo pomeriggio, subito dopo la
preghiera del venerdi'.
La strada in discesa che porta dal villaggio al muro e'
lunga circa un kilometro, dopo i primi 300 metri sono
cominciati a piovere i lacrimogeni, il corteo si e' spezzato
in due parti, che poi si sono riunite; il balletto dei
lacrimogeni, dell'avanzare ed arretrare e' andato avanti per
un paio di ore.
Intanto alcuni del gruppo nei pressi del muro e altri che
partivano dal corteo principale ogni tanto provavano ad
avvicinarsi al muro passando fra gli ulivi, appena arrivati
nei pressi della recinzione venivano respinti dai proiettili
di "gomma" (in realta' sono delle biglie di ferro rivestite
di gomma) dei soldati che si trovavano al di la'.
La premio nobel per la pace Mairead Maguire e' stata tra le
prime ad essere colpita ad una gamba, altri e altre la
seguiranno, alla fine della manifestazione si conteranno una
decina di feriti lievi (pallottole di gomma, intossicazione
da lacrimogeni, manganellate) e uno piu' grave, l'unico
ricoverato, che e' caduto battendo la testa mentre scappava
da una carica.
Dopo ore di questo continuo andare e venire, grazie anche
alla trattativa del neo-ministro Barghouti i due spezzoni
del corteo si sono riuniti e sono riusciti ad arrivare
abbastanza vicino al muro, a sedersi per qualche minuto di
fronte al cordone dell'esercito intonando slogan e
applaudendo verso Tito Kayak ancora li' con la sua bandiera
(Tito verra' arrestato in serata, passera' tre giorni in
prigione e verra' espulso con il divieto di rientro in
Israele per 5 anni).

Conclusioni.

Bil'in e' una strada, anzi due.
Una strada e' quella attorno alla quale si snodano le case
del villaggio, l'altra, poco piu' a valle e' il tracciato
del muro, con le sue torrette di osservazione, il recinto
elettrificato, la fascia di sicurezza sui due lati e poco
oltre l'insediamento in espansione.
Bil'in e' un paese, anzi due.
Il piccolo paese che vive di agricoltura e pastorizia fino a
pochi anni fa garantiva ai suoi abitanti un relativo
benessere economico, determinato anche dalla vicinanza con
Ramallah, grosso centro urbano dove vendere i prodotti; e
poco piu' ad ovest, oltre il muro un'atro paese, Modi'in
Illit con i suoi palazzoni bianchi in costruzione, piscine e
giardinetti. Un paese abitato da gente diversa, per lingua
cultura e religione, un paese abitato da ladri di terre e di
risorse.
Bil'in e' un simbolo, anzi due.
E' il simbolo di una resistenza diversa, non-violenta ma
determinata, me e' anche il simbolo di un potere occupante
arrogante, che procede sulla strada dell'esproprio e delle
violazioni del diritto internazionale, ignorando le proteste
e le legittime richieste degli abitanti di quelle terre, e'
triste constatare come il muro a Bil'in e' andato avanti
nonostante questi due anni di manifestazioni.
Bil'in e' un popolo in lotta, anzi due con gli israeliani,
anzi tre se contiamo anche le centinaia di internazionali
che in questi anni hanno partecipato alle manifestazioni.
Una lotta che non nasce da indicazioni politiche arrivate
dall'alto o da gruppi di potere piu' o meno religiosi che
usano la lotta dei palestinesi in modo strumentale ai propri
fini, e' una lotta spontanea che nasce dalle esigenze
primarie di una comunita: difendere la propria terra, spesso
unica fonte di sontentamento.
Bil'in e' una manifestazione, anzi sono le cento
manifestazioni di questi due anni.

La conferenza e' stata organizzata e gestita sul modello dei
"social forum" con sessioni plenarie, workshop, training,
traduzione simultanea e come un social forum si e' conclusa
con una manifestazione ai confini della "zona rossa". Una
modalita' interessante e anche nuova per questi luoghi, e'
stata una buona occasione di incontro per attivisti,
giornalisti, cooperanti e persone provenienti da diversi
contesti; bisogna dire onestamente che la presenza di
palestinesi non era altissima e bisogna ricordare
altrettanto onestamente che i palestinesi hanno discusso le
stesse tematiche della conferenza in un incontro riservato
solo a loro che si e' tenuto un mese fa, esattamente come i
movimenti sociali in Italia e altrove fanno prima dei social
forum.

Bil'in non e' piu' solo un simbolo, ormai e' diventato un
"modello"esportabile in altre zone lungo il tracciato del
muro.
Alla conferenza oltre a Mustapha Barghouti hanno partecipato
un portavoce di Abu Mazen e alcuni parlamentari
dell'Autorita' Nazionale Palestinese, sembra che lentamente
anche l'ANP si stia convincendo ad appoggiare e sostenere
questa forma di lotta.
Il "modello Bil'in" che poggia su di una basa popolare,
sull'appoggio dei pacifisti internazionali ed israeliani ed
un sapiente uso dei media deve essere fortemente sostenuto
anche dalla comunita' internazionale (e' importante
ricordare che la conferenza e' stata cofinanziata dall'ONG
catalana NOVA e dalla Cooperazione Spagnola).Un "modello"
che comincia anche ad essere esportato in altre zone dei
territori palestinesi occupati, da qualche settimana anche
nei villaggi a sud di Betlemme sono cominciate le
mobilitazioni contro il muro.

Queste sono le indicazioni uscite dalla conferenza, la
non-violenza e' una strada stretta e in salita, ma e'
l'unica che dopo anni di lotta prevalentemente militare
ancora ottiene qualche piccolo risultato.
Su questo tutti noi dobbiamo cominciare a lavorare.

Ettore Acocella
Associazione per la Pace
Coordinamento per una presenza civile di pace in Palestina
ed Israele

Per ulteriori informazioni:
Comitato popolare del villaggio di Bil'in
(www.bilin-village.org)
Palestine times (www.times.ps)
Haaretz (www.haaretz.com)
International Solidarity Movement (www.palsolidarity.org)
Ma'an News Agency (www.maannews.net/en)
Palestine News Network (http://english.pnn.ps)

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