LA JUGOSLAVIA E "LA STORIA SERBA VIOLATA"
di Muhamedin Kullashi
SOMMARIO

Le origini della crisi

La controversia costituzionale

"L'albanizzazione" del Kossovo

Il genocidio e l'esodo

Il problema della natalità

Lo stupro in Kosovo

Il giuramento del Kosovo, la tomba e 1'impero celeste


L' esplosione della Jugoslavia, e soprattutto le forme particolari che essa ha assunto- la guerra, la pulizia etnica e i massacri di massa della popolazione civile- - hanno provocato costernazione in gran parte dell' opinione europea. Un certo numero di politologi e sociologi, dell' ex Jugoslavia ma anche di diversi paesi europei, hanno creduto di poter spiegare questo tragico sbocco come una conseguenza, più o meno inevitabile, del crollo di un ordine totalitario comunista, che per la sua stessa struttura soffocava i conflitti sociali, di un ordine che non si é mostrato capace di realizzare la mediazione degli interessi conflittuali e di trovare soluzioni pacifiche agli antagonismi che dilaniavano la società. La forma costituzionale giuridica e statale della Jugoslavia, per il suo carattere non democratico non è riuscita ad attenuare le profonde divergenze etniche, politiche ed economiche, ma le ha di fatto conservate. Dunque, ciò che ha reso impossibile l'istituzione della Jugoslavia quale Stato democratico moderno, il suo deficit democratico e storico, rappresenta allo stesso tempo la causa del suo scoppio e della stessa guerra. Questa spiegazione, benché tocchi uno dei punti cruciali della crisi jugoslava, è insufficiente, perchè elude e cancella numerosi aspetti che riguardano la genesi dei conflitti, i tratti particolari dei principali protagonisti politici, la dinamica degli avvenimenti ed il condizionamento reciproco delle strategie e dei progetti dei principali attori politici. L' insufficienza di questa interpretazione appare anche dal fatto che gli stessi modelli totalitari, negli altri paesi dell' Europa dell' est, non sono sfociati nella guerra, benché avessero conosciuto anche loro considerevoli tensioni interetniche (in Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia etc.) .
Non abbiamo la pretesa di affrontare in questo articolo l' analisi dell' insieme delle circostanze e delle cause profonde che hanno condizionato i tratti specifici dell' esplosione della Jugoslavia. Vorremmo piuttosto soffermarci su di un momento di questa crisi, un momento della vita politica del Kosovo negli anni '80: lo stupro e la vita politica. L'importanza dell' analisi di quel momento deriva dal fatto che il Kosovo durante tutto un decennio 1981-1991 domina e determina la vita politica del paese: è al centro delle azioni politiche del Partito e dello Stato (a tutti i suoi livelli: province, repubblica, federazione), al centro dell'interesse dell' opinione pubblica, ed anche di quello della società civile (specialmente nelle associazioni di scrittori, degli artisti, dei sociologi e dei filosofi) a tutti i livelli. Le prese di posizione in rapporto ai diversi aspetti della crisi del Kosovo provocheranno un processo di "differenziazione" a livello di tutte le istituzioni del paese; differenziazione che implica il successo o la caduta di numerosi gruppi politici in queste istituzioni, e (che implica) cambiamenti di corso degli avvenimenti. Il nodo del Kosovo cela nella sue pieghe la storia della dissoluzione della Jugoslavia.....
Cercheremo di collocare il problema dello stupro nel complesso contesto della vita politica e pubblica in particore nelle relazioni tra la Serbia ed il Kossovo, come due unità della federazione jugoslava, e di decodificare il significato politico che esso acquisisce nella drammatica catena di eventi che porteranno ad una guerra sanguinosa.

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Le origini della crisi

Gli avvenimenti che rendono manifesta la crisi della Jugoslavia e che aprono il processo della sua dissoluzione ebbero luogo in Kossovo, nella primavera del 1981, con manifestazioni di studenti ed operai albanesi in varie città.
Queste manifestazioni, con svariate rivendicazioni politiche, economiche e sociali, furono qualificate dal vertice federale come "controrivoluzione del nazionalismo albanese". Contro i manifestanti furono inviate, non solo ingenti unità della polizia speciale, ma anche l' Esercito con i carri armati, e si ebbero una dozzina di morti ed un centinaio di feriti. Fu questa, d' altra parte, la prima volta dal 1945, che in Jugoslavia l' Esercito intervenne contro i manifestanti.
Il potere impedì alla maggior parte delle rivendicazioni l'accesso ai mass media, lasciandone apparire una sola - la rivendicazione dello statuto di repubblica per il Kossovo - curandosi nello stesso tempo di presentarla come "oscurantista e distruttrice". In seguito sarà ingaggiato un vasto processo di repressione, che crescerà col passare degli anni. Subito dopo quegli avvenimenti, durante i mesi di maggio-luglio, duemila giovani albanesi furono condannati a sessanta giorni di prigione e altri 300, qualificati come "istigatori", furono condannati a pene da 2 a 14 anni di carcere, in base agli articoli 133 (delitto di opinione) ed all' articolo 144 del Codice Penale (associazione controrivoluzionaria). Qualche centinaio di insegnanti, di giornalisti, di medici e di giudici albanesi furono licenziati nei primi due anni della crisi, per motivi puramente ideologici.
L' ampiezza e l' intensità della repressione contro gli Albanesi del Kossovo rivelavano una crisi profonda del sistema, della sua ideologia e del suo funzionamento. La violenza della repressione era accompagnata da una vigorosa campagna, che definiva "il nazionalismo controrivoluzionario albanese" come "il nemico più pericoloso della Jugoslavia e della Serbia". La prima versione della piattaforma politica in rapporto al Kossovo tuttavia era ambigua: conteneva degli elementi dell' ideologia comunista e di quella del "patriottismo jugoslavo", che implicava la necessità di coltivare la fratellanza tra i popoli della Jugoslavia, ma allo stesso tempo degli elementi di nazionalismo serbo. Con il passare del tempo è quest' ultimo che conquisterà tutto lo spazio, liberandosi del fardello dell' ideologia di classe e dell' idea della fratellanza tra i popoli.
La violenza delle qualificazioni e delle accuse contro il "nazionalismo albanese" doveva giustificare la violenza della repressione. Il carattere fluido della definizione politica e giuridica di "controrivoluzione" e di "nazionalismo" permetteva di dare loro un' estensione massimale. Divenne percepibile piuttosto velocemente un cambiamento molto forte negli apprezzamenti della situazione politica in Kossovo, delle relazioni tra il Kossovo e la Serbia, e delle relazioni Albanesi-Serbi, rispetto al periodo precedente (gli anni '70). Questo cambiamento trovava difficilmente spiegazione con delle manifestazioni politiche; tanto più che in quell' occasione le sole vittime erano state albanesi. L' analisi di questo mutamento di rotta, in particolare nel PC della Serbia, ha mostrato che le nuove posizioni avevano una "preistoria" non-pubblica.

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La controversia costituzionale

Un aspetto importante di queste valutazioni e posizioni concerne lo statuto costituzionale del Kossovo e della Serbia, tale qual' era in particolare definito nella Costituzione della Jugoslavia del 1974. In effetti, verso la fine degli anni '80, diviene pubblica l' opposizione di una parte dei dirigenti del PC della Serbia in relazione allo statuto del Kossovo come unità federale. Secondo questa Costituzione, il Kossovo, così come la Vojvodina, è uguagliato alle repubbliche nelle funzioni più importanti: ha un governo, un parlamento, la presidenza, una Legge costituzionale, ed il diritto di veto a tutte le proposte di legge al Parlamento federale. Questa ampia autonomia del Kossovo fu percepita da una parte dei dirigenti serbi come una riduzione, o addirittura come negazione della sovranità serba. Nel 1976, due anni dopo l' adozione della Costituzione del 1974, in un documento che fu chiamato il "Libro blu", e di cui l' ispiratore principale fu Draza Markovic, considerato incline ai capricci nazionalisti, i dirigenti serbi domandarono un cambiamento costituzionale della Serbia, in particolare "determinate competenze esclusive su tutto il territorio della Serbia", in particolare in materia di affari interni (competenze della polizia), e di giurisprudenza. A partire da questa critica e da questa rivendicazione, il "Libro blù" pone anche la questione "dell' uguaglianza dello statuto del popolo serbo in generale" in Jugoslavia. Questa questione va più lontano, mettendo in discussione i fondamenti stessi della seconda Jugoslavia, la sua Costituzione ed il suo carattere federale, e implicitamente anche la questione delle frontiere. I rappresentanti delle altre repubbliche, ed in particolare quelli del Kossovo respingono le rivendicazioni dei dirigenti serbi e le qualificano come nazionaliste. In questo genere di dissensi l' ultima parola spettava sempre a Tito come arbitro principale tra gli interessi divergenti delle unità federali.

Siamo qui obbligati a fare un breve richiamo storico al cambiamento dello statuto del Kossovo nelle Costituzioni della seconda Jugoslavia. Il principio che fonda la Jugoslavia come Stato federale tra unità, fa riferimento alle identità nazionali (lingue, cultura, particolarismi storici) dei popoli della Jugoslavia ed in questo la distingue da una repubblica dei cittadini secondo il modello francese dello Stato-Nazione. I popoli slavi del sud (serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini e le tre comunità in Bosnia) hanno associato le loro repubbliche in uno Stato federale come quadro necessario di realizzazione dei loro interessi nazionali, politici ed economici. D'altra parte, attraverso i cambiamenti costituzionali, tra il 1945 e il 1974, la Jugoslavia si trasforma da Stato federale, composto delle sue unità federali, in una federazione di repubbliche: in effetti, in questo processo la sovranità si sposta dagli organi della federazione verso le repubbliche. Questa decentralizzazione sarà vista, da certi politologi serbi, come una delle cause principali della sua esplosione. La versione centralista ed unitaria della Jugoslavia era considerata tradizionalmente dai politici serbi come un modo di realizzare l' unità degli interessi dei serbi abitanti nelle diverse unità federali. Le classi politiche delle altre repubbliche, compreso Tito, vedevano la stabilità della Jugoslavia, come complesso mosaico di popoli, in un modello federale più flessibile, che avrebbe evitato l' egemonia e assicurato una certa uguaglianza nella distribuzione del potere politico delle unità federali che la componevano.. Bisogna notare che una parte considerevole dei dirigenti e dei membri del PC della Serbia aderirono, negli anni '70, a questo modello di federalismo, invocando, per l' occasione, l' eredità social-democratica serba (S. Markovic, D. Tucovic, K. Novakovic, ecc.) che aveva avuto un' attitudine molto critica verso le tendenze egemoniche della Serbia. Più tardi, negli anni '80, queste posizioni saranno criticate dai nazionalisti serbi come "tradimento".
Per ciò che concerne gli Albanesi, essendo popolo non-slavo, il loro status era ambiguo. I vertici jugoslavi erano coscienti del fatto che quasi la metà del popolo albanese nei Balcani si era trovato, contro la propria volontà, a causa delle decisioni delle grandi potenze, all’interno della Jugoslavia. Sull' esempio degli altri popoli balcanici gli Albanesi avevano sviluppato un largo movimento nazionale (culturale politico e militare) nel XIX secolo, che aspirava alla creazione di uno Stato nazionale. Uno dei focolai più importanti della resistenza contro l' Impero ottomano fu proprio il Kossovo e il movimento della Lega di Prizren .
Durante la seconda guerra mondiale, il PCJ, in una serie di comunicati invitò gli Albanesi del Kossovo ad allinearsi alla lotta antifascista, promettendo loro la possibilità di pronunciarsi, attraverso un referendum, sulla scelta del paese nel quale essi avrebbero voluto vedere inserito il Kossovo (Jugoslavia o Albania). Dopo la fine della seconda guerra mondiale, questa promessa fu dimenticata, ed il Kossovo ebbe lo statuto di una provincia autonoma. Il periodo 1945-1966, è caratterizzato da una politica di sospetto e di repressione contro gli Albanesi. Questa politica di repressione sarà oggetto di un' autocritica dei vertici Jugoslavi, cui fece seguito la destituzione del capo della polizia politica, Alexandre Rankovic, nel quarto congresso del PCJ, nel 1966. Questa critica alla polizia politica annuncia, d' altra parte, un periodo di disgelo e di moderato liberalismo nella vita pubblica in Jugoslavia. Questo cambiamento sarà favorevole alle rivendicazioni degli Albanesi per una più ampia autonomia del Kossovo 3. Questa autonomia ottiene il suo riconoscimento più ampio nella Costituzione del 1974, che accorda di fatto al Kossovo, lo statuto di repubblica.
In ogni caso, bisogna sottolineare il fatto che la questione che determina l' evoluzione politica e costituzionale-giuridica della Seconda Jugoslavia ruota, soprattutto, attorno alle prerogative e alla distribuzione del potere tra le unità federali. Ciò nonostante la questione della democratizzazione del sistema era piuttosto accantonata o messa in secondo piano.

La fragilità di un sistema non-democratico risulta più evidente in questa situazione di tensione tra etnie, ma anche con l' aggravarsi della crisi economica. Una considerevole parte del dibattito sullo statuto costituzionale della Serbia sarà accantonato dallo spazio pubblico. Ciò che è certo è che la Serbia non è riuscita a convincere le altre repubbliche della necessità dei cambiamenti costituzionali della Serbia e della riduzione, de jure, dello statuto del Kossovo, fino al 1989. I dirigenti politici delle altre repubbliche avevano paura che un cambiamento costituzionale del Kossovo potesse aprire la via a cambiamenti verso il centralismo unitario, così caro al nazionalismo serbo. Questi sforzi fatti dalla classe politica e dagli intellettuali serbi, per ristrutturare lo statuto della Serbia nella Jugoslavia, non potendo trovare sbocco sul piano costituzionale-giuridico, si orientarono per ottenere i cambiamenti voluti verso strade e terreni "metacostituzionali". I dirigenti serbi arrivarono ad imporre lo stato d' assedio al Kossovo, ed a far accettare la qualificazione più pesante sotto il profilo penale ed ideologico di -"controrivoluzione" della situazione, per dare un' apparenza di legalità alla repressione sistematica e molteplice sugli Albanesi. Con forti pressioni sulle altre repubbliche, essi arrivarono a mettere le istituzioni federali (in particolare le unità speciali della polizia federale, le istanze giudiziarie e l' Esercito) a servizio di una politica repressiva e discriminatoria contro gli Albanesi, come è mostrato dai rapporti dello stesso Parlamento federale sulle "misure per la normalizzazione della situazione in Kossovo". La mancanza di resistenza a diversi livelli delle istituzioni federali alla crescita del nazionalismo serbo, si rivelerà catastrofica per il corso degli avvenimenti in Jugoslavia all' inizio degli anni 90.
Il dibattito sui problemi politici ed economici in Jugoslavia, per tutto il decennio anteriore al suo crollo, è stato “mediatizzato” con dibattiti e lotte politiche tra le differenti componenti della federazione, in merito ai diversi problemi del Kossovo.

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"L'albanizzazione" del Kossovo

Dopo essere riuscita ad imporre alle istanze federali le qualificazioni più pesanti, ideologiche politiche e penali della situazione esistente in Kossovo, la classe politica serba intraprese la ridefinizione politica del periodo precedente (1966-1981), in particolare quella definita con la Costituzione del 1974, e non solo in Kossovo, ma in tutto il paese. Attraverso le svariate forme che essa prende, questa ridefinizione si evolve a partire dalla "politica sbagliata" fino ad arrivare alla qualificazione di "politica del tradimento degli interessi serbi", che sarebbe stata portata avanti da Tito e dalla coalizione anti-serba (croati, sloveni, bosniaci, etc.). Questa evoluzione è marcata da una dinamica della vita politica che diventa sempre più drammatica, investe non solo i quadri delle istituzioni statali e quelli del PC della Serbia, abbraccia la "società civile" (tutte le associazioni culturali della Serbia, con in testa l' Accademia delle Scienze), e prende forme violente in giganteschi raduni di centinaia di migliaia di persone, in tutte le città della Serbia.
Già all' inizio degli anni '80 in Serbia diventa percettibile una ristrutturazione del campo politico: il partito comunista della Serbia non è più il solo attore della vita politica. Alla sua azione si associa la Chiesa ortodossa, con la sua potente organizzazione propagandistica ed il suo storico prestigio di difensore "dell' essenza spirituale e fisica del popolo serbo"; le varie correnti degli intellettuali, dall' estrema sinistra all' estrema destra, con tutte le loro associazioni, e le gerarchie superiori dell' esercito divengono sempre più attive nello scenario politico. Tutti questi attori si trovano uniti sul problema del Kossovo, che assume il significato di una prova storica decisiva per il popolo serbo. I differenti strati della società a lungo frustrati dalla mancanza di possibilità democratiche di articolare le loro rivendicazioni ed i loro interessi, si lanciano nei raduni di massa, dando libero corso ai risentimenti contro i "nemici" 4.
Uno dei più importanti concetti della ridefinizione del periodo 1966-81 in Kossovo è quello dell' "albanizzazione". Con ciò si designa, nella sua accezione generale, l' espansione demografica e soprattutto "l' invasione" illegittima delle istituzioni pubbliche in Kossovo da parte di un popolo "straniero" in quanto non--slavo e non-serbo. Questa "invasione" diventa tanto più insopportabile per gli ideologi del nazionalismo serbo, in quanto il Kossovo è definito la "culla del serbismo", definizione che esclude la presenza secolare degli Albanesi su questo territorio. Non si tratta di una definizione culturale: essa utilizza i monumenti storici e culturali come certificati di diritto di proprietà esclusiva sul Kossovo.
In che modo si è realizzata l’ "albanizzazione"? In effetti, il rafforzamento dell' autonomia del Kossovo, negli anni 60 e 70, aveva permesso l' apertura delle scuole di lingua albanese a tutti i livelli (fino all' Università nel 1970), la creazione di case editrici, di istituzioni scientifiche, di giornali e di riviste, di radio e televisione in lingua albanese, oltre che l' istaurazione dell' amministrazione bilingue (serba e albanese) in Kossovo. D' altra parte se queste conquiste erano garantite de jure dalla prima Costituzione della Jugoslavia (1945), la realizzazione pratica di queste garanzie non avrà luogo che dopo la caduta del capo della polizia politica (A. Rankovitc).
E' esattamente quest' accesso graduale degli Albanesi, dopo il 1966, nelle istituzioni pubbliche, che sarà considerato dagli ideologi del nazionalismo serbo come "infiltrazione del nemico nelle istituzioni del nostro Stato". La propaganda si prefigge di mostrare dietro ogni forma di attività degli Albanesi, nel campo dell' insegnamento, nella cultura, la scienza, l' economia, lo sport, etc., l' ostilità agli interessi della Jugoslavia e soprattutto della Serbia. Le massicce campagne dei mass media durante tutti gli anni '80, tendono ad evidenziare all' opinione pubblica serba questo "tradimento degli interessi del popolo serbo". In parte della stampa apparivano, di tanto in tanto, degli scritti che si opponevano a questa interpretazione, ricordando che proprio quel periodo (1966-81) era stato marcato non solo da un più intenso sviluppo economico e culturale del Kossovo, ma anche da una relativa stabilità delle relazioni inter-etniche. Queste timide reazioni furono presto soffocate dall' assordante clamore della potente macchina della propaganda, che era orientata al fine strategico di ridefinire lo statuto del Kossovo e della Serbia nella Jugoslavia.

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Il genocidio e l'esodo

Gli elementi più significativi di questa propaganda nella creazione dell' immagine del Kossovo erano articolati nella teoria del "genocidio". Questa teoria, elaborata dall'intellighenzia e dalla Chiesa, ripresa più tardi dal Partito con dei documenti, doveva completare la tesi dell' "albanizzazione": dopo aver "invaso" le istituzioni del Kossovo, gli Albanesi avrebbero cercato di mandar via i serbi in tutti i modi. Si richiamano in questo contesto due tipi di cifre: da un lato si afferma che svariate centinaia di migliaia di Serbi (le cifre variano secondo le occasioni) avrebbero lasciato il Kossovo, dal 1966, e, nello stesso tempo, che svariate centinaia di migliaia di Albanesi si sarebbero infiltrati dalla vicina Albania, in base ad un patto segreto tra Tito e Enver Hoxha. Queste cifre sui Serbi cacciati e sugli Albanesi infiltrati, erano regolarmente evocate dai media e nei discorsi bellicosi dei dirigenti populisti. Così per esempio, il noto scrittore e leader politico Vuk Draskovic afferma, nella rivista "Glas crkve" (4/1988), che nella "seconda Jugoslavia più di un milione di Serbi hanno lasciato la Bosnia e più di mezzo milione di Serbi hanno lasciato il Kossovo".
Più volte, diverse istanze degli organi federali smentirono queste affermazioni e criticarono la manipolazione di queste cifre. Una analisi, sia pur rapida, delle fonti ufficiali serbe e jugoslave sui movimenti delle popolazioni nella seconda Jugoslavia mostra con facilità la falsità degli "esodi" e delle "infiltrazioni". Infatti, secondo gli "Annuari Statistici" della Serbia, durante questo secolo il numero dei Serbi in Kossovo non ha mai superato la cifra di 230.000. Il primo censimento ufficiale in Jugoslavia, quello del 1921, mostra una maggioranza di Albanesi del 65%. Le proporzioni dei gruppi etnici vanno gradualmente modificandosi: nel 1948 i Serbi costituiscono il 23,6% della popolazione del Kossovo e nel 1981 il 13,12 %). Tra il 1941 ed il 1981 hanno lasciato il Kossovo poco più di 100.000 Serbi, principalmente in direzione dei grandi centri industriali della Serbia, ma nello stesso tempo lo hanno fatto anche 300.000 Albanesi, soprattutto in direzione dei paesi occidentali, alla ricerca di lavoro 5. Ma, ugualmente, nello stesso periodo, più di 140.000 Serbi hanno lasciato la Vojvodina, che è sensibilmente più sviluppata ed ha un tasso di densità della popolazione molto basso (20 abitanti per Km quadrato), mentre il Kosovo è una regione sottosviluppata con un tasso di densità della popolazione tra i più alti in Europa (180 abitanti) 6.
Opponendosi alla campagna nazionalista che mistificava e demonizzava gli Albanesi, il libro Il nodo del Kossovo: tagliare o sciogliere ? offre il contributo di una ricerca critica di sociologi e politologi serbi di Belgrado, che mostra chiaramente la falsità dell’ "esodo" e del "genocidio" dei serbi, sottolineando che le ragioni delle emigrazioni dei Serbi dal Kossovo, erano state principalmente di ordine economico 7.
Tuttavia, nei mezzi di informazione, le migrazioni dei serbi erano presentate come un "fiume che scorre senza sosta" e che sottrae "la sostanza etnica serba" dalla terra santa del Kossovo. La pubblicazione dei dati reali sui flussi migratori da parte del Parlamento federale o del Ministero degli Affari Interni non riuscì ad attenuare l' impatto delle immagini e delle cifre fantastiche diffuse dalla propaganda.

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Il problema della natalità

Al tema dell' "esodo" è strettamente legato quello della natalità degli Albanesi, "progetto diabolico", maturato dagli ideologi del nazionalismo albanese. Questo progetto collettivo, secolare, avrebbe avuto come scopo la conquista del territorio serbo, ed in particolare della "culla del serbismo". Le immagini che apparivano negli articoli dedicati a questo tema sono concepiti per restare nella memoria e ad agire fortemente sui sentimenti: la natalità degli Albanesi è presentata come una "piaga cancerosa" ed una "metastasi nel corpo sano del popolo", o "come un coltello che penetra nello stomaco del nostro popolo". La donna albanese è presentata come una "macchina per fare figli" e la natalità degli Albanesi come una minaccia diretta all' esistenza stessa del popolo serbo. Di fronte a quella che la propaganda chiamava "la spaventosa moltiplicazione" degli Albanesi, i Serbi avrebbero dovuto fare i conti con la possibilità della loro scomparsa. Gli appelli al popolo serbo, lanciato dagli uomini politici, dagli scienziati e dagli artisti, affinchè si facessero più figli al fine di contrastare "l'invasione" degli Albanesi, erano incessanti. Il Parlamento della Serbia aveva adottato svariate misure per incentivare la natalità dei Serbi e contemporaneamente per frenare quella degli Albanesi (riduzione dell' aiuto sociale per le famiglie albanesi con più figli). Il dibattito su questo tema non fu privo tra l'altro, delle ingiurie più grossolane che stigmatizzavano "la bestialità della natura albanese".
Al fine di illustrare il modo con cui la propaganda produceva effetti, citerò il caso di un gruppo di panettieri albanesi che lavoravano in Serbia. Nel 1983 essi furono arrestati con il pretesto "che avrebbero messo nel pane che producevano una materia chimica, capace di sterilizzare le donne serbe". Il caso fece molto scalpore nella stampa e nella televisione di Belgrado, ma alla fine, il gruppo di esperti incaricati dell' inchiesta smentì l' accusa. Tuttavia, il fragore provocato da questa notizia, associato ad altri "fatti" che dovevano provare il "genocidio", contribuì ad alimentare l' odio contro gli Albanesi. In una delle numerose petizioni del clero della Chiesa ortodossa nei riguardo del Kossovo, si domandava "di intraprendere tutte le misure ordinarie e straordinarie per regolarizzare la situazione nel Kossovo, ed in particolare di impedire agli Albanesi di maneggiare i prodotti alimentari nel territorio ristretto della Serbia 8". Questo divieto doveva colpire numerosi panettieri e pasticceri albanesi. Bisogna sottolineare che questa reazione della Chiesa venne dopo la smentita degli esperti serbi.

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Lo stupro in Kosovo

Uno dei modi per provare la teoria del "genocidio" commesso ai danni dei Serbi del Kossovo, era il tema della violenza carnale sulle donne serbe da parte degli Albanesi. Questa propaganda, fortemente mediatizzata, presentava la violenza sulle donne serbe come un fatto frequente, quotidiano, numeroso, che avrebbe avuto luogo dappertutto ed in ogni momento. Se si fa una rapida analisi della presentazione di questo fatto attraverso i mass media, durante otto anni (1981-1989), ciò che colpisce è, da una parte, la frequenza con la quale questo fenomeno era evocato, la violenza delle accuse e delle immagini che le accompagnavano, e dall' altra la mancanza di prove che confermassero l' incriminazione. Tuttavia, in seguito alla richiesta di alcuni deputati del Kossovo, sia al Parlamento federale, sia al Parlamento serbo, i rapporti del Ministero degli Affari Interni su tutte le forme di questo delitto in Kossovo, dicevano chiaramente che il tasso di frequenza di questo delitto restava, nel Kossovo il meno elevato di tutti i paesi, e che la maggior parte di delitti di questo tipo avvenivano tra membri di una stessa comunità (sia Albanesi che Serbi). Questi rapporti, tra l' altro pubblicati nei mezzi di informazione, citavano, per il periodo 1981-1988, diciassette casi in cui un Albanese appariva come aggressore e una Serba la vittima. Le ricerche condotte dai sociologi serbi, pubblicate nell' opera Il nodo del Kosovo: tagliare o sciogliere ?, mostrano chiaramente che la maggior parte dei conflitti e dei delitti di criminalità in Kossovo si avvenivano tra membri della stessa comunità. Ciò vale anche per la violenza carnale. La sociologa e deputata dell' Alleanza civica al Parlamento della Serbia, Vesna Pesic constata: "Le mie ricerche sulle violenze carnali in Kossovo hanno mostrato che dal 1987 non c' é stata più alcuna violenza "interetnica", e cioè che un Albanese abbia violentato una donna Serba, benché si parli incessantemente di questi casi. Sotto l' enorme pressione dell' opinione pubblica in merito alla violenza sulle "donne serbe", fu introdotto un nuovo delitto di violenza carnale, per i casi in cui le persone coinvolte fossero di "nazionalità differente". D' altra parte, il tasso di violenza carnale in Kossovo era il più basso, rispetto a tutte le altre repubbliche della Jugoslavia, e la maggior parte delle violenze in Kossovo, avveniva tra membri dello stesso gruppo etnico" 9. Al fine di illustrare il modo in cui veniva applicata questa nuova legge, citerò il caso, che fu portato all' attenzione da alcuni deputati albanesi al Parlamento della Serbia: un ragazzo di sedici anni (Albanese) fu condannato a dieci anni di prigione per "tentativo di violenza" su di una ragazza serba, mentre una persona adulta (serba) per una violenza effettiva su di una ragazza di 14 anni (albanese) fu condannato a 2 anni di prigione. Per illustrare l' affermazione che "benché non vi fosse stata alcuna violenza interetnica, tuttavia si parlava incessantemente di questi casi", citerò il caso dell' incontro dei senatori americani, guidati da Robert Dole con i rappresentanti dei partiti politici albanesi e serbi a Prishtina, nel settembre del 1995. Uno dei dirigenti dell' associazione Bozur, "con visibile emozione informò il senatore Dole che negli ultimi tempi si erano avuti 90 nuovi casi di violenza su donne serbe. Il senatore rispose che il giorno prima a Belgrado il Ministro degli Affari Interni della Serbia lo aveva informato del fatto che negli ultimi due anni non era stato constatato alcun caso di violenza carnale interetnica'' 10.
Bisogna sottolineare che la propaganda faceva di tutt' erba un fascio: ogni forma di conflitto di diritto comune tra Albanesi e Serbi era trasformata in conflitto interetnico. La lettura attenta di tutti i rapporti di polizia e dei tribunali, che erano regolarmente trasmessi dagli stessi mezzi di informazione che sviluppavano la campagna sul "genocidio", diceva chiaramente una stessa e unica cosa: nel 90% dei casi, tutti gli Albanesi condotti davanti ai tribunali erano condannati per un' attività politica, per delitto d' opinione. Le altre forme di delitto erano di diritto comune. La propaganda, a disprezzo dei fatti comunicati dalla polizia serba, presentava la violenza sulle donne serbe da parte degli Albanesi come un fatto frequente, quotidiano, che avrebbe avuto luogo dappertutto ed in ogni momento. E non solo i giornali, ma anche alcune riviste scientifiche mostravano molto zelo nel diffondere questa verità. Così, nella rivista filosofica di Belgrado "Théoria", in un numero dedicato al Kossovo (3/4 1988), un noto psicologo, Vladeta Jerotic, scrisse: "Gli Albanesi violentano quotidianamente e dappertutto: nelle strade, nei mezzi pubblici, negli ospedali, nelle fabbriche...". Questa frase illustra bene e riassume l' immagine che la propaganda tendeva a creare sul Kossovo come suolo sul quale la donna serba era esposta alla forma di violenza più umiliante, alla violenza carnale, dal maschio Albanese. Negli articoli dei poeti e degli scrittori, dedicati a questo tema, nelle poesie e nei racconti (una collezione importante è pubblicata, come è noto, nelle riviste letterarie "Knjizevne novine" e "Knjizevna rec") numerose descrizioni suggeriscono il rapporto Serbo-Albanese, come un rapporto tra la dolcezza, l' innocenza, la fragilità e la bontà femminili, contrapposte alla rozzezza, la crudeltà, la barbara violenza del maschio albanese. Le dettagliate descrizioni di un presunto stupro in Kossovo, nelle pagine dei quotidiani e delle riviste letterarie, erano degli esercizi di stíle di racconti di crudeltà. Questa parte della propaganda è stata probabilmente quella più "fruttuosa" ed efficace negli sforzi di alimentare l' odio e il desiderio di vendetta nei Serbi: la violenza sulla donna serba, nella sua innocenza e fragilità, contrapposta alla violenza barbara dell' Albanese, doveva diventare il simbolo della violazione della "terra santa" del Kossovo, santificata dal sangue degli eroi delle battaglie del passato; la violenza carnale era presentata come la più umiliante macchia della madre terra. Il tema della violenza non era presente solo nella penna di giornalisti, scrittori e poeti, ma ispirava anche pittori e scultori. Uno di essi, in una lettera pubblicata nella rivista "Knjizevne novine" (9/1988), spiega che attraverso la sua opera, che rappresenta una bambina serba violentata da un Albanese, aveva voluto "esprimere il rapporto tra un popolo e l' altro". Il rapporto degli Albanesi contro i Serbi è dunque definito essenzialmente dalla violenza carnale, come la più umiliante delle violenze. La rappresentazione di questa simbolo della violenza reclamava vendetta, una vendetta legittima, che riparasse le ingiustizie e le umiliazioni subìte dal popolo serbo.
Di fronte a questa situazione si impongono almeno due questioni: perché i dati riportati dagli organi competenti (nei rapporti della polizia, dei tribunali, dei parlamenti, degli annuari statistici) jugoslavi e serbi non erano in grado, non solo di invalidare, ma nemmeno di mettere in dubbio "la verità" della violenza carnale in Kossovo? Da dove veniva questo impatto così potente della propaganda sull' opinione pubblica serba?
Una risposta adeguata dovrebbe tenere conto delle analisi dell' insieme delle azioni del Partito, dello Stato, della Chiesa, dell' Esercito, della classe intellettuale e dei mezzi di informazione, che hanno prodotto, durante tutto un decennio, la mobilitazione delle masse serbe, in particolare tramite i raduni e le manifestazioni violente attraverso tutta la Serbia. Questa mobilitazione militante si era realizzata, prima di tutto, a partire dalla definizione degli Albanesi del Kossovo come capro espiatorio. L' apparizione sulla scena di una guida - Milosevic- nel 1987, che doveva aiutare le masse, attraverso l' identificazione emotiva, a superare paure ed incertezze di fronte ad un avvenire incerto, seguìto alla dissoluzione di un sistema politico ed alla crisi economica, rispondeva alle aspettative delle masse. Egli promise loro dall' inizio "O la Serbia sarà forte ed unita o non sarà affatto". E' a questo punto che appare lo slogan di uno dei padri spirituali del nazionalismo serbo, il grande scrittore ed accademico Dobrica Cosic: "Il popolo serbo ha sempre perduto in pace ciò che aveva conquistato in guerra". La necessità della guerra per riparare "la sconfitta dello Stato" (l' autonomia del Kossovo ne era la prova lampante), le umiliazioni ed il tradimento, al fine di creare uno Stato Serbo etnicamente puro delimitato da frontiere che fossero rispettose della "giustizia storica", sarà sviluppata in una serie di raduni dedicati alla questione del Kossovo. Questi raduni, dotati di una ricca iconografia nazionalista e religiosa, divennero fatto quotidiano ed il principale strumento politico. L' indignazione delle masse sarà messa a servizio non solo dello smantellamento delle istituzioni federali, ma anche della violazione di tutte le norme che davano, per quanto poco, una certa stabilità alla vita sociale e politica del paese. Questa mobilitazione di massa aveva preso l' andamento di un allenamento del popolo alla guerra: gli slogan "dateci le armi" e "morte agli Albanesi", erano quelli più forti, scanditi con veemenza e trasmessi regolarmente dai media, in particolare dalla televisione. L' ideologia nazionalista serba trasformò la paura ed il malessere reali, provocati dalla crisi economica e politica, in una paura nevrotica. E' in uno di questi raduni, tra i più imponenti per dimensioni, con più di un milione di partecipanti, per i 600 anni dalla battaglia nel Kossovo, che Milosevic designa il Kossovo come "il simbolo del tradimento degli interessi del popolo serbo" per annunciare nello stesso tempo che "le guerre armate non sono da escludersi'' 11. Questa mobilitazione delle masse serbe, che era riuscita gradualmente a vincere le resistenze, tra l' altro rare e deboli, all' interno delle istituzioni serbe, era stata rinforzata in particolare dalla demonizzazione degli Albanesi. Uno degli elementi forti di tale demonizzazione era proprio l' accusa di stupro. Si è visto che la teoria del genocidio era costruita a partire dai procedimenti classici della propaganda: costruzione di grandi menzogne sulla base di "piccole verità" (i conflitti di diritto comune trasformati in conflitti interetnici, le tensioni reali tra Serbi ed Albanesi in periodi di crisi economica e politica) l2, i racconti delle crudeltà, sulla base di fatti inventati o di dati ampiamente falsificati, ed in particolare attraverso la ripetizione incessante di menzogne ("genocidio", "terrore", "pulizia etnica"), che finirono col tempo per assumere l' aspetto di verità per il popolo serbo.
Il lavoro della propaganda ebbe degli effetti disastrosi nell' alimentare il risentimento e l' odio, e nella graduale rottura delle relazioni tra etnie in Kossovo.

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Il giuramento del Kosovo, la tomba e 1'impero celeste

Spesso i testi e i discorsi che si sforzavano di provare "il genocidio" dei Serbi da parte degli Albanesi ricordavano il giuramento del Kossovo, il suo messaggio attraverso i secoli, il dovere di riconquista dello Stato Serbo (nell' attuale contesto significa soppressione dell' autonomia del Kossovo ed annessione di esso alla Serbia), il dovere di riparare "le ingiustizie e umiliazioni" subìte dal popolo serbo. Il bellicoso discorso di Milosevic al "campo dei merli", sopra citato, è un' espressione di questo giuramento. Il Kossovo figura sempre, nell' ideologia nazionalista serba, in ogni sua versione, come il simbolo di una delle santità principali della storia serba - la tomba sulla terra e l' impero celeste come tomba di tutte le vittime serbe nel corso della storia. Così, per Matjia Beckovic, grande poeta ed accademico "La tomba è la nostra più grande santità e la più antica chiesa del popolo serbo. La tomba è la nostra fede più duratura e persistente'' l3. Atanasije Jevtic, uno dei vescovi maggiormente militanti della Chiesa ortodossa serba, nel suo articolo "Il giuramento del Kossovo" dice :"L' Impero celeste realizzato nel nome di tutto il popolo serbo (come Mosé in nome di Israele) è la più forte espressione del senso della nostra storia e la sua idea regolatrice. Il Kossovo (dunque la scelta di Lazar e l' orientamento del Kossovo) ha mostrato che la nostra storia si è svolta al livello più elevato, fino al limite tragico e sollevata, tra il celeste ed il terrestre, il divino e l' umano. Il Kossovo è anche una testimonianza che, in quanto popolo, noi non abbiamo lottato per delle cose insignificanti e che non ci siamo mai potuti entusiasmare per delle sciocchezze e delle cose effimere'' 14.
Tuttavia questa concezione fantasmagorica della storia serba, del passato come del presente, accecava e bloccava il buon senso a tal punto che il netto contrasto tra la"grandezza agognata", tra "il disegno più elevato", e la situazione reale del Kossovo diventava impercettibile: la feroce repressione contro gli Albanesi, che raggiunge il "più alto livello" precisamente in questo periodo, il carattere radicale delle diverse forme di discriminazione, applicate dallo Stato serbo e sostenuta dagli altri attori della vita politica. Il lavoro sistematico di una così potente propaganda, aveva creato col passare del tempo, vincendo le deboli resistenze, una piaga dolorosa nella coscienza del popolo serbo: le argomentazioni razionali che mettevano in dubbio le accuse contro gli Albanesi non riuscivano a scalfire la "verità" sullo stupro e quella più generale sul "genocidio": questa ferita resisteva ad ogni analisi critica, ai fatti, alla prudenza. Essa cercava la sua guarigione nella via della vendetta "legittima".
L' evocazione fantasmagorica della grandezza dell' impero delle vittime è accompagnata dal giuramento della vendetta. Una delle manifestazioni tipiche del nazionalismo serbo, che miravano alla mobilitazione delle masse serbe attorno al progetto di riparazione delle ingiustizie e delle vittime, furono le cerimonie religiose ed artistiche, in varie regioni della Jugoslavia abitate dai Serbi. Tra le più importanti ci fu quella, che accompagnò i resti dello tzar Lazar attraverso tutto il paese, prima di essere ricondotta in Kossovo, per la celebrazione dei sei secoli dalla battaglia del Kossovo. Miroslav Jancic, alto funzionario del Fronte Socialista della Bosnia e della Erzegovina, in un articolo pubblicato sul quotidiano di Belgrado "Politika" (17/9/88), critica le manipolazioni dei resti dello tzar Lazàr attraverso la Bosnia, ed in particolare il testo della lettera che accompagna questo corteo. La lettera in effetti era indirizzata "ai nemici della Serbia insanguinata e martirizzata" con il chiaro messaggio "che ci si sforzerà di sterminare le loro tribù e i loro eredi, affinché la storia non li menzioni più".
La propaganda nazionalista, nei suoi sforzi di realizzare la mobilitazione delle masse serbe, sviluppando "la presa di coscienza sulle tragiche sorti del popolo serbo" non solo in Kossovo, ma in tutta la Jugoslavia, per mostrare l' ampiezza del tradimento spinge fino in fondo l' immagine dei serbi come vittime tragiche della Jugoslavia di Tito, e generalizza e radicalizza questa immagine che influenzerà in maniera decisiva, durante tutti gli anni '80 e '90, la costituzione dell' identità nevrotizzata delle masse serbe. Un esempio caratteristico di questa visione si trova in un articolo del Dr. Zarko Gavrilovic, in cui questi dice: "La Jugoslavia dell' AVNOJ (Il Consiglio Antifascista della liberazione della Jugoslavia) è un' orribile tomba del popolo serbo, un velo che maschera il massacro dei Serbi, il martirio e la violenza sulla storia serba, sull' essenza etnica serba. Per noi tutti è divenuto ormai chiaro che questa creatura dell' AVNOJ, non era che il Cavallo di Troia, che è servito all' intrusione del Vaticano, della Germania e dell' Austria a Sud ed a Est, e del “djihad” a Nord ed a Ovest'' 15. La figura del nemico assume così molteplici facce: se durante gli anni '80 aveva il volto degli Albanesi, negli anni '90 si moltiplica estendendosi a tutti gli altri popoli della ex-Jugoslavia, oltre che all' Occidente cattolico e all' Oriente islamico.
Il carattere radicalmente falso di questa visione della situazione serba appare da un confronto elementare tra i diversi parametri (economici, culturali, etc.) nei differenti periodi della storia serba: il periodo 1945-1981, così come per le altre repubbliche, è quello che vede il massimo sviluppo della Serbia. Ma le visioni apocalittiche erano più influenti che gli atteggiamenti di buon senso.
La vendetta, invocata in tutti i discorsi e scritti sul "giuramento del Kossovo", era già in atto dal 1981. Nel rapporto del Ministro degli Affari interni del Kossovo, Rahman Morina (docile strumento della politica di Milosevic in Kossovo e, nello stesso tempo, modello proposto dal potere serbo dell' "Albanese onesto") al Parlamento del Kossovo (aprile 1988), è detto che nel corso degli anni 1981-1988, la polizia ed i tribunali avevano "trattato", nella loro lotta contro "il nazionalismo albanese", 580.000 persone (su 1,8 milioni di Albanesi abitanti in Kossovo). L' analisi di questo rapporto, fatta dagli esperti della Federazione Internazionale dei diritti dell' uomo, mostra chiaramente che la maggior parte delle pene era stata inflitta per delitto d' opinione. Per esempio, 22.000 persone furono condannate a pesanti pene carcerarie (da 2 a 14 anni) per un' attività politica qualificata come "contro-rivoluzionaria" e "nazionalista", sanzionata dai famosi articoli 133 e 114 del Codice Penale. Migliaia di altri Albanesi sono stati condannati da 30 a 60 giorni per il semplice fatto di aver partecipato a delle manifestazioni od a degli scioperi. Più di 150 manifestanti Albanesi furono uccisi, durante diverse manifestazioni, nello stesso periodo.
Ma le forme più radicali della vendetta cominciarono ad apparire dal 1990, con la soppressione arbitraria dell' autonomia del Kosovo, con la pulizia etnica di tutte le istituzioni degli Albanesi, con una accresciuta repressione, che da quel momento non ha cessato di amplificarsi, avendo come scopo la realizzazione del cambiamento della struttura etnica del Kossovo, o la versione "silenziosa" della pulizia etnica del Kossovo l6.
Gli effetti di questo intenso lavoro della propaganda nazionalista sulla preparazione e lo svolgimento della guerra, sono evidenti, e permettono di comprendere gli avvenimenti degli anni '90. E' questa ideologia che è riuscita a saldare i principali attori del movimento nazionalista serbo: il Partito, l' Esercito, la Chiesa, gli intellettuali, a realizzare la loro unità (pur rimanendo dei dissensi in merito a diverse questioni concrete) in relazione al progetto comune dello Stato etnicamente puro di tutti i Serbi. La coalizione, essenzialmente antidemocratica, realizzata intorno a questo progetto tra i nazionalisti ed i comunisti serbi, aveva risparmiato al PC della Serbia, come detentore principale del potere, di lavorare alle riforme, che erano già in corso, nella maggior parte dei paesi dell' Europa dell' Est, verso la fine degli anni '80. Esso aveva fatto la scelta della guerra, in nome della salvezza del suo popolo....

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NOTE
1) Questo testo riprende alcune tesi e dati degli articoli “Le problème du Kosovo et l’éclatement de la Yougoslavie”, Cahiers d’histoire immédiate, 4, 1993, e “La politique de la haine”, Esprit, 10, 1995.
2) Vedi Georges Castellan, Histoire des Balkans, Fayard, Paris, 1991, pp. 358-369.Occorre notare che al mito serbo fondato sul Kossovo come “culla del serbismo”, collocato nel Medio Evo, gli Albanesi opponevano il loro mito dell’antichità illirica e pre-romana della “Dardania”, volendo sottolineare la loro presenza più antica rispetto ai Serbi. Per gli Albanesi il Kossovo è importante anche in quanto regione dove nacque il movimento del “Rinascimento albanese” o Lega di Prizren (1878 -1912). Nelle loro attuali controversie con i Serbi, i partiti politici Albanesi del Kossovo tuttavia mettono l’accento più sul tema dei diritti dell’uomo e sulla loro volontà politica di uno stato indipendente.
3) Per il sociologo serbo Slobodan Inic: “Senza alcun dubbio il periodo successivo al plenum di Brioni ha messo in luce tutte queste forme di patriottismo fanatico che si applicarono agli albanesi del Kossovo, dalla fine della guerra nel 1945 fino al IV plenum nel 1966” nel bimestrale “Republika”, Belgrado, n. 130, 1995. Vedi ugualmente Joseph Krulic nell’Histoire de la Yougoslavie, Editions complexes, Bruxelles, 1933: “D’altra parte lo status di emergenza, che rappresentava la regola in Kossovo tra il 1945 ed il 1966, mostra che la popolazione albanese non era certamente soddisfatta della sua sorte”, p. 117.
4) Il vescovo Atanasije Jevtic, in un articolo intitolato "Kosovo et autour du Kosovo", pubblicato nella rivista "Pravoslavlje", (Ortodossia), nr. 366,1982, constata che "da qualche decennio i nazisti albanesi lavorano allo sterminio del popolo serbo".
5) Vedi: Srdjan Bogosavljevic "Statisticka slika srpsko-albanskih odnosa"(L' immagine statistica dei rapporti serbo-albanesi) in "Republika" 9/1994, p. l8.
6) Vedi Michel Roux, Les Albanais en Yougoslavie, MSH, Paris, 1992.
7) Vedi Kosovski cvou: dresiti ili seci ?, Chronos, Beograd, 1990.
8) Radmila Radic, Crkva i "srpsko pitanje" (La Chiesa e la "questione serba"), in "Republika", Beograd, 121-122, 1995, p IV.
9) Kosovski cvor...., p. 47, e "Republika", 129/1995, p. XVII.
10) Secondo il settimanale "Danas", Zagreb, 4.09.,1995, p.11.
11) Vesna Pesic, Nacionalni sukobi (I conflitti nazionali), in "Republika", 129/1995, p.XXI.
12) Tuttavia queste tensioni non sono mai sfociate in conflitti diretti tra le due comunità: tutti i conflitti in Kossovo, nei 50 anni della seconda Jugoslavia, erano conflitti tra i manifestanti albanesi e la polizia serba. Ciò non esclude i casi particolari delle pressioni nazionaliste sui Serbi. Dall’ altra parte abbiamo sviluppato un'analisi critica dei differenti aspetti del nazionalismo albanese negli articoli "Ideologie et nation", Lignes, Paris, 20/1993; "La politique de la haine", Esprit, 10/1995, e recentemente in albanese nella raccolta Essais philosophiques et politiques" Dukagjini, Pejé, Kossovo), 1995; in particolare gli estratti "Il gusto delle radici", "Gli schemi comodi" etc.
13) R. Rajic, Crkva i "srpsko pitanje", "Republika", 121-122,1995, p.VIII.
14) Ibidem.
15) Zarko Gavrilovic, "Svecanik", Beograd, 1-2,1993.
16) Il carattere sistematico e molteplice della repressione del potere serbo sugli Albanesi del Kossovo, dal 1981, è presentato correttamente nei rapporti annuali di numerose associazioni internazionali dei diritti dell' uomo (Amnesty International, Fèdération Internationale de Helsinki, MAN a Parigi). I rapporti segnalano, in particolare, la prassi della tortura dei prigionieri politici albanesi. Essi confermano che il fine principale di tutte le forme di repressione sugli Albanesi è la pulizia etnica "silenziosa" del Kossovo.