LA CAMPAGNA ANTI-ALBANESE
di Branka Magas

Il Kossovo è stato, un tempo, il centro geografico di un impero serbo di breve durata i cui frammenti furono, infine, distrutti nel 1389 dagli eserciti ottomani. Una memoria collettiva della battaglia sopravvisse in canti popolari locali, e la Chiesa ortodossa - per proprie ragioni - rivestì di dimensione mistica questa sconfitta di un potere secolare. Intorno alla metà del diciannovesimo secolo il mito del Kossovo servì ai principi serbi emergenti come strumento di costruzione di una nazione. Fu utilizzato anche per giustificare l’espansione territoriale verso il sud, mirante a raggiungere Salonicco, e per mobilitare i contadini Serbi per una serie di guerre che culminarono nelle guerre dei Balcani (1912-1913). Dato che a quell’epoca il Kossovo era abitato in prevalenza da Albanesi, questo mito ha acquisito anche tonalità etnico-razziali. Divenne il simbolo della nazione in guerra, un punto di riferimento centrale per i Serbi nazionalisti. Dopo le manifestazioni albanesi del 1981, i Serbi nazionalisti si lamentarono sempre più che il Kossovo stava diventando una provincia totalmente albanese, che “la culla della nazione serba” veniva, a poco a poco, alienata da questa. La leadership del Kossovo fu accusata di incoraggiare l’emigrazione dei Serbi (e dei Montenegrini) dalla provincia, e l’etnia albanese fu ritenuta colpevole di genocidio etnico.
Non c’è dubbio che gli slavi emigrassero dalla regione, ma è altrettanto evidente che lo facevano soprattutto per ragioni economiche. (Già nel 1970 la disoccupazione nel Kossovo raggiungeva il 50% della popolazione in grado di lavorare, ed anche gli Albanesi tendevano ad emigrare). Ma gli Slavi del Kossovo sono stati influenzati anche da fattori culturali-politici. La rapida albanizzazione della amministrazione provinciale dal 1966 in poi era stata ottenuta servendosi delle quote suddivise per etnie, e così si erano ridotte le possibilità di lavoro degli slavi nel settore statale nel quale, fin ad allora, erano stati privilegiati. Inoltre, grazie al loro alto tasso di natalità, la preponderanza etnica degli Albanesi è andata aumentando costantemente trasformando, nel periodo della nuova democrazia, la situazione dal punto di vista linguistico, educativo, e culturale. Per evitare l’emigrazione dei Serbi, nel 1987 fu concordato un programma di investimenti per tutta la Yugoslavia rivolto soprattutto ai comuni abitati da Serbi, benché ciò fosse assolutamente anticostituzionale. Ma ciò servì ben poco a cambiare lo stato economico disperato della provincia e l’emigrazione (da parte di ambedue le etnie) continuò lo stesso. Peggiore che mai fu l’enorme errore commesso dalla leadership federale del Partito: descrisse le manifestazioni albanesi per uno status repubblicano del 1981 come un tentativo di “contro-rivoluzione”, condotta dai separatisti albanesi. Ciò permise ai nazionalisti serbi di rivestirsi con gli abiti di custodi della rivoluzione.
Alla fine del 1986 un comitato di Serbi e Montenegrini del Kossovo formatosi da poco cominciò a mandare delegazioni a Belgrado ed ad organizzare proteste di massa nella provincia stessa, lamentandosi per il “genocidio” e chiedendo l’eliminazione di tutti i leaders albanesi e l’introduzione di un governo militare nel Kossovo. Alla fine degli anni ‘80 emerse in Serbia una potente coalizione che comprendeva poliziotti in pensione, revanscisti emigrati dalla provincia (la caduta di Rancovic, nel 1966, aveva portato ad un esodo di quadri amministrativi Serbi, dando vita ad una costituente potenzialmente “irredentista”), il Comitato Kossovo, nazionalisti di destra che facevano parte dell’intellighenzia tradizionale, persone di sinistra “deluse”, un’ala della Chiesa Ortodossa e sezioni del Partito e della burocrazia statale. La coalizione entrò nella vita pubblica con una petizione attualmente famosa nella quale la leadership di partito e dello stato di quel tempo venivano accusate di alto tradimento. Di conseguenza alla fine del 1986 la politica di Stambolic di cercare di ottenere la revisione della Costituzione attraverso il consenso ottenne appoggi sia nella Serbia che nel Kossovo.
I nazionalisti si sforzarono di presentare il Kossovo come una società senza leggi, diretta da nazionalisti estremisti ed irredentisti che tendevano ad una “assimilazione forzata ed all’espulsione della popolazione non-albanese”. I mezzi di comunicazione di massa ufficiali si coalizzarono, senza risparmiare alcun mezzo tattico. Una delle cose più vergognose fu quella di inventare ogni giorno storie di donne Serbe violentate - malgrado che tutte le statistiche ufficiali mostrassero l’assurdità di tali fandonie razziste. Un’altra delle tattiche utilizzate è stata quella di sostenere che l’alto tasso di natalità degli Albanesi facesse parte di un complotto nazionalistico e che dovesse essere combattuto con misure di stato discriminatorie. Ma questa campagna isterica è stata efficace. Intorno al 1987 il Kossovo era diventato - in violazione sia della lettera che dello spirito della Costituzione - una zona “sui generis” dal punto di vista della legalità. Si cominciarono a costruire industrie in Kossovo solo per i Serbi, le famiglie albanesi venivano scacciate dai villaggi serbi, era proibito vendere agli Albanesi terre possedute da Serbi, lo stupro fu dichiarato crimine politico. Gli Albanesi venivano duramente condannati per misfatti di poco conto e spesso inventati. Nella stampa di Belgrado fu lanciata una campagna di denigrazione contro quei leaders albanesi che avevano lottato duramente per ottenere una maggiore autonomia per il Kossovo nei dibattiti costituzionali dal 1966 al ‘73 (tra i più famosi Fadil Hoxha, membro del Partito da prima della guerra, generale partigiano, e membro della Presidenza dello Stato Federale). Insulti “razziali” venivano tollerati nei media. Questa campagna anti-albanese portata avanti in Serbia incoraggiò a sua volta la leadership della Macedonia ad iniziare una politica che arrivò a ridurre - incostituzionalmente - le possibilità educative per i bambini albanesi, a limitare i loro contributi assistenziali, talvolta anche a distruggere case di Albanesi ed in generale a discriminare questa parte della popolazione della Repubblica.
Non c’è da meravigliarsi se i rapporti tra la leadership Serba ed Albanese divennero palesemente sempre più freddi. La campagna anti-albanese aumentava così velocemente in Serbia che sembrò inevitabile - per preservare i diritti nazionali fondamentali - l’eliminazione dell’autonomia della provincia.
(da “The destruction of Yugoslavia”, London, Verso, 1993, pp.195-197)
poco conto e spesso inventati. Nella stampa di Belgrado fu lanciata una campagna di denigrazione contro quei leaders albanesi che avevano lottato duramente per ottenere una maggiore autonomia per il Kossovo nei dibattiti costituzionali dal 1966 al ‘73 (tra i più famosi Fadil Hoxha, membro del Partito da prima della guerra, generale partigiano, e membro della Presidenza dello Stato Federale). Insulti “razziali” venivano tollerati nei media. Questa campagna anti-albanese portata avanti in Serbia incoraggiò a sua volta la leadership della Macedonia ad iniziare una politica che arrivò a ridurre - incostituzionalmente - le possibilità educative per i bambini albanesi, a limitare i loro contributi assistenziali, talvolta anche a distruggere case di Albanesi ed in generale a discriminare questa parte della popolazione della Repubblica.
Non c’è da meravigliarsi se i rapporti tra la leadership Serba ed Albanese divennero palesemente sempre più freddi. La campagna anti-albanese aumentava così velocemente in Serbia che sembrò inevitabile - per preservare i diritti nazionali fondamentali - l’eliminazione dell’autonomia della provincia.
(da “The destruction of Yugoslavia”, London, Verso, 1993, pp.195-197)

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