LA TEORIA DELL’ALBANIZZAZIONE DEL KOSSOVO SERBO

E’ impossibile capire a fondo il conflitto del Kossovo tra serbi ed albanesi se non si tiene conto anche della diversa interpretazione data da queste due popoli della storia di questa regione. In questa scheda cercheremo di dare atto, con l’aiuto del lavoro di Marco Dogo, Kosovo, (citato in bibliografia) dei principali elementi dell’interpretazione serba, definita da lui Teoria della albanizzazione della Vecchia Serbia, (pag. 23), senza conoscere la quale è impossibile capire sia le tesi di Cubrilovic e di altri intellettuali serbi, come il premio Nobel della letteratura Andric, né il noto documento dell’Accademia delle Scienze e delle Arti della Serbia, che qualcuno ha considerato la piattaforma teorica della recente guerra jugoslava, né infine il concreto agire di Milosevic, che tale politica ha cercato di portare avanti, “cavalcando la tigre”, così si direbbe in Italia, del nazionalismo e del revanscismo serbo.
Secondo l’interpretazione serba gli albanesi del Kossovo non sono autoctoni, ma provengono dal territorio montano dell’Albania Settentrionale. Durante l’occupazione del territorio kossovaro da parte degli ottomani (dal XV al XX secolo) i serbi sarebbero stati costretti ad abbandonare, in varie riprese (ma in particolare nel 1690 e nel 1737) questa zona, sia perché perseguitati in quanto cristiani e per il loro rifiuto a convertirsi all’islamismo (come invece avrebbe fatto la stragrande maggioranza degli albanesi), sia perché si erano alleati con gli Asburgo, nemici acerrimi dei mussulmani. “Dalle montagne gli albanesi sarebbero calati alle bocche delle valli, espandendosi poi nella piana del Kosovo, insediandosi in villaggi deserti e in altri ancora popolati, gradualmente avvolgendo in un tessuto etnico alieno le pur consistenti comunità serbe rimaste” (pag. 24). Attraverso questa teoria i serbi hanno cercato di dimostrare che l’impronta albanese del Kossovo, la cui nazione costituisce dai primi anni del XX secolo la grande maggioranza della popolazione della regione, era “non naturale” ma “frutto di violenza e usurpazioni antiche e recenti, di scelte compiute in stato di necessità, di ingiustizie forse non rimediabili ma che proprio per questo rafforzavano le ragioni di chi le aveva subite e continuava a subirle” (pag. 25).
Questa teoria, semplificata ai fini propagandistici, è stata in seguito perfezionata per rispondere alla tesi opposta che in realtà gli albanesi si erano rifugiati nelle montagne non perché provenienti da lì, ma per sfuggire alle persecuzioni cui erano stati sottoposti, per poi tornare nelle zone da cui provenivano originariamente. Un elemento di questo perfezionamento è quello della mescolanza od interazione etno-biologica serbo-albanese, per cui molte delle famiglie o clan albanesi, prima della loro calata dalle montagne, conservano memoria di un’origine slava, dovuta a commistioni etniche che risalivano a periodi molto precedenti, probabilmente fin dai tempi della prima conquista slava della Dardania. L’altro elemento era una radicale revisione dell’interpretazione della migrazione del popolo serbo, soprattutto verso la Ungheria. “Dalla Vecchia Serbia non se n’era andato, nel 1690, il popolo serbo, ma la gerarchia ortodossa al completo, Patriarca, grandi dignitari, preti. Il vuoto s’era fatto nella chiesa, non nell’etnia; ma questa, già da tre secoli priva di capi politici ed ora abbandonata dai suoi capi religiosi, s’era trovata a soffrire un duplice processo di islamizzazione ed albanizzazione equivalente a tutti gli effetti, per l’idea nazionale serba, a estinzione etnica” (pag. 27).
Secondo questa nuova versione della teoria il problema di fondo della zona diventava quello del “recupero” dei Serbi che erano diventati albanofoni per mimetismo, o di quelli che si erano fatti mussulmani per opportunismo, e di tutti quelli più o meno allontanatisi dalla loro matrice etnica originaria, ma non del tutto perduti. “Serbi che andavano aiutati a ritrovare se stessi, eventualmente anche con la dolce violenza di una ri-cristianizzazione più o meno forzata, come in effetti avvenne nell’euforia della conquista, nel 1913-14” (pag. 28).
Nel seguito del suo studio Dogo interpreta la dominanza di queste teorie interpretative, agli inizi del secolo XX, come dovuta alla mancanza di una confutazione scientifica e propagandistica sull’etnografia del Kossovo da parte degli intellettuali albanesi. “Vi fu in compenso - scrive Dogo - l’unilaterale sforzo serbo rivolto a preparare e giustificare presso le opinioni pubbliche delle Potenze un’annessione che dalla primavera del 1909 era entrata nelle iniziative diplomatiche e nei piani operativi di Belgrado” (pag., 29). E, prosegue Dogo: “I dirigenti politici e gli intellettuali albanesi del Kosovo - due categorie che largamente si sovrapponevano - avevano poi altro a cui badare. Guidarono una rivolta anti-ottomana che tenne in scacco Istanbul per tre anni, e proprio dal Kosovo sbaragliarono i poteri imperiali; traditi da un eccesso di auto-confidenza per sopravvalutazione, trasferita su se medesimi, del nemico con cui si stavano vittoriosamente misurando, non arrivarono neppure a concepire che il carattere albanese del Kosovo potesse essere messo in discussione, o che un dibattito etnografico potesse minimamente influenzare le sorti di un territorio e di una popolazione che sentivano come loro da sempre, e che una dozzina di anni prima il manifesto politico del moderno nazionalismo albanese (di Sami bey Frasheri) aveva sussunto nel concetto normalizzato, non negoziabile, di (Grande) Albania” (pag. 30).

TOP