Ministero degli Affari Esteri
Forum della Cooperazione Roma, 12 dicembre 2006

Il “civile” per il primato della Politica nelle missioni di pace
di Antonio Papisca

Direttore del Centro interdipartimentale di ricerca e servizi
sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

Sintesi dell’intervento
Guerre e violenza armata sono estesamente presenti in paesi e regioni dove i valori degli indicatori che concorrono a formare l’indice di sviluppo umano (human development) sono tra i più bassi nel mondo. I programmi di cooperazione allo sviluppo sono sempre più pesantemente condizionati da questo stato di cose, che accentua il prevalere dell’emergenza sulla infrastrutturalità. E’ un vecchio problema, con caratteri di cronicità.
Poiché i problemi attinenti alla libertà dal bisogno sono sempre più intrecciati con quelli della libertà dalla paura, la risposta, al positivo, sta nel rendere operativi e convergenti gli obiettivi dello human development e quelli della human security, intesa questa come multidimensionale, interessante sia l’ordine pubblico sia le condizioni socio-economiche della gente.
L’esperienza della cooperazione allo sviluppo è tuttora diffusamente considerata come un capitolo a sé, distinto se non addirittura avulso dai problemi della pace e della sicurezza, col risultato di renderla subordinata alla dinamica dei conflitti violenti, alla fine estranea alle stesse operazioni post-conflitto di peace-building.
Il grosso interrogativo è come tenere in gioco la cooperazione, rispettandone lo spirito e le finalità, anche nei contesti segnati da conflittualità violenta, cioè quando la cooperazione è sfidata a confrontarsi con operazioni comportanti l’impiego di personale e strumenti militari.
Assumere che la cooperazione debba continuare anche in queste circostanze, significa preoccuparsi, da un lato, che le infrastrutture economiche e sociali del territorio interessato siano quanto più possibile salvaguardate, dall’altro che le legittime operazioni militari si liberino dalla sempre incombente logica di guerra e siano quindi funzionali al perseguimento degli obiettivi della sicurezza umana e dello sviluppo umano.
In questa prospettiva di interazione virtuosa tra la logica nonviolenta della cooperazione e il comportamento del personale militare per la pace, si eleva il profilo politico della cooperazione, nel senso di rendere questa sempre più indispensabile alla governance globale nel rispetto dei dettami della legalità che ha le sue radici nella Carta delle Nazioni Unite e nel corpus del Diritto internazionale dei diritti umani: la cooperazione allo sviluppo da capitolo di low politics a capitolo di high politics.
Anche in questo contesto di “contaminazione sul campo” sicurezza-sviluppo/militarecivile, che ha il medesimo orizzonte ‘sistemico’ della costruzione di un Ordine Mondiale coerente con i valori e gli obiettivi che sono propri dello sviluppo umano e della sicurezza umana, l’autonomia della cooperazione deve essere assolutamente preservata.

Per la formazione degli operatori di pace, occorre necessariamente tener conto delle esigenze che discendono da questa dilatata prospettiva di sfide e di opportunità. Il principio guida, comune alle due convergenti visioni dello sviluppo umano e della sicurezza umana, è quello del rispetto della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali, inalienabili e tra loro interdipendenti. Con questa sottolineatura: soprattutto nei contesti di conflittualità violenta, i diritti economici, sociali e culturali sono ancor più vulnerabili (se possibile) - e non meno fondamentali - dei diritti civili e politici.
Fa parte della formazione degli operatori di pace l’acquisizione di un bagaglio di dati cognitivi riguardanti, in particolare, il Diritto internazionale e le Istituzioni multilaterali. I principi che si ricavano in particolare dalla Carta delle Nazioni Unite e dalle Convenzioni giuridiche internazionali sui diritti umani sono quelli del ripudio della guerra, del divieto di usare la forza per la risoluzione della controversie interanzionali, dell’obbligo di risolverle pacificamente, dell’autorità sopranazionale di garanzia, del primato del Diritto internazionale dei diriti umani sul Diritto internazionale umanitario (lo Ius in bello) e sul Diritto internazionale penale.
Dall’acquisizione di questo bagaglio di conoscenze, emergeranno le antinomie tuttora esistenti tra principi vetero-statualistici e nuovi principi umanocentrici (o panumani) e risalterà in tutta la sua gravità la contraddizione esistente tra quanto dispone la Carta delle Nazioni Unite e le ‘regole del gioco’ che gli stati più potenti tentano di imporre a loro uso e consumo, in particolare per riappropriarsi di quel diritto di fare la guerra (ius ad bellum) che la Carta delle Nazioni Unite ha loro sottratto. Fa parte di questa strategia intesa a contrapporre la legge del più forte alla forza della legge l’interpretazione estensiva dell’articolo 51 della Carta, per cui l’uso, assolutamente eccezionale e circostanziato, della forza da parte degli stati in presenza di “attacco armato in atto” (autotutela ‘successiva’) sarebbe consentito anche in presenza di minaccia più o meno imminente secondo la percezione dello stato interessato (autotutela ‘preventiva’). Dalla puntuale conoscenza del vigente Diritto internazionale, emergerà anche la scandalosa situazione di debolezza delle Nazioni Unite dovuta alla mancata implementazione dell’articolo 43 della Carta e dalla conseguente perdurante vigenza dell’articolo 106 (XVII ‘disposizione transitoria’…). Come dispone chiaramente quest’ultimo, fintantochè gli stati non adempiranno all’obbligo di mettere parte delle loro forze armate a disposizione permanente dell’ONU, non è consentito al Consiglio di Sicurezza di decidere con tempestività ed efficacia l’impiego del militare sotto autorità genuinamente sopranazionale. Nel Rapporto (2005) del Segretario generale “In Larger Freedom” sulla riforma delle Nazioni Unite si accede purtroppo alla interpretazione estensiva dell’articolo 51 e si fa una pericolosissima apertura all’uso della
forza da parte degli stati in presenza di un quadruplice ordine di minacce: minaccia in atto, minaccia imminente, minaccia non-imminente o latente, genocidi e efferatezze analoghe.
A ciascuna di queste minacce gli stati potrebbero rispondere usando la forza, in via unilaterale o con ‘coalizioni’, con ruolo legittimante delle Nazioni Unite soltanto in due casi su quattro: la prospettiva che si aprirebbe è quella della “guerra facile” (easy war).

Nel considerare l’opportunità di dare visibilità organica ad una componente civile nei contesti in cui operano le missioni militari delle Nazioni Unite e di Organizzazioni regionali quali, in primis, l’Unione Europea e l’Unione Africana, occorre farsi carico di elucidare i termini essenziali dello scenario prima accennato e precisare quale deve essere il corretto quadro giuridico-istituzionale in cui collocare la proposta.
Il riferimento ai convergenti parametri della human security e dello human development serve innanzitutto per sottolineare, in via preliminare, che i soggetti primari sono gli individui e le comunità umane e che le istituzioni, nazionali e interanzionali, devono essere strumentali rispetto alle legittime esigenze di centralità (di vita, sicurezza e sviluppo) appunto dei soggetti primari. E’ il caso di ricordare che ‘human security’ significa ‘people security’ e non, in prima istanza, ‘state security’, ‘multidimensional security’ e non soltanto ‘military security’, ‘collective security’ e non ‘national security’, ecc.

Secondo il vigente Diritto internazionale, come continuamente ribadito dal Consiglio di Sicurezza, in presenza di violazioni estese e reiterate dei diritti umani (gross violations) tali da mettere a repentaglio la pace e la sicurezza, è lecito, anzi doveroso intervenire negli affari interni. Alla base del diritto-dovere (right-duty) di intervenire sta l’imperativo eticopolitico che parte dall’assunto “noi siamo insicuri perché gli altri sono insicuri”.
Per sperimentare utilmente la contaminazione civile-militare, occorre in via previa precisare quali sono i requiti di legittimità delle missioni militari che si prefiggono compiti di pace e che quindi operano quali “missioni di polizia internazionale”. Numerosi sono gli apporti di idee in materia, di provenienza soprattutto da ambienti accademici e di società civile solidarista. Va segnalato in Italia l’impegno profuso dal Centro diritti umani dell’Università di Padova fin dall’inizio degli anni ottanta, quando aveva la responsabilità della Commissione diritti umani della “Helsinki Citizens Assembly’, HCA, e, a partire dalla metà degli anni novanta, dalla “Tavola della Pace” con la realizzazione delle edizioni biennali della “Assemblea dell’ONU dei Popoli” all’insegna di “Rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite”.
Da questo crogiuolo creativo, si ricavano spunti utili per costruire l’identikit legale delle “operazioni di polizia”. Queste si differenziano dalle operazioni belliche per il fatto che: 1) sono decise dalle Nazioni Unite o da Organizzazioni regionali dietro espressa autorizzazione delle prime, 2) hanno come obiettivi non la distruzione del ‘nemico’ (identificato con uno stato: governo, popolo, territorio) ma la salvaguardia dell’incolumità delle popolazioni, la difesa delle infrastrutture che producono beni necessari al
sostentamento delle popolazioni, la difesa della salute del territorio, il perseguimento dei presunti criminali, la collaborazione per la creazione di istituzioni democratiche, il dialogo interculturale, 3) avvengono nel rigoroso rispetto della legalità, 4) lo ‘animus iustitiae’ sostituisce lo ‘animus bellandi’ (sinonimo di animus destruendi).
Tra i documenti ufficiali più significativi in materia materia si segnalano, di recente, il già citato Rapporto del SG delle NU “In Larger Freedom” (2005), il Rapporto del Govenro Canadese “The Responsibility to Protect”(2000), il Rapporto Cardoso “We the Peoples: Civil Society, the United Nations and Global Governance” (2004), il Rapporto dell’Unione Europea su “Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza” (2003). In tutti questi documenti, tra luci, ombre e ambiguità, è tuttavia costante il richiamo alla filosofia della “sicurezza umana”.
Il documento che si presenta come il più coerente e utile al fine di elucidare il tema della ‘sicurezza umana’ e della ‘responsabilità di proteggere’ è il Rapporto “A Human Security Doctrine for Europe. The Barcelona Report of the Study Group on Europe’s Security Capabilities”, elaborato da un gruppo di esperti indipendenti sotto la direzione di Mary Kaldor e presentato a Javier Solana nel 2004. Da questo Rapporto parte la forte sollecitazione all’Unione Europea perché dia l’esempio nel dare concreta attuazione alle “missions for human security”. Di queste si tracciano gli elementi costitutivi, tutti collegati al paradigma dei diritti umani. Particolare attenzione è data alla componente civile quale essenziale a caratterizzare la ‘dimensione umana’ delle operazioni comportanti l’uso del militare. Nel Rapporto si distingue la componente ‘civile’ (fatta di agenti di polizia, magistrati, operatori giudiziari, medici, monitori istituzionali dei diritti umani, e figure analoghe) dalla componente dei ‘volontari’ presenti attraverso le organizzazioni non governative. La struttura di queste missioni per la sicurezza umana sarebbe pertanto tripartita. Nel Rapporto si afferma con forza che l’autorità politica deve avere il primato sul comando militare, devono essere fatti rispettare rigorosi codici di condotta per i componenti delle missioni, soggetti a responsabilità penale perseguibile anche in sede internazionale. Significativamente, si tiene anche a precisare che il ricorso ai bombardamenti è incompatibile con la ratio delle missioni per la sicurezza umana.
Il recente intervento delle Nazioni Unite in Libano, deciso dal Consiglio di Sicurezza con Risoluzione 1701 (2006) comportante tra l’altro il rafforzamento dell’UNIFIL, ha tutti i crismi della legalità ai sensi della Carta delle Nazioni Unite.
E’ lecito attendersi che l’esemplare protagonismo messo in atto dal Governo Italiano, prima sollecitando il ruolo attivo delle Nazioni Unite e dell’Europa poi partecipando con un considerevole numero di militari alla missione, prosegua con un’iniziativa volta a rafforzare la ‘dimensione umana’ di questo genere di missioni. L’iniziativa potrebbe costituire un valido precedente per caratterizzare in maniera definitiva qualsiasi altra operazione di pace intrapresa dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, partendo dall’assunto, sottolineato e ribadito dal Governo Italiano, che la Politica deve guidare e controllare, ‘da casa e sul campo’, le operazioni comportanti l’uso del militare. L’assunto implicito è che il ruolo dei Ministeri della Difesa sia complementare, anzi subordinato, rispetto al ruolo dei Ministeri degli Affari Esteri.
In questa prospettiva è utile acquisire una volta per tutte la denominazione di “missioni per la sicurezza umana”, con base legale e obiettivi prima richiamati a proposito delle operazioni di polizia internazionale.
La ‘dimensione umana’, segnata dal paradigma dei diritti umani, sarà trasversale sia alla componente militare sia a quella civile. Nel quadro strutturale delle missioni di pace dovrà operare, come proposto dal citato
Rapporto di Barcellona, una congrua componente civile, con al centro il Difensore civico con funzioni di sorveglianza e mediazione rispetto ai comportamenti di tutti i membri delle missioni nei loro rapporti con le popolazioni e le autorità locali. Attorno all’ufficio del Difensore civico dovrà esserci personale adeguatamente formato, esperto soprattutto per l’esercizio di funzioni di monitoraggio dei diritti umani, fact-finding, enquiring, early warning.
Il personale civile, formalmente incardinato con queste funzioni nella missione, è distinto dal ‘civile’ che ordinariamente fa parte delle missioni militari con compiti di ordine pubblico (es., Carabinieri) o meramente burocratici.
Gli operatori della ‘cooperazione’ (Ong, gruppi di volontariato, amministratori di enti locali) formeranno la ‘componente civile volontari’ dotata di autonomia operativa, ma collegata alla missione ufficiale, in particolare con la ‘componente civile istituzionale’ interna alla medesima. I compiti saranno quelli tipici della cooperazione allo sviluppo con l’aggiunta di altri compiti umanitari quali esigiti dalla peculiarità delle situazioni di conflitto.
Lo scopo generale di questa componente è di non interrompere, nei limiti del possibile, le attività che sono proprie dei programmi di cooperazione. Per il successo di questa ‘componente’ è indispensabile che preesistano sul territorio interessato attività di cooperazione con interlocutori autoctoni. Occorre infatti evitare che le popolazioni e le autorità locali percepiscano le attività di cooperazione occasionate da intervento militare, come forme di neo- o para-colonialismo.
L’esperienza dei “White Helmets” (corpi nazionali volontari), di cui c’è traccia in Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a partire dal 1995, può rendersi utile al fine di una loro estensione dal campo esclusivamente umanitario (soprattutto catastrofi e calamità naturali) al campo della ‘sicurezza umana’. Soprattutto, l’annosa questione del “Corpo Civile di Pace Europeo” potrebbe finalmente trovare una soluzione, nel senso di dar vita istituzionale ad un Coordinamento organico di ‘stand-by capacities’ di volontariato, organizzate all’interno dei paesi membri dell’UE, destinate ad alimentare la “componente civile-volontari” delle missioni per la sicurezza umana. A loro volta, le strutture nazionali del CCPE dovrebbero configurarsi come un coordinamento organico di Ong facente capo, per esempio in Italia, all’Associazione delle Ong Italiane e al Coordinamento nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani, ed essere alimentate da personale, debitamente formato e addestrato a compiti di sviluppo umano-sicurezza umana per iniziativa di Ong, Gruppi di volontariato, Università (quelle che hanno affidabili corsi di laurea e masters in diritti umani, pace, cooperazione sviluppo, ecc.). Il Servizio civile nazionale ed europeo potrebbe costituire un utilissimo canale di addestramento e reclutamento.
Perché questo avvenga in sede europea, occorre che il Governo Italiano, forte del credito acquisito con l’iniziativa per il Libano (e il collegato rilancio della centralità delle Nazioni Unite…), prenda l’iniziativa di costituire il Corpo Civile di Pace Italiano, con la destinazione e i compiti di ‘human security’ prima indicati. Questo dovrebbe stimolare l’avverarsi del coordinamento europeo. L’iniziativa italiana “in re civile” dovrebbe essere inquadrata in una più ampia iniziativa mirante a implementare gli articoli 42-43 della Carta delle Nazioni Unite e quindi ad abrogare l’insostenibile articolo 106: come dire, un’iniziativa strategica a tutto campo, per dare afficacia al sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite. Occorre che l’Italia, auspicabilmente con qualche altro stato membro dell’UE, dichiari di volere stipulare un accordo con il Consiglio di Sicurezza per la messa a disposizione in via permanente di un contingente militare (e civile). L’iniziativa sarebbe tale da mettere in piena attuazione l’intera Carta delle Nazioni Unite…
In conclusione, la componente civile – istituzionale e volontaria – delle missioni per la sicurezza umana consente di più adeguatamente rispondere alle esigenze multidimensionali della sicurezza, richiama al rispetto costante dei diritti umani e dei principi di legalità, garantisce aderenza ai bisogni reali delle popolazioni, condiziona e mitiga l’uso della forza, aggrega consenso tra le popolazioni, incrementa la legittimazione anche del militare impiegato per obiettivi non omicidi, rende più efficace la realizzazione del mandato complessivo delle missioni.

E’ noto che il mondo delle formazioni di società civile è da sempre sospettoso e critico nei confronti del militare. Nell’ottica della sicurezza umana occorre superare, con ogni debita prudenza e apertura, questa situazione, anche con segnali provenienti dal mondo delle istituzioni politiche e militari: per esempio, togliendo “guerra” dalle denominazioni di
scuole militari, con conseguente adeguamento dei programmi formativi in cui ci sia posto per l’insegnamento del Diritto internazionale dei diritti umani, quale distinto e ‘primaziale’ rispetto al Diritto internazionale umanitario.

Allegato: in via di prima approssimazione, schema di inclusione della ‘componente’ civile’ nelle legittime missioni di pace

MISSIONE PER LA SICUREZZA UMANA
AUTORITÀ POLITICA
Alto Rappresentante ONU e/o UE
presente e operativo sul campo
Componente militare
e di polizia
Militari
Polizia civile
Polizia giudiziaria
_____________________
Componente civile
istituzionale
Monitori dei diritti umani
Osservatori elettorali
Esperti in aiuto d’emergenza
Esperti in fact-finding,
enquiring, early-warning
Esperti per la costruzione di
istituzioni democratiche
Esperti in giustizia penale
…..
Componente civile
volontari
(Corpo di pace civile europeo)
ONG, Gruppi di volontariato,
Enti di governo locale,
Università
Cooperazione allo sviluppo
Aiuto umanitario
Educazione ai diritti umani,
alla pace e alla nonviolenza
Dialogo interculturale
Gender mainstreaming
Prevenzione, gestione e
risoluzione dei conflitti locali
…..
Difensore Civico

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