Per una strategia nonviolenta della sinistra italiana
Alberto L’Abate
Firenze, 1 marzo 2007

Sulla crisi del governo Prodi e sul successivo “rattoppo” il suo
giornale ha pubblicato molto: il risultato ben commentato di sondaggi,
ed una serie di interventi anche autorevoli. Ma dato che Bertinotti fa
parte delle istituzioni e partecipa attivamente al governo Prodi mi
sembra che sia mancata una voce realmente neutrale nel conflitto in atto
tra movimento ed istituzioni, che spieghi meglio il perchè si sta
creando un solco profondo tra questi due importanti realtà della società
civile e politica del nostro paese, solco che rischia di determinare, a
breve o a medio raggio, una crisi profonda di tutto lo schieramento di
sinistra al quale mi vanto di appartenere.
Ma oltre che alla sinistra, documentato da una mia militanza, in periodi
successivi, nel PSI (nella corrente di Lelio Basso), nel PDUP, tra i
“Verdi”, ed infine con una mia relazione su “marxismo e nonviolenza” al
convegno di Venezia di Rifondazione su “Agire la nonviolenza”, partecipo
anche, da anni, ai movimenti nonviolenti, avendo collaborato con Aldo
Capitini alla nascita del ”Movimento Nonviolento”, nel quale ho coperto
anche cariche importanti, ed essendo attualmente presidente nazionale
dell’ associazione APS “ IPRI-Rete Corpi Civili di pace” alla quale
aderiscono molte organizzazioni di base coinvolte nell’attivazione,
soprattutto all’estero ma con un inizio di lavoro anche in Italia, di
interventi di prevenzione dei conflitti armati e di interposizione
nonviolenta in situazioni di conflitto acuto. La mia militanza
nonviolenta è stata suggellata da due condanne per azioni di
disobbedienza civile, che secondo Gandhi è l’arma più forte della
nonviolenza, per “vilipendio alle forze armate” (per la frase in un
volantino distribuito da un gruppo di fiorentini per il 4 Novembre
“Basta con le farse ed i miti patriottici”), ed, il secondo, per il
blocco della Ferrovia Torino-Roma a Capalbio, in Maremma, contro il
raddoppio di una centrale nucleare civile in quella zona, raddoppio che
non c’è stato sia per merito della nostra azione sia, più tardi, per il
referendum sul nucleare dopo il disastro di Cernobyl.
Comunque, preciso, le cose che scrivo in questo mio articolo non
pretendono affatto di rappresentare le posizioni del movimento di base
(pacifista e, spesso sedicentemente “non-violento”) diviso anche esso su
questi problemi, e nel quale prevale, piuttosto, una posizione di
sfiducia nei riguardi delle istituzioni in generale tanto che molti
ritengono ormai che destra e sinistra siano uguali, e che il movimento
deve esser esterno del tutto alle istituzioni senza alcuna
compromissione politica e partitica, e che, anzi, come scrivono alcuni,
sia più facile lottare contro un governo del tutto nemico, di “destra”,
piuttosto che contro un governo cosiddetto “amico” che porta avanti,
poi, una politica in realtà di destra anche esso (visto che il
militarismo è stata sempre una caratteristica distintiva delle posizioni
delle destre italiani ed internazionali). Quello che scrivo vuole essere
un contributo al dibattito anche interno al movimento dato che la
politica del “tanto peggio, tanto meglio”, portato avanti, spesso, da
una certa sinistra, non ha mai dato, secondo i miei studi sui conflitti
(è la materia che insegno all’Università), dei risultati positivi ed
accettabili.
Ma tornando alla crisi del governo dal quale sono partito avevo sperato,
come molti altri italiani, che questa portasse ad un ripensamento di
tutto il centro sinistra ed ad una rielaborazione di un programma di
massima delle priorità da portare avanti che coinvolgesse non solo tutti
i partiti coinvolti nel governo (che spesso davano l’immagine di una
“armata Brancaleone”) ma anche le organizzazioni di base che sono le
fondamenta di un governo delle sinistre. Invece si è avuto solo un
“dictat” da parte di Prodi con 12 punti che confermano del tutto la
linea precedente del governo che era stato messo in crisi proprio per
questa. E la cosa terribile, per un nonviolento ed allievo di Aldo
Capitini come me, è stato vedere che il “rattoppo” che c’è stato è stato
risolto cercando appoggi sulla destra, e, soprattutto, cercando di
togliere la parola e la libertà di coscienza ai senatori di sinistra che
si erano dichiarati indisponibili a votare contro le loro idee ed i loro
principi. Quanto può durare un governo che mette in crisi la coscienza
dei suoi sostenitori interni al parlamento, ma soprattutto, quella delle
persone che l’hanno votato convinti che questo portasse ad un reale
cambiamento? Non molto, credo. E dato che io invece spero che la
sinistra regga ed arrivi alla fine del suo mandato quanto scrivo vuole
essere un contributo ad una strategia nonviolenta interna alla sinistra
italiana che le permetta, sia pur gradualmente, di correggere i suoi
difetti di partenza e di arrivare in fondo al suo mandato senza aver
scoraggiato i suoi elettori, come sta facendo attualmente, e senza aver
portato, alla fine, al trionfo delle destre, come molti temono ed il cui
spauracchio è attualmente l’unico reale collante del governo attuale. Il
mio scopo è, al contrario, quello di rinforzare la presenza ed il lavoro
di una sinistra seria ed operativa e soprattutto rinnovatrice di un
andamento e di un modello di sviluppo che sta continuamente aumentando
il distacco tra i ricchi ed i poveri, e che sta portando all’estremo
l’insicurezza dei cittadini per una sedicente guerra al terrorismo che
sta facendo crescere, ogni giorno, a dismisura, questo fenomeno, e che
ogni giorno uccide, indirettamente, aumentando le spese militari e
diminuendo quelle sociali, migliaia e centinaia di migliaia di persone.
Ricordiamoci quello che scrive Desmond Tutu, pastore evangelico
sud-africano che, come presidente della commissione della Verità e
Giustizia di quel paese, ha contribuito in modo notevole al superamento
dell’apartheid ed alla pacificazione di quella parte del globo. Egli, in
un recente messaggio, ci ricorda che il mondo, in complesso, spende
annualmente per la lotta contro il principale flagello di questo secolo,
l’AIDS, solo quello che spende invece in 18 giorni per gli armamenti. E
le mie ricerche sul Kossovo, dove ho passato circa due anni come
ambasciatore di pace alla ricerca di una soluzione non armata che
sarebbe stata possibile se solo i governi occidentali avessero avuto più
attenzione al problema della prevenzione dei conflitti armati, rispetto
a quella del fare la guerra, hanno dimostrato che si è speso 1 Euro per
la prevenzione di questo conflitto armato (ma soprattutto da parte di
organizzazioni non-governative), contro ogni 140 Euro spesi invece nel
fare la guerra, nell’assistenza ai profughi, e nella ricostruzione
materiale di quel paese, senza tener conto di quanto costa ancora
attualmente il tenere in vita una situazione che la guerra non ha
affatto risolto ma che, anzi, ha notevolmente aggravato (a causa delle
morti dalle due parti che questa ha provocato e degli odi reciproci che
questa ha incrementato). Se nel futuro questi squilibri vengono
mantenuti, e si continua a dare più importanza all’aumentare le spese
militari, come sta facendo attualmente anche il governo Prodi
(addirittura, sembra, acquistando dagli USA anche 133 caccia bombardieri
d’attacco, oltre ai 122 eurofighter già ordinati in Europa, tutti aerei
che con l’articolo 11 della Costituzione Italiana che ammette solo la
guerra di difesa, non hanno nulla a che fare) come ci possiamo lamentare
che il mondo sia sempre più insicuro e la guerra un “affare” quotidiano
(affare, in tutti i sensi, anche nella vendita di armi che l’Italia sta
dando all’India che è già tra i paesi più armati del mondo, mentre è uno
dei paesi con i più alti tassi di mortalità infantile).
Ma purtroppo questo peccato di sottovalutazione della prevenzione dei
conflitti armati, e di sopravvalutazione invece dell’importanza della
guerra e degli interventi armati è di lunga data, ma non sembra che la
sinistra abbia imparato molto dagli errori passati. L’inizio della
partecipazione del nostro paese alla guerra afgana, dichiarata come
guerra al terrorismo, ma se si va a vedere a fondo, questa ragione
faceva acqua da tutte le parti (questo lo argomento più a fondo in un
articolo che uscirà questo mese sulla rivista fondata da Aldo Capitini
“Azione Nonviolenta”), quando ancora l’ONU non si era pronunciato, è
stato deciso da un governo di destra, ma con l’appoggio incondizionato
della quasi totale maggioranza della sinistra (solo circa 10 obbiettori
di coscienza). Nessun tentativo di studiare forme per prevenire il
conflitto armato che pure, forse, erano possibili. Ma ancora peggio è
stata la partecipazione italiana alla guerra del Kossovo, questa invece
decisa direttamente da un governo di centro–sinistra guidato
dall’attuale ministro degli Esteri D’Alema. In questa le sinistre al
governo hanno dovuto tener conto, come dice D’Alema, nella sua
intervista sul Kossovo, a giustificazione del nostro intervento nella
guerra (D’Alema, Kosovo. Gli italiani e la guerra,1999), che “nella
difesa e nella politica estera, la sfera decisionale è ormai
particolarmente complessa, si combinano elementi sopranazionali e
meccanismi formali intergovernativi. Chi rappresenta l’Italia decide
insieme ad altri, può essere messo in minoranza ed io credo debba con
responsabilità accettarlo. Il rischio peggiore –continua – è stare in un
paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide. Questo è
un caso in cui l’eccesso di democrazia apparente ti preclude la
democrazia vera, perché ti emargina dalle sedi dove si decide anche per
te”: (ibid. p.37). “Questo sembra significare, in altre parole -
scrivevo io in un mio libro (L’Abate, Giovani e Pace, 2001, p.26) – che
l’appartenenza alla NATO sospende, o almeno riduce notevolmente, le
regole democratiche del nostro paese, subordinandole appunto alle
decisioni prese in altre sedi in cui gli interessi militari-strategici
di altri paesi possono prevalere su quelli dei cittadini italiani. Che
significa questo se non che di fronte alle decisioni di fare la guerra e
la pace la democrazia è ormai una parola vuota?” A conferma di questo
D’Alema aggiunge: “La delega a pochi è una condizione di funzionamento
della democrazia moderna. Viviamo in un’epoca in cui il circuito delle
decisioni non è più nazionale (ibid. p.38) ”. Come si vede la tesi di
D’Alema, autorevole rappresentante della sinistra e ministro degli
Esteri del governo Prodi, è esattamente il contrario di quanto sostenuto
da Aldo Capitini, da pianificatori come John Friedmann, e ripreso anche
in molti dei lavori dei Forum Mondiali, e cioè che bisogna superare la
democrazia puramente delegata per arrivare ad una democrazia come
partecipazione, al ”potere di tutti” capitiniano, o alla “democrazia
inclusiva” di Friedmann. Questa limitazione di libertà, e questa
impossibilità a portare avanti una politica veramente innovativa, a
causa di queste costrizioni internazionali (oltre alla Nato potremmo
aggiungere il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, gli
accordi internazionali per il commercio, ecc., ecc.) può portare alla
delusione da parte della popolazione nel vedere la difficoltà di agire a
livello di un singolo paese contro mali che affliggono l'umanità intera,
e contro un sistema che rischia di stritolare o annullare la volontà
rinnovatrice di un gruppo o di una classe dirigente. E questo, a sua
volta, può provocare una reazione del pubblico che non si rende conto
dei reali condizionamenti e che perciò può votare per rimandare al
potere la classe dirigente di prima.
Se si va a vedere il passato la partecipazione dell’Italia alla guerra
del Kossovo è stato sicuramente un fatto che ha portato molte persone di
sinistra a non votare per i partiti di questo schieramento (gli astenuti
e le schede bianche furono molte) ed a far vincere i partiti della
destra della cosiddetta Casa delle Libertà. Ma se queste considerazioni
di D’Alema sono reali, e non c’è ragione di non credergli, perché
continuare a fare gli stessi errori, e non utilizzare il movimento di
protesta dal basso, che si oppone a questo modello di sviluppo e alle
sue conseguenze, e contro il raddoppio della base di Vicenza (raddoppio
che non diminuisce certo il rischio che dal nostro paese partano aerei
che vadano a bombardare l’IRAN nella guerra che Bush Jr., e gli
israeliani, stanno pianificando), per essere più coraggiosi e mettere in
discussione, nelle sedi internazionali apposite, si veda la Nato, la
teoria della necessità dell’uso delle armi nucleari come primo colpo
(anche questa in totale contrasto con la nostra Costituzione). La
diminuzione delle basi USA in Italia, e soprattutto l’eliminazione dal
nostro paese delle 90 testate nucleari presenti (ad Aviano e Ghedi,
oltre a quelle che, trasportate da sottomarini, entrano nei nostri
porti) sarebbe un modo concreto per rispettare l’art. 11 della nostra
Costituzione, rendere più sicuro il nostro paese, aumentare il numero di
posti di lavoro dei nostri giovani ( basta un eurofighter, o uno degli
aerei ordinati agli USA, in meno, aerei che sono utilizzabili
soprattutto per lanciare dall’alto bombe nucleari, e quindi fuori legge,
per avere migliaia e migliaia di posti di lavoro in più per i nostri
giovani; se a questi si aggiungono i costi delle basi Usa in Italia
pagati per circa il 40 % dai nostri cittadini, i soldi per la creazione
di posti di lavoro in più aumenterebbero notevolmente).
Ma detto questo delle priorità che un governo delle sinistre, o meglio
di centro-sinistra, dovrebbe e potrebbe fare, c’è ora da affrontare
quello che dovrebbe e potrebbe fare il movimento di opposizione di sinistra.
Anche qui sembra mancare del tutto una valida strategia. Si sono fatte
manifestazioni di piazza, importanti si, ma che spesso lasciano il
dubbio di quello che si chiama “non nel mio giardino”, che non si lotti
contro il problema stesso ma che si chieda solo che quella iniziativa o
quel progetto vadano da qualche altra parte, magari anche nel nostro
stesso paese. Il che, se riesce, può essere una vittoria per gli
abitanti del posto, ma che non elimina il problema di fondo contro il
quale si vuole combattere. Oppure si è ricorso all’obiezione di
coscienza votando contro alle decisioni del governo, con il rischio, in
questo caso, di accellerare il ritorno al governo di partiti che non
sono certo meno militaristi di quello attuale. Malgrado il tanto parlare
di nonviolenza sembra non essere chiaro che la nonviolenza non richiede
solo all’attinenza a quella che è stata definita l’”etica dei principi”,
ma anche all’”etica delle conseguenze”. E che uno dei principi sostenuti
da Gandhi e messi in pratica dai principali sostenitori di questo tipo
di lotta, è stato quello della gradualità, e cioè il non pretendere che
si faccia tutto subito ma che si parta da alcuni problemi più importanti
per poi passare, gradualmente, ad altri magari più difficili da
ottenere. Da questo punto di vista alcuni degli studiosi più importanti
della nonviolenza parlano di “sanzioni positive”. Questo significa
appoggiare un governo o un paese, ma porgli una serie di richieste,
graduali e da concordare insieme per il loro sviluppo, ma irrinunciabili
perché l’appoggio possa continuare. E’ questo secondo me che dovrebbe
fare un serio movimento di base contro la guerra e per un diverso
modello di sviluppo. Elaborare un progetto alternativo che aiuti il
governo a prendere decisioni coraggiose che vadano contro i dettata dei
grandi poteri mondiali, in primis gli USA (anche se il suo impero sta
scricchiolando) e perciò della Nato, del FMI, della Banca Mondiale, ecc.
Riuscirà questo movimento a superare i litigi interni che lo rendono di
fatto quasi inesistente come soggetto realmente politico ? Non lo so, ma
credo sia importante cercare di farlo. In caso contrario non
lamentiamoci delle deficienze dei nostri governanti. Ce le siamo volute.



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