GANDHI 2008. CONFERENZA INTERNAZIONALE
WARDHA, 29-31 GENNAIO 2008

L’intervento nonviolento di una parte terza in aree di conflitto: dallo Shanti Sena di Gandhi all’Intenational Solidarity Movement in Palestina
di Veronique Dudouet
Centro di Ricerche Berghof per la gestione costruttiva dei conflitti, Berlino.

Traduzione di Pia Mondelli


Introduzione

Mohandas Karamchand “Mahatma” Gandhi è molto conosciuto e celebrato per la sua articolazione dei principi filosofici e strategici della nonviolenza - o azione nonviolenta - come per l’applicazione di essi alla lotta contro l’imperialismo britannico e per la sovranità e l’indipendenza economica dell’India. Questi principi sono stati ripresi da molti movimenti contemporanei di liberazione contro occupazioni o regimi oppressivi nel mondo. Tuttavia questo scritto è dedicato principalmente all’applicazione della nonviolenza gandhiana come una tecnica di intervento oltre confine di terze parti per produrre cambiamenti sociali costruttivi in situazioni di conflitto acuto.
Cominciando con un breve sommario del pensiero di Gandhi e della sua stategia per un intervento nonviolento, analizzerò poi il ruolo di una parte terza (o esterna) nel fornire “pubblico sostegno” nelle campagne nonviolente di liberazione o resistenza a livello locale o nazionale; definirò più precisamente il concetto e i limiti di ciò che chiamo “ pubblico sostegno nonviolento oltre confine” [cross-border nonviolent advocacy]. La sezione tre offre una categorizzazione di “pubblico sostegno” nonviolento nei diversi tipi di intervento nel luogo o fuori dal luogo del conflitto (p. e. mobilitazione, accompagnamento, solidarietà, interposizione, ecc.) illustrati da esempi recenti o contemporanei della loro applicazione. Infine la sezione quattro applica questi concetti e tiplogie di intervento nonviolento allo studio uno specifico caso: lìInternational Solidarity Movement (ISM) in Palestina. Esso valuta la
posizione dell’organizazione nei confronti della nonviolenza; la relazione fra attivismo interno e “pubblico sostegno” esterno da una parte e il principio di ownership locale dall’altra; l’efficacia relativa delle varie attività in loco o all’esterno portate avanti dai suoi volontari dalla sua costituzione nel 2001.

1. Satyagraha e Shanti Sena: l’eredità gandhiana

La nonviolenza si basa sull’impegno a contrastare la violenza in tutte le sue forme, sia fisiche, psicologiche, che strutturali. Di conseguenza essa comprende non solo l’astenersi dall’uso della forza fisica per raggiungere uno scopo, ma anche un pieno impegno nell’opporre ressistenza all’oppressione, al dominio e ad ogni altra forma di ingiustizia. Gandhi, le cui azioni e idee hanno influenzato nel modo più essenziale lo sviluppo dell’azione nonviolenta nel ventesimo secolo, coniò il termine satyagraha per descrivere la teoria dell’intervento in un conflitto, che potesse meglio adattarsi alla sua filosofia morale. Il termine satyagraha è costituito dalla fusione di due parole gujarati, Satya (verità) e Agraha (fermezza), ed è stata comunemente tradotto in inglese con “truth-force” (Gandhi, 1928) [“forza della verità”]. Gandhi inoltre insiste fortemente sull’unità di mezzi e scopi, prescrivendo ai satyagrahis (coloro i quali praticano il satyagraha) di agire in un modo basato sugli obbiettivi; la nonviolenza è il mezzo attraverso il quale satya, il fine, può essere raggiunto. Satyagraha è in verità strettamente legata al precetto religioso dell’ahimsa, che significa in sanscrito la completa rinuncia della violenza nel pensiero e nell’azione.
Impiegata come uno strumento per produrre un cambiamento sociale o politico, una campagna ispirata ai principi del satyagraha può comprendere l’uso di molteplici tecniche nonviolente di resistenza. Per esempio, la non-cooperazione (p.e. boicottaggio, scioperi, rifiuto fiscale) implica tenersi fermi alla verità ritirando il sostegno a ciò che è non vero, sbagliato: se un numero sufficiente di persone fanno questo, o anche se una sola persona lo mette in pratica a una profondità abbastanza grande, il male finisce per collassare a causa dela mancanza di sostegno. La sua ispirazione proviene dalle tradizioni europee e americane ( p.e. Quackers, Thoreau, Tolstoj) basate sulla ‘teoria del consenso’ , in cui la resistenza civile è concepita principalmente nei termini di una disobbedienza civile individuale a leggi ingiuste. Applicando questi concetti al livello dell’azione collettiva, Gandhi cercò di costruire un movimento di protesta di massa (con l’eccezione dei digiuni e delle cosidette campagne di “satyagraha individuale” del 1940-1) basato su un movimento di soldati della nonviolenza ben addestrati e puri di cuore i quali comprendessero chiaramente le rigide regole del satyagraha.
Riguardo all’uso di questo tipo di tecniche per scopi di difesa contro aggressioni esterne (come un ‘muro vivente’), o una forza di interposizione in dispute internazionali, Gandhi si riferiva ai suoi satyagrahis come ad un esercito di pace (Shanti Sena), e negli anni Venti egli esplorò alcune particolareggiate idee per la costituzione di eserciti di pace locali o regionali, un concetto che ha continuato a sviluppare fino alla fine dela sua vita (Nagler 1997). Dopo che l’India ebbe raggiunto l’indipendenza, egli cominciò a sostenere pubblicamente [advocate] qualche versione di forze nonviolente di peacekeeping, da usare per esempio nel corso della disputa sul Kashmir. In effetti Gandhi era quasi giunto a costituire un formale Shanti Sena quando fu assassinato (Weber 1993:69). La sua proposta fu ripresa dai suoi seguaci e formalmente iniziata nel 1957 sotto la leadership di Vinoba Bhave, ma è stata usata principalmente per scopi di peacekeeping all’interno dell’India, benché decisamente non nell’arena internazionale ( con poche notevoli eccezioni, vedi avanti).
Lungo i decenni successivi sono state formulate numerose proposte di organizzare forze internazionali nonviolente di interposizione (p.e. World Peace Brigades, World Peace Guard, ecc.), ma nessuna di esse è stata presa sotto la responsabilità dele Nazioni Unite o altre istituzioni intergovernative. Al contrario, progetti di peacekeeping nonviolento di così grande scala sono stati rimpiazzati da una quantità di iniziative più piccole, meno ambiziose, ma più pratiche (Weber 1993). La prossima sezione esplora la concettualizzazione e la mesa in opera di tali progetti da parte di studiosi e attivisti.

2. Concettualizzazione del “pubblico sostegno” [advocacy] nonviolento oltre confine.

C’è un corpo crescente di letteratura dedicato specificamente del fenomeno del “pubblico sostegno” nonviolento oltre confine, che tenta di analizzare, concettualizzare o classificaregli esempi del suo uso nel passato e quelli attualmente in corso.
Nella teoria della nonviolenza (o azione nonviolenta), le terze parti sono chiamate in aiuto ai movimenti locali nonviolenti per i diritti umani, la democrazia o l’autodeterminazione. Il loro intervento è veramente cruciale nel caso in cui è troppo grande la disuguaglianza di potere o la ‘distanza sociale’ fra gli attivisti (o il gruppo sociale/etnico/nazionale degli “oppressi”) e le forze favorevoli allo status quo (p.e. regimi repressivi,o occupanti esterni), o dove non è in uso la ‘teoria del consenso del potere’. Per esempio, i movimenti per l’indipendenza in Kosovo e in Palestina durante gli anni ‘80 e ‘90 non poterono adottare le strategie gandhiane di non-cooperazione e disobbedienza civile nei confronti dei regimi serbo e israeliano, poiché questi regimi erano (e sono ancora) meno interessati a ottenere il rispetto delle loro politiche da parte delle popolazioni palestinese e albanese, che al possesso e al controllo della terra di quest’ultime. Di conseguenza i resistenti nonviolenti erano messi nell’impossibilità di alzare i costi di una continuata occupazione a un livello sufficiente per causare il ritiro dei loro occupanti (Rigby 1991, Clark 2000).
Un rimedio per tali situazioni, secondo il ricercatore per la pace Johan Galtung (1989:20),consiste nel creare una relazione di dipendenza fra i regimi oppressivi e le popolazioni oppresse attraverso una ‘grande catena di nonviolenza’. Egli argomenta che la nonviolenza lavora tanto meglio quanto più breve è la distanza sociale fra le parti in conflitto, e che quando è troppo grande (p.e. attivisti considerati “non umani” dai loro avversari), “l’intervento (o meglio, l’intercessione) di una parte terza, proveniente da qualcuno che sia più vicino all’oppressore, può fermare la mano dell’oppressore violento meglio di quanto possa fare la nonviolenza degli oppressi stessi”. Per esempio, nel caso del movimento di indipendenza indiano, gruppi di opposizione all’interno della Gran Bretagna hanno giocato un ruolo cruciale nel riportare al loro governo la causa delle masse indiane. Nei citati casi dei movimenti nonviolenti di liberazione palestinese e kosovaro-albanese, un ruolo simile è stato giocato dall’opposizione e dai gruppi d difesa dei diritti umani israeliani e serbi. In questo scritto, comunque, intendo piuttosto concentrarmi sulle funzioni che potrebbero essere svolte da iniziative di base internazionali (principalmente occidentali).

Il concetto di “pubblico sostegno” nonviolento operato da una parte terza (o attraverso il confine, [cross-border]) può essere definito qui, con Burrowes (2000:50), come “un’azione che è 1) realizzata, o che ha impatto, al di là di un confine nazionale; 2) da attivisti di base, 3) con lo scopo di prevenire o fermare la violenza, o facilitare il cambiamento sociale a beneficio della gente comune o dell’ambiente, 4) per mezzo dell’applicazione dei principi della nonviolenza”.
Ciò deve essere distinto da altre modalità di intervento di una parte terza nelle società in cui ci sia una situazione di conflitto emergente o violento, o in situazioni post-conflitto, come la diplomazia preventiva, la mediazione o la facilitazione di negoziati di pace, l’intervento umanitario, la cooperazione allo sviluppo, la promozione del dialogo e della riconciliazione, ecc.
Una delle principali differenze fra le classiche attività di risoluzione di conflitto e il “pubblico sostegno” nonviolento [nonviolent advocacy] si trova nella loro posizione etica nei confronti delle parti in conflitto. Mentre il primo enfatizza sempre la necessità di imparzialità da parte di coloro che intervengono dall’ esterno, la maggior parte dei gruppi di “pubblico sostegno” deliberatamente lavorano dalla parte delle vittime, o del gruppo che ha scarso potere, allo scopo di sostenerli nell’acquisizione di potere e nella riduzione dello sbilanciamento nel conflitto, anche se alcune organizzazioni nonviolente (p.e. le Peace International Brigades) insistono su approcci non-interventisti e non-partigiani. Laue e Cormick (1978: 217-8) hanno definito il principio di empowerment [acquisizione di potere] attraverso un interrogativo etico che deve, secondo loro, dominare ogni azione di una parte terzain un conflitto: “l’intervento contribuisce alla capacità degli individui e dei gruppi nella situazione data, relativamente senza potere, di determinare i loro propri destini nella maggiore misura compatibile con il bene comune?”
Sebbene coloro i quali praticano la risoluzione dei conflitti e il “pubblico sostegno” nonviolento condividono uno scopo comune nel raggiungere la pace attraverso mezzi pacifici, i primi tendono a enfatizzare la riduzione della polarizazione e delle tensioni in un conflitto, rendendo possibili o più facile relazioni cooperative fra gli avversari, mentre i secondi sono interessati in primo luogo alla rimozione delle fonti strutturali di ingiustizia, ineguaglianza e oppressione (Francis 2002) Essi inoltre dedicano la più grande attenzione ai principi e alle tecniche di azione nonviolenta come sono stati definiti da Gandhi, M.L. King, Gene Sharp e altri. In questo scritto, un intervento attrverso il confine sarà considerato come nonviolento solo se esso implica una novità significativa rispetto ai metodi ufficialmente riconosciuti per indurre il cambiamento sociale. Esso è “talvolta illegale… ed è spesso portato avanti in circostanze in cui la vita è sottoposta a minaccia” (Burrowes 2000: 50).
Coloro che praticano un “pubblico sostegno “nonviolento attraverso i confini [cross-border advocates] mettono inoltre una particolare enfasi nel concetto di ‘proprietà locale’ nel produrre cambiamento politico e sociale. Benché l’opinione e l’azione di una parte terza esterna possano agire come una potente forza di sostegno, esse non possono rapprentare un sostituto della capacità di lotta nonviolenta mobilitata dal gruppo di protesta stesso. Il primato nell’azione appartiene agli attivisti della società civile interna. Per esempio, sebbene Gandhi non esclude la possibilità di un intervento straniero in favore del movimento di liberazione indiano, egli insiste fortemente sulla totale identificazione, fino al punto di immersione fra e con gli oppressi, come condizione per tale azione (Galtung 1989:28). Il Centro Internazionale sui Conflitti Nonviolenti (ICNC), una delle maggiori agenzie che attualmente ofrono questo tipo di assistenza “da parte terza ”, insiste sul fatto che “in nessun esempio storico [di cambiamento politico prodotto da movimenti nonviolenti] il sostegno o l’assistenza esterna ha avuto un ruolo centrale. Questo perché soltanto le idee e le strategie indigene posono avere successo nel mettere in movimento meggioranze scontente .” Per questa ragione la maggior parte degli autori rifiutano la termine di ‘assistenza’(che potrebbe essere connotato da una vittimizzazione della popolazione locale), riferendosi invece ad un sostegno ‘attraverso i confini’ o ad un accompagnamento. (Muller 1997: 74).


3. Tipi ed esempi di sostegno di una parte terza ai movimenti indigeni di resistenza/liberazione

Tenendo in mente queste considerazioni, c’è una grande varietà di strumenti disponibili alle parti esterne per incoraggire lo sviluppo di dinamiche nonviolente verso un positivo cambiamento, in situazioni di potenziale o effettivo conflitto. Questo scritto intende soltanto considerare le forme di intervento rilevanti per le organizzazioni non governative di base, a contrasto con le iniziative di stato o intergovernative.
Sono state proposte numerose tipologie di intervento non violento attraverso i confini. Per esempio Rigby (1995) classifica varie strategie secondo il luogo in cui si mettono in atto: nell’area o fuori dall’area [di conflitto]. La più completa tipologia sin qui offerta è quella di Burrowes (2000), che individua nove forme di intervento nonviolento da parte di gruppi trans-nazionali, a favore di gruppi con scarso potere in conflitti che sono di ambito nazionale o internazionale. Combinando e adattando questi due modelli, questo scritto vuole ora presentare qualche illustrazione di varie forme di azione che possono essere implicate nella generica terminologia di “pubblico sostegno” attaverso i confini.
L’ ‘intervento fuori dal luogo del conflitto’ si riferisce alle opere che non coinvolgono la presenza fisica nella zona del conflitto stesso da parte di chi mette in atto l’intervento” (Rigby 1995:454). La prima forma di intervento individuata da Burrowes, campagne locali nonviolente, consiste nel prendere iniziative a sostegno di una lotta in un altro paese. La logica che sta dietro a queste iniziative è tentare di impedire o fermare violenza e ingiustizia in modo diretto, stabilendo proprie sanzioni contro regimi violenti e/o repressivi, o, in modo indiretto, esercitare pressione sulle proprie elites (p.e. i governi occidentali) allo scopo di cambiare radicalmente le politiche che sostengono questi regimi. Questa funzione è svolta, per esempio, da organizazioni internazionali come Amnesty international, Human Rights Watch o la recente Avaaz.com, raccolta di petizioni in rete; essa è svolta per mezzo di azioni diplomatiche, proteste o strategie di ‘denuncia pubblica’. Quando l’indignazione internazionale si trasforma in più sostanziali forme di azione, come l’imposizione di sanzioni economiche (ritiro del credito, embargo delle forniture, boicottaggio), diventa molto più difficile ignorarla da parte delle forze favorevoli allo status quo. Per esempio, fra gli anni ’50 e ‘90 molti gruppi e individui in tutto il mondo hanno condotto campagne finalizzate a mettere sotto pressione il governo sudafricano affinchè ponesse fine all’apartheid organizzando il boicottaggio dei consumatori delle esportazioni sudafricane, e campagne per persuadere i governi e le grandi imprese economiche a smettere di fornire finanze, petrolio e armi al regime dell’apartheid.
Tali iniziative sono messe in atto anche allo scopo di attirare l’attenzione internazionale sugli atti di violenza e ingiustizia e mobilitare le persone ad agire nei confronti di questi fatti, ciò a cui Burrowes si riferisce come azioni di mobilitazione. Per esempio egli cita il caso del viaggio del 1992 dell’Espresso Lusitania da Darwin a Dili, Timor Est; per deporre corone di fiori sulla scena del massacro avenuto a Dili nel 1991 e per mobilitare l’opinione pubblica a sostegno all’indipendenza di Timor Est, per mezzo di un attivo coinvolgimento dei media intorno all’evento. Molte altre campagne di base hanno lungamente combinato gli sforzi per mobilitare l’opinione pubblica internazionale e esercitare pressione oltre il confine in favore del cambiamento in società fortemente repressive (sia direttamente che attraverso un’attività di lobbying nei confronti di governi stranieri e istituzioni internazionali), come il Guatemala Solidarity Network, basato nel Regno Unito, oppure la Colombia Solidarity Campaign, o la Free Burma Coalition, il International Nepal Solidarity Network, ecc. La diaspora spesso gioca il ruolo cruciale di guida nell’organizzazione di tali campagne. Inoltre, come indicano i loro nomi, queste organizzazioni incarnano un altro tipo di ‘“pubblico sostegno” da parte terza’, specialmente la ‘solidarietà nonviolenta’, che sarà trattata in modo più completo e dettagliato più avanti (come una forma di intervento all’interno del luogo del conflitto).
Le persone che vivono all’esterno potrebbero inoltre sostenere gli attivisti favorevoli al cambiamento nella forma di un aiuto finanziario, tecnico o strategico. Nel suo ultimo libro Sharp (2005) esplora le forme professionali di assistenza esterna agli attivisti locali come la fornitura di letteratura e manuali sulla lotta nonviolenta ; l’offerta di consigli generali su come condurre la pianificazione strategica di un’azione nonviolenta; la fornitura di mezzi e servizi per la stampa; il mettere a disposizione mezzi e attrezzature per la trasmissione radiofonica; provvedere a basi e centri di studio e addestramento per questo tipo di lotta. La produzione e la diffusione di film che documentano la riuscita nella pratica della lotta nonviolenta in vari contesti è un altro mezzo che può essere usato com materiale ‘didattico’ per addestratori di parte terza. Un esempio di organizzazione che offre addestramento per la formazione di capacità ai leaders di movimenti nonviolenti nel mondo è il Centro per l’Azione e la Strategia Nonviolenta Applicate diretto da Serbi (CANVAS), una squadra di consulenti dotati di esperienza di prima mano di campagne di resistenza civile premiate dal successo nei loro paesi di origine . Per esempio, io ho preso parte nel novembre 2007 a un convegno-seminario di addestramento in Spagna organizzato da CANVAS e da ICNC, che avevano invitato un gruppo di attivisti nonviolenti provenienti da più di quindici paesi, allo scopo di insegnare le specifiche abilità per promuovere campagne e mobilitazione; un seminario basato su lezioni apprese dalla loro propria esperienza in Serbia e Sud Africa. Avendo condotto programmi di questo tipo per più di quattro anni, essi avevano sviluppato un curriculum completo di training; questo seminario è stato video-registrato e sarà il soggetto si un film da diffondere per ulteriori progetti di training. La loro tesi è che, sebbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbene solo i movimenti locali possono decidere quali metodi e tattiche si adattano meglio alla loro situazione culturare e geopolitica, esiste tuttavia uno schema generale di mezzi analitici e strategici che possono essere trasferiti da altri contesti. Tali attività possono essere realizzate o all’esterno (invitando gli attivisti locali a programmi condotti all’estero), o nel luogo del conflitto (i consulenti esterni si portano nelle aree di conflitto allo scopo di raggiungere un pubblico più vasto).


Quando si passa a trattare un ‘intervento sul luogo del conflitto’, definito come “azioni che coinvolgono la presenza fisica di coloro che prendono parte all’azione nella zona del conflitto” (Rigby 1995:454), si possono distinguere quattro forme correlate di “pubblico sostegno” nonviolento.
Primo: accompagnamento nonviolento si riferisce ad attività realizzate in un’area di conflitto allo scopo di creare un localizzato spazio politico sicuro cosicché gli attivisti possano impegnarsi in attività nonviolente. Organizzazioni quali le Peace Brigades International (in Guatemala, Sri Lanka, Colombia, Messico, Timor Ovest, Aceh), Christian peacemakers Team (in Haiti, Palestina, Colombia, Iraq), il Balkan Peace Team (nell’ex-Yugoslavia), Nonviolent Peaceforce (in Sri Lanka) accompagnano gli attivisti locali per i diritti umani minacciati nel loro lavoro quotidiano, per impedire che siano uccisi o diventino desaparecidos. La presenza di queste disarmate ‘guardie del corpo’ – specialmente se vengono da paesi ‘potenti’– può scoraggiare il ricorso alla violenza da parte di soldati e combattenti delle parti in guerra e può aiutare a limitare le violazioni dei diritti umani. La loro efficacia è dovuta in parte alla riluttanza delle forze armate o dei gruppi paramilitari a rischiare di inquietare i governi occidentali attaccando volontari stranieri durante la loro missione di protezione o come ‘scudi umani’. Per di più, l’accompagnamento protettivo incoraggia anche l’attivismo della società civile, poiché concede alle organizazioni minacciate più spazio e fiducia per operare in situazioni caratterizzate dalla repressione (Mahony 2004:6).
Secondo: coloro che praticano un “pubblico sostegno” nonviolento [advocates] provenienti dall’estero possono produrre atti di solidarietà nonviolenta attraverso la loro presenza in una zona di violenza militare, per condividere il pericolo con la gente del luogo e mettere in evidenza la sofferenza che la violenza causa. In questo caso lo scopo delle loro attività non è tanto quello di impedire gli attacchi violenti contro gli attivisti locali, ma piuttosto quello di portare a loro messaggi di solidarietà e far conoscere la loro triste situazione a pubblici esterni, compresa l’opinione pubblica che sostiene il regime autoritario o le forze di occupazione. Per esempio l’Iraq Peace Team ha mandato delegazioni di volontari in Iraq sin dal 2002, prima dell’attacco statunitense, per vivere e fare esperienza della guerra insieme agli Irakeni, e per comunicare la loro situazione al mondo .
Le due rimanenti forme di “pubblico sostegno” nonviolento sul luogo del conflitto suggerite da Burrowes sono più ambiziose e devono essere applicate su una scala più grande, poiché la loro riuscita è in parte condizionata dal numero di volontari addestrati che vengono coinvolti. La prima, interposizione nonviolenta, è messa in atto da attivisti disarmati che pongono se stessi come una forza ‘cuscinetto’ fra le parti in conflitto (o fra una forza militare e il suo obbiettivo civile), per aiutare a evitare o a fermare la guerra. Un iniziale tentativo di interposizione civile fu nel 1962 la proposta del leader gandhiano Jayaprakash Narayan di guidare un contingente dello Shanti Sena (vedi sopra) fra gli eserciti di India e Cina in guerra; proposta che non si concretizzò mai (Weber 1993). Nel 1990-91, il Gulf Peace Team organizò un campo internazionale di pace al confine fra Iraq e Kuwait, come parte della lotta per evitare una guerra nel Golfo Persico, ma il numero limitato di attivisti (erano 73 in totale) era ovviamente insufficiente per resistere fisicamente o politicamente alla violenza di due forze militari che totalizzavano un milione di personale combattente. Su una scala più modesta, l’interposizione nonviolenta può essere finalizzata a fermare temporaneamente il combattimento (come fece la simbolica Carovana di Pace verso Serajevo, nel dicembre 1992, con 500 attivisti di pace italiani) o a proteggere un villaggio da attacchi esterni (come l’International Service for Peace – SIPAZ, in Chiapas). L’organizzazione cristiana Witness for Peace dichiara che le sue attività di interposizione in Nicaragua durante gli anni ’80, svolte mandando 4000 attivisti statunitensi a vivere nele zone di guerra in tutto il paese, hanno significativamente ridotto il numero di attacchi contro popolo nicaraguense da parte dei Contras sponsorizzati dagli USA (Burrowes 2000:64). Questi esempi mostrano che l’interposizione nonviolenta è facile da organizzare su una piccola scala, ma è molto difficile che abbia successo in azioni di interposizione di massa quando è troppo grande il divario fra le ‘truppe’ nonviolente e gli eserciti in guerra. Quando una guerra è in corso, i tentativi non violenti di fermare il combattimento richiedono una strategia flessibile, la diffusione di micro-iniziative, e un programma graduale di azioni passo per passo in stretto coordinamento con le comunità locali (Muller 1997, Muller 2006).
Infine l’invasione nonviolenta è la forma di intervento oltre confine più ambiziosa e di maggiore impatto. Essa si riferisce all’atto di di invadere e occupare uno spazio volento o potenzialmente violento allo scopo di accelerare il cambiamento sociale. Originariamente concepito da Gandhi in un contesto nazionale, come un metodo per occupare di nuovo la terra di una persona o di reclamare la proprietà sulle risorse di qualcuno (p.e. i tentativi di prendere il controllo delle zone di produzione del sale durante il Satyagraha del Sale nel 1930-31), essa è stata aplicata molto raramente al di là dei confini nazionali. Burrowes cita un singolo esempio di tale intervento oltre confine e precisamente l’invasione della portoghese Goa da parte di diverse migliaia di Satyagrahis indiani nel 1955 a sostegno di un movimento nazionalista locale, che fu violentemente repressa.

Io vorrei ora illustrare quei principi e quelle tipologie di intervento nonviolento oltre confine attraverso uno specifico caso di organizzazione di “pubblico sostegno”. L’International Solidarity Movement è andato applicando la maggior parte di queste varie strategie durante il lavoro con gli attivisti di base palestinesi per accrescere il loro potere nella lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza: a questo punto, quale valutazione si può dare del suo lavoro?


4.Un caso di studio: l’International Solidarity Movement (ISM) nei territori occupati palestinesi

Nel conflitto israelo-palestinese, dall’insorgere della seconda intifada (settembre 2000), ci sono stati numerosi tentativi intergovernativi di dispiegare una forza di osservatori disarmati che si interponessero fra l’esercito israeliano e i civili palestinesi durante le insorgenze di violenza ma essi sono stati ogni volta sottoposti al veto degli USA in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In assenza di una iniziativa interstatale , la ‘società civile transnazionale’ ha sopperito alla mancanza mandando nella regione delegazioni di internazionali.
Fra le differenti organizzazioni che sono esplicitamente impegnate in forme di intervento nonviolento , io vorrei concentrarmi principalmente sull’International Solidarity Movement (ISM), perché esso “è emerso come la faccia più visibile dell’attivismo internazionale in Palestina”, “sufficientemente efficace per essere l’oggetto di crescenti pressioni israeliane (Seitz 2003:50). Secondo la definizione che ISM dà di sé :
L’ISM è un movimento guidato da Palesinesi impegnato a resistere all’occupazione israeliana della terra palestinese usando metodi e principi nonviolenti di azione diretta. Fondato da un piccolo gruppo di attivisti [stranieri e palestinesi] nell’agosto del 2001, ISM intende sostenere e rafforzare la resistenza popolare palestinese fornendo al popolo palestinese due risorse: protezione internazionale e una voce con cui resistere in modo nonviolento a una sovrastante forza militare di occupazione.
Questa descrizione rende chiari i principi e i metodi nell’impegno dell’organizzazione (azione diretta nonviolenta), il rapporto fra i volontari stranieri e la popolazione locale (“pubblico sostegno”internazionale al servizio degli attivisti palestinesi), e alcuni dei ruoli che intende giocare sul terreno (accompagnamento protettivo; crescita della consapevolezza a livello globale, fine dell’occupazione a livello locale). Questi tre elementi adesso saranno rivisti alla luce delle mia propria esperienza con l’ISM nel 2003 , arricchita da più recenti interviste con i suoi fondatori, e qualche documento elettronico tratto dal sito in rete dell’organizzazione.


4.1: L’impegno per la nonviolenza e i suoi limiti


Secondo l’originaria dichiarazione sulla missione dell’ISM, “Come riconosciuto nella legge internazionale e nelle risoluzioni dell’ONU, noi riconosciamo il diritto dei Palestinesi a resistere alla violenza e all’occupazione israeliana attraverso una legittima lotta armata. Comunque, noi crediamo che la nonviolenza può essere un’arma potente nel combattere l’oppressione e siamo legati ai principi della resistenza nonviolenta.” Questa frase, che ha sollevato molte controversie, è stata in seguito ritirata e sostituita da una dichiarazione basata su principi più forti: “ L’ISM considera che tutte le tattiche militari devono essere fermate da tutte le parti in favore di alternative nonviolente”. Con ciò difende anche la sua dipendenza dai metodi nonviolenti con l’uso dell’argomento strategico relativo alla sua efficacia:
L’ISM cerca di produrre la fine della violenza con una resistenza attiva all’occupazione attraverso metodi nonviolenti. Il governo israeliano ha lavorato a lungo per schiacciare la resistenza pacifica, rendendo difficile ai palesinesi l’agire in modo nonviolento su vasta scala. Noi stiamo lavorando per sviluppare un diverso modo di resistere – in modo non-violento – che può essere efficace .

In una intervista, due dei co-fondatori del movimento definiscono la nonviolenza nelle sue connotazioni sia positive che negative: essa esclude l’uso di insulti fisici o verbali, ma essa implica anche rispetto per tutti, inclusi gli avversari (Arraf e Shapiro 2002). Un altro co-fondatore dice di più sulla dimensione del sostegno: “Ergersi a sostegno di chi è privo di potere ma non contro i potenti”, e sull’importanza di stabilire raporti con l’avversario (Andoni 2003). Queste dichiarazioni riflettono molto da vicino i principi gandhiani del’ahimsa e del satyagraha prima sottolineati.
Come condizione per unirsi all’ISM in Palestina, a tutti i nuovi volontari è richiesto di essere completamente leali nel sostenere solo la resistenza nonviolenta. Durante l’addestramento intensivo di due giorni che essi devono fare al loro arrivo, vengono loro comunicate un gran numero di regole collegate, come la proibizione di toccare o insultare verbalmente soldati o coloni, o usare qualcosa che potrebbe essere considerato un’arma. Un forte accento sulla comunicazione è un altro elemento essenziale della nonviolenza, e gli addestratori dell’ISM insistono sulla necessità di fare tutto apertamente, e con rispetto per tutte le persone. Comunque, considerando che la maggior parte dei programmi di addestramento dura soltanto un fine settimana, essi non concedono il tempo sufficiente per fare approfondimenti sui principi e le strategie della resistenza nonviolenta o sull’intervento di una parte terza e quindi non possono essere messi a confronto con l’addestramento professionale offerto da CANVAS (vedi sopra) o anche meno con gli insegnamenti di Gandhi e le scuole satyagrahi. Invece essi si focalizzano per lo più su giochi di ruolo e esercizi pratici, preparando i volontari sui problemi legali, relativi ai media e alla sicurezza, in cui potranno imbattersi durante la loro attività di sostegno.
Le poche settimane che ho trascorso con ISM mi hanno permesso di verificare che i principi dell’intervento nonviolento sono chiaramente seguiti sul terreno. Un esempio mostra l’effetto che l’azione nonviolenta produce nella mente delle forze di occupazione israeliane. Quando 41 internazionali dell’ISM (inclusa me) furono arrestati il 5 agosto 2003 per aver “creato intralcio all’esercito” rifiutando di lasciare un’area militare chiusa” nel villaggio di Mas’ha , noi fummo rilasciati il giorno successivo e fummo apprezzati per la nostra “resistenza passiva”, ad eccezione di una volontaria italiana che fu espulsa dal paese per aver resistito al suo arresto “violentemente”.
I dibattiti più stimolanti sul rispetto delle regole nonviolente di impegno si riferiscono alla posizione dell’ISM sul lancio di pietre da parte dei Palestinesi. Mentre gli altri gruppi di solidarietà internazionale hanno fermamente escluso l’opzione di prendere parte in qualsiasi attività che possa implicare tali atti simbolicamente violenti, i volontari dell’ISM sono stati sorpresi molte volte nel mezzo di una manifestazione dove i bambini cominciavano a tirare pietre verso le jeep militari israeliane, provocando la violenta reazione dell’esercito, e il gruppo si è diviso riguardo a una appropriata risposta. Alcuni affermano che l’azione deve essere interrotta immediatatamente, mentre altri decidono che il loro ruolo è quello di restare a proteggere i Palestinesi dalla rappresaglia israeliana. Io sono stata testimone di una manifestazione di grande tensione contro il muro vicino a Tulkarem, dove sei internazionali sono stati feriti da pallottole di gomma mentre proteggevano degli adolescenti che lanciavano pietre; al momento della mia partenza dal paese il dibattito su questo argomento stava ancora continuando.

4.2”Pubblico sostegno”’ internazionale al servizio dell’attivismo palestinese nonviolento

Quali misure si mettono in atto per assicurare che i gruppi esterni e interni lavorino su una base di eguaglianza piuttosto che di subordinazione, cosicché la presenza straniera non entri in competizione o rimpiazzi l’azione locale?
I fondatori dell’ISM insistono nel definirlo come un “movimento congiunto palestinese-internazionale con una leadership palestinese” . La decisione di essere un movimento congiunto ha numerose implicazioni. Per ciò che concerne il prendere le decisioni, l’ISM, fortemente decentrato, si affida ai gruppi di lavoro di ciascuna delle aree di operazione, i quali sono coordinati da una mescolanza di volontari locali e stranieri selezionati e addestrati da uno staff centrale. Inoltre, per assicurare che il movimento non si metta in competizione o prenda il posto di iniziative interne, tutte le attività sono organizzate congiuntamente con Ong della società civile o partiti politici, invitati a prendere parte alle azioni dirette come partners alla pari. L’ISM è aperto alla collaborazione con ogni organizzazione locale che concorda con l’agire secondo le regole dell’impegno nonviolento. Allo scopo di mantenere questa inclusiva linea di operazione, sono state rifiutate le offerte di assistenza finanziaria provenienti dall’Autorità palestinese e da ogni partito politico.
Durante il loro fine settimana di orientamento e di addestramento, ai nuovi arrivati dell’ISM viene più volte raccomandato di evitare di dare giudizi culturali, politici o strategici,o a creare l’impressione che essi stiano dettando ai Palestinesi le cose da fare. Una regola di base nell’impegno consiste nell’interdizione a interferire nelle questioni interne palestinesi, a prescindere da quello che le persone provenienti dall’esterno possono pensare su chi ha ragione o torto. Tutto il lavoro deve essere fatto all’interno delle norme e delle tradizioni della società palestinese . Anche se il movimento addestra i suoi attivisti, evita di usare il termine ‘addestramento’ [training] nella comunità perché potrebbe sembrare insultante nei confronti dei Palestinesi. Al contrario, ‘gli stranieri sono qui per imparare, non per insegnare’. Quando è stato intervistato su questo argomento, l’allora coordinatore dell’ISM, il palestinese Ghassan Andoni, ha aggiunto: “Noi non abbiamo bisogno di gente che fa proposte dall’estero su come noi dovremo organizzare la resistenza. In un certo senso, questo somiglia al colonialismo. Il popolo palestinese può accettare soltanto quelli che sono impegnati nella resistenza loro stessi e quelli che offrono soategno ad atteggiamenti già presenti nella società”.
In che modo questi principi sono capiti dagli attivisti stranieri, e sono effettivamente applicati sul terreno? Tutte le attività organizzate durante il mio periodo di osservazione erano precedute qualcosa di simile a una consultazione con la gente del luogo, anche per quelle azioni di routine come l’osservazione ai checkpoint. Comunque, ho notato qualche variazione nel modo in cui erano costruite le relazioni fra la squadrra regionale del’ISM e la popolazione locale, secondo gli stili di intervento di ciascuna squadra. Inoltre la mia percezione predominante delle dinamiche di relazione fra internazionali e Palestinesi nell’estate 2003 era questa: piuttosto che semplicemente assistere gli attivisti nonviolenti locali, l’ISM spesso prendeva il controllo del progetto e della gestione delle attività, senza aspettare spontanee iniziative palestinesi. Anche la periodizzazione dell’attivismo era indicativa della relativa dipendenza dagli stranieri: il periodo in cui si raggiunge il picco della protesta popolare attiva in Cisgiordania è collocato in prossimità del Natale e nelle vacanze estive, quando un maggior numero di volontari stranieri può andare in Palestina.
Al tempo della mia visita, Andoni espresse anche il desiderio che, in un prossimo futuro, la definizione e la funzionalità dell’ISM potesse trasformarsi: dal dare inizio all’azione al sostenere una resistenza popolare iniziata a livello locale, con una base di massa. “Quandio i Palestinesi cominceranno a partecipare in massa, allora saranno capaci di prendere realmente possesso dell’ISM, ma a tutt’oggi esso è ancora un movimento congiunto e, nel momento in cui si parla di un’azione congiunta – internazionale-palestinese – gli stranieri sono sempre tentati di prendere la guida”. Egli ha anche aggiunto che era di gran lunga più importante per l’ISM sostenere l’azione locale, piuttosto che iniziarla, perché “ gli attivisti internazionali vengono e vanno, ma la gente del luogo deve sopravvivere alle conseguenze dell’azione e soprattutto ad essa tocca sopportatare la rappresaglia dell’esercito o dell’amministrazione israeliana”.
Cinque anni dopo, si può osservare come i Palestinesi abbiano preso la guida in numerose campagne nonviolente di lunga durata contro il muro. Nel villaggio di Budrus, per esempio, la strategia scelta dai leader locali ha ribaltato le dinamiche della relazione fra gli attivisti locali e i sostenitori [advocates] stranieri. In una intervista un resisdente locale ha ricordato che “nel nord, da Jenin a Budrus, c’erano dimostranti israeliani e internazionali, sostenuti da Palestinesi. Ma qui noi pensiamo che questo è il nostro problema e che noi dobbiamo difendere la nostra terra e fare qualcosa, e che i dimostranti israeliani e internazionali stanno soltanto sostenendo noi. Noi siamo molto grati del loro aiuto, ma i Palestinesi devono fare lo sforzo di difendere se stessi” (Levy 2004). Malgrado questi segni incoraggianti di mobilitazione popolare (di cui un altro esempio è la recente vittoria legale ottenuta a Bi’lin dopo tre anni di intenso attivismo nonviolento), su scala nazionale questo sogno di un movimento di massa attende ancora di essere realizzato.

4.3 Intervento sul luogo [del conflitto] e all’esterno: valutazione dell’efficacia dell’ISM in Palestina e all’estero


Le varie forme di attività che sono state realizzate dall’ISM dalla sua nascita nel 2001 rappresentano tutte le categorie dell’intervento non violento oltre confine così come è stato definito nella sezione 3.
Cominciando con l’intervento sul luogo [del conflitto] , le funzioni di accompagnamento nonviolento e interposizione rappresentano una parte cruciale delle attività dell’ISM. L’organizzazione non distingue fra queste due forme di intervento, e in verità esse sono connesse molto strettamente, quindi esse saranno trattate qui come una singola categoria della funzione comprensiva della protezione. I volontari dell’ISM offrono un accompagnamento protettivo ai Palestinesi (compresi i bambini sulla loro strada per la scuola) messi in pericolo dai frequenti attacchi dei soldati o dei coloni, o fungendo come scudi umani durante le manifestazioni. Questa presenza internazionale spesso impedisce che gli attivisti locali vengano feriti quando si impegnano per conto loro in azioni dirette, come rimuovere un blocco stradale o attaccare la barriera di separazione. Un attivista di Jenin ricorda una manifestazione del luglio 2003 ad Anin dove un soldato gli gridò:”se non fosse per questi [gli stranieri] che sono con te avremmo sparato a tutti voi!” (Mansour 2006).
Altre attività svolte dai volontari dell’ISM che rappresentano la funzione di protezione, comprendono per esempio lo ‘stare in casa’ che consiste nel dormire nelle case minacciate dai decreti di demolizione israeliani, perché sono state costruite senza permesso, o sono situate troppo vicine ad un insediamento, o appartengono alla famiglia di un attentatore suicida.
In negativo, va riconosciuto che ci sono stati alcuni casi in cui l’intervento dei volontari dell’ISM ha peggiorato le cose per i Palestinesi che essi cercavano di proteggere. Per esempio, una attività come l’accompagnamento delle ambulanze, che è stata molto praticata durante la campagna della primavera del 2002, è stata in seguito interrotta perché i Plalestinesi percepivano che l’atteggiamento dell’esercito era peggiore quando erano presenti gli internazionali. I tragici eventi della primavera del 2003, quando due volontari dell’ISM sono stati uccisi durante la loro missione di protezione o interposizione , hanno provato anche che la funzione di scudo umano è diventata meno rilevante una volta che i soldati hanno smesso di temere di sparare agli internazionali, anche a spese di una cattiva pubblicità mediatica al di fuori di Israele. Mentre tali tragici incidenti dovevano avere spinto i coordinatori a ripensare le strategie del movimento allora in corso, diversi intervistati pensavano che ciò non era necessario.

I volontari dell’ISM hanno anche svolto azioni che rappresentano la funzione di solidarietà nonviolenta, portando aiuto sia simbolico che materiale alle comunità impegnate 9n una resistenza disarmata al’occupazione israeliana. Per esempio, essi hanno visitato le case occupate dall’esercito per portare cibo e medicine alle famiglie detenute nelle loro stesse case. Inoltre i volontari dell’ISM sono stati i primi stranieri ad entrare nel campo profughi di Jenin bombardato massicciamente durante l’operazione israeliana “Scudo difensivo”, ed è anche molto noto nei territori palestinesi occupati per le sue marce forzate nel 2002 attraverso gli assedi del quartier generale di Arafat a Ramallah o la chiesa della Natività a Betlemme.
I volontari internazionali si comportano anche come ”testimoni dell’ocupazione” riportando al pubblico le azioni dell’occupante e documentando le violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito e dai coloni. In una intervista ad un leader locale di un villaggio fu chiesto se secondo lui la lotta popolare stava raggiungendo i suoi obbiettivi. Egli rimarcò che “in fin dei conti Israele sta ancora costruendo il muro. Ma questo non accadraà senza pagare un prezzo; il mondo e gli Israeliani cominciano a capire che cosa significa l’oppressione di questo muro” (Daragmeh 2005). E questo è il punto in cui l’ISM può portare il suo maggiore contributo al movimento, sfruttando le risorse che gli internazionali possono mettere a disposizione: attenzione globale (Arraf e Shapiro 2003: 74). Uno dei più importanti successi rivendicati dall’organizzazione riguarda sicuramente la relativa riuscita della sua sezione dedicata ai media nel portare l’attenzione del mondo sulle sue attività, attirando i giornalisti alle sue manifestazioni o mandando resoconti ad un pubblico mondiale. I volontari orgogliosamente citano il fatto che la questione del muro è diventata più rilevante nell’arena pubblica israeliana e mondiale dopo ‘l’estate della libertà 2003’, un’intensa campagna condotta da ll’ISM e da altri gruppi su questa questione

La forma di intervento di maggiore ipatto, l’invasione nonviolenta, è stata impiegata dall’ISM nel tentativo di buttare giù il muro/barriera di separazione , e aiutando i Palestinesi a reclamare le loro terre confiscate invadendo i campi resi inaccessibili dal muro. Al di là di queste azioni sporadiche, un progetto più ambizioso di invasione attraverso il confine è stato pianificato dalla Campagna Gaza Libera, condotta da volontari dell’ISM a cui era stato negato l’ingresso in Israele-Palestina. Nella primavera 2008, circa quaranta attivisti internazionali tenteranno di entrare nella Striscia di Gaza dal mare (partendo da Cipro), su invito di ONG palestinesi ma senza l’autorizzazione israeliana, con ciò riconoscendo il controllo dei Palestinesi sui loro confini. Questa campagna intende: “1) Aprire Gaza ad un accesso internazionale non limitato; 2) Dimostrare che Israele occupa ancora Gaza, malgrado le sue affermazioni del contrario; 3) Mostrare solidarietà internazionale alla gente di Gaza e del resto dela Palestina; e 4) Dimostrare il potenziale dei metodi di resistenza nonviolenta” . Se questa campagna avrà successo, finalmente davvero interromperà l’isolamento della Striscia di Gaza, dove l’ISM non ha potuto mandare nessun gruppo dal 2003.
Il “turismo militante” in Palestina è solo una faccia del lavoro realizzato da ISM e infatti almeno metà delle sue attività hanno luogo fuori dalla ‘terra santa’, nei paesi dei volontari. Quindi anche entrambe le categorie degli interventi fuori dal luogo [del conflitto] illustrate nella sezione 3, campagne locali nonviolente e azioni di mobilitazione, costituiscono una parte importante del mandato dell’organizzazione. Per esempio, il successo delle loro campagne internazionali in Palestina è in parte dovuto al continuo sforzo del lavoro di informazione e delle campagne condotto dai gruppi ISM all’estero, principalmente in Nord America e Europa occidentale. I gruppi di supporto dell’ISM sono stati creati in diverse decine di paesi, da veterani del movimento, allo scopo di stabilire contatti con i media per riportare informazioni provenienti dal campo [di azione], organizzare tournèe di conferenze per gli attivisti di ritorno [da Israele-Palestina] o viaggi per visitare la Palestina, e cercare finanziamenti per mandare un maggior numero di volontari. L’organizzazione stima che metà delle diverse migliaia di volontari sono venuti dagli Stati Uniti, un quarto di essi sono di origine ebrea (sebbene questi dati sono solo approssimativi poiché l’ISM ha perso i suoi database di statistiche dopo un raid israeliano contro il suo ufficio dedicato ai media nel maggio 2003). Di conseguenza, essi sono in una buona posizione per esercitare un’attività di lobbying sul più influente degli alleati israeliani, specialmente agendo come una potente voce ebrea alternativa. Come un contro-potere verso le lobby pro-israeliane come AIPAC – al’interno degli Stati Uniti. Giudicando dalla persistente posizione pro-Israele dell’amministrazione Bush e del Congresso degli Stati Uniti, sembra che l’ISM e gli altri gruppi ebrei anti-occupazione rappresentano ancora una voce dissidente costretta al silenzio, e le campagne locali per l’assassinio della cittadina americana Rachel Corrie non hanno incontrato lo stesso successo della famiglia e degli amici del suo compagno dell’ISM Tom Hurndall nel Regno Unito (che hanno ottenuto la denuncia e il processo del soldato dell’esercito israeliano che gli aveva sparato a morte alla testa).
Recentemente, membri dell’ISM si sono visti costretti a intervenire nel dibattito in favore di sanzioni internazionali contro le politiche israeliane dell’occupazione, per mezzo di un boicottaggio economico, sportivo o culturale. Secondo uno dei fondatiri del movimento, la promozione del boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), reclamato da molti gruppi della società civile palestinese, è nei fatti una delle loro principali strategie di intervento. La sua argomentazione è che “ quando noi potremo isolare Israele economicamente, politicamente, socialmente, nel modo in cui il Sud Africa dell’apartheid fu isolato, forse solo allora l’occupazione diventerà sufficientemente costosa per Israele per farle decidere di fare qualcosa su questo” .


Conclusione

Questa relazione ha mostrato come Gandhi, sviluppando la filosofia morale e l’applicazione pratica della resistenza nonviolenta o satyagraha, ha fornito un esempio che ha ispirato molte campagne internazionali. Mentre la sua visione di un ‘esercito di pace’ altamente addestrato e disciplinato, capace di difendere le comunità indiane dalle agressioni esterne e anche di intervenire all’estero in altri conflitti, non è riuscita a diventare realtà, numerosi gruppi hanno applicato le tecniche e i principi gandhiani nel campo dell’intervento da una parte terza, con vari gradi di successo. L’International Solidarity Movement è uno fra i molti esempi di questi gruppi.
Una delle più cruciali domande che sorgono nel contesto palestinese, generata dalla crescita della violenza militante sin dall’insorgenza della seconda intifada, è relativa al ruolo dell’intervento nonviolento ‘attraverso il confine’ in contesti dove non c’è (ancora) un significativo movimento nonviolento interno. A fianco di attività di protezione e solidarietà, l’obbiettivo degli stranieri che intervengono diventa allora quello di incoraggiare e ispirare gli attivisti della società civile locale a resistere attivamente all’occupazione con mezzi nonviolenti, senza correre il rischio di essere percepiti come coloro che vogliano imporre modelli esterni o tentino di ‘pacificare’ i Palestinesi. Dalla mia ultima visita nei territori occupati c’è stata una notevole crescita della ‘resistenza popolare’ (che significa non-armata) nei villaggi palestinesi, mostrata specialmente dalla cosiddetta ‘terza intifada contro il muro dellp’apartheid’ . Molte di queste campagne di base hanno anche vantato alcune vittorie legali, la sentenza della Suprema Corte Israeliana contro il percorso pianificato per la barriera di sicurezza nei casi in cui l’espropriazione della terra palestinese non potrebbe essere giustificata dalle necessità di sicurezza dei cittadini e dei coloni israeliani (Ghalili 2004). Gli sviluppi locali sul terreno nei prossimi mesi e settimane influenzeranno in modo decisivo la futura espansione del movimento di base, e infine il riconoscimento della sua efficacia da parte delle leadership palestinesi, sia dela Cisgiordania che di Gaza.







































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