L’Italia e le missioni civili dell’Ue
di Bernardo Venturi
Direttore del Centro Studi Difesa Civile Csdc
www.pacedifesa.org

23/12/2009

Le missioni civili dell’Unione europea dovrebbero puntare a conquistare “i cuori e la menti” delle popolazioni locali, condizione essenziale perché le attività di stabilizzazione e ricostruzione post-conflitto abbiano successo. Il seminario su “L’Italia nelle missioni civili Pesd” organizzato dal Ministero degli affari Esteri (Mae) e dall’Istituto Affari Internazionali (Iai) a inizio novembre ha avuto il merito di promuovere una conoscenza e analisi più approfondita di queste missioni anche in vista di un miglioramento qualitativo del contributo italiano, già elevato dal punto di vista quantitativo (l’Italia è il secondo contributore di personale civile nelle missioni dell’Ue). Un recente studio dell’European Council on Foreign Relations, infatti, non pone l’Italia in cima alla classifica dei paesi che hanno partecipato più efficacemente alle missioni civili Pesd, soprattutto per le carenze nei meccanismi di reclutamento e formazione del personale civile non di polizia.

Il ruolo delle organizzazioni della società civile

Al seminario sono state formulate varie raccomandazioni, fra cui alcune dirette ad accrescere il coinvolgimento nelle missioni di personale proveniente da ambienti estranei alle amministrazioni centrali dello Stato. La domanda da porsi è se, come e quando coinvolgere esperti free-lance di organizzazioni della società civile (Osc), del mondo scientifico, del settore privato o liberi professionisti. L’Italia sembra prestare meno attenzione a questo aspetto rispetto ad altri paesi, laddove invece gli obiettivi delle missioni civili dell’Ue si sono de facto ampliati nel corso degli anni e il Trattato di Lisbona allargherà ulteriormente gli ambiti di intervento dell’Unione.

Una delle problematiche connesse al coinvolgimento di esperti esterni alle amministrazioni statali riguarda i tempi, spesso molto rapidi, di dispiegamento delle missioni. Questa difficoltà può essere superata con la creazione di meccanismi di reclutamento rapido, inclusivo e trasparente. L’attuale sistema, infatti, presenta sia dal punto di vista giuridico che da quello finanziario aspetti non chiari: per esempio, non c’è un vero collegamento con i meccanismi di formazione, per cui non è detto che il personale qualificato venga effettivamente dispiegato in missione, né ci sono adeguate garanzie, dopo la partecipazione alle missioni, per un reintegro nelle funzioni lavorative alle stesse condizioni precedenti.

Attualmente, soltanto 22 civili italiani su 272 impegnati in missioni civili dell’Ue sono free-lance. Nella missione dell’Ue in Georgia (Eumm), incaricata di monitorare gli accordi di pace dell’estate 2008 e di svolgere più ampi compiti di normalizzazione, stabilizzazione e confidence building, l’Italia utilizza principalmente militari senza divisa e senza armi, ma anche civili esterni agli apparati istituzionali che rappresentano senza dubbio un valore aggiunto. Una presenza più cospicua di esperti civili con conoscenza delle lingue e culture locali ed esperienza nel peacebuilding, nella facilitazione del dialogo, nella tutela dei diritti umani, nelle questioni di genere, potrebbe rappresentare, in questa missione come in altre, un contributo importante e complementare alle altre competenze presenti.

L’Italia e gli interventi civili

Le missioni civili, e non solo quelle targate Ue, non sono certamente un tema nuovo per le amministrazioni italiane, n particolare per quelle attivamente coinvolte nel processo di reclutamento del personale, dalla Difesa agli Interni, dal Mae alla Presidenza del Consiglio, fino al Ministero dell’economia e delle finanze (Mef). Il forte impegno italiano nella missione Unifil a fine 2006 aveva riacceso il dibattito sulle potenzialità delle missioni civili e sul coinvolgimento delle realtà non-governative. Nel febbraio del 2007 era stato istituito un Tavolo di dialogo tra Mae e organizzazioni della società civile sugli “interventi civili in aree di conflitto”. Il Tavolo, promosso dall’allora viceministro Patrizia Sentinelli, non è mai stato istituzionalizzato e non è sopravvissuto al cambio di governo del 2008.

Occorre porre mente a tre elementi emersi dalle esperienze maturate fino ad oggi che possono risultare utili anche per il futuro. Innanzitutto, mancano riflessioni teoriche e studi di fattibilità che possano contribuire concretamente a un miglioramento del sistema Italia in questo settore. In secondo luogo, una serie di limiti legislativi e timori amministrativi hanno inciso negativamente sulla possibilità di sperimentare nuovi interventi civili in aree di conflitto all’interno del quadro della cooperazione internazionale. Infine, il dialogo politico inaugurato nel 2007 è stato sostituito con un progetto dalle finalità puramente formative e divulgative, il che non ha consentito di sfruttare fino in fondo le potenzialità di un’interazione strutturata tra istituzioni e settore non-governativo in tema di gestione civile delle crisi.

Prospettive

Lo sviluppo di elevate capacità d’intervento in missioni civili di pace passa anche dall’istituzionalizzazione di meccanismi che permettano alle amministrazioni statali di arricchire il proprio contributo alle missioni Ue con l’apporto di competenze specifiche presenti in università, centri di ricerca, Ong, associazioni o settore privato. Questo processo può concretizzarsi solo se si muta approccio e si realizzano alcune concrete iniziative.

Le organizzazioni della società civile (Osc) con più competenze devono sforzarsi di adattare i propri approcci e strategie di azione - come quella dei “corpi civili di pace - allo scenario politico attuale, focalizzandosi ad esempio sulle stesse missioni civili dell’Ue o su esperienze come il Servizio Civile di Pace tedesco. Le Osc sono spesso percepite dalle amministrazioni governative come una nebulosa con scarse competenze e tante voci con le quali è difficile stabilire rapporti organici di collaborazione. L’individuazione degli attori più idonei con cui collaborare è di importanza strategica per le strutture statali, il Mae in primo luogo.

Un primo passo concreto sarebbe la creazione in una banca dati unica (roster) di esperti civili da dispiegare in missioni internazionali, prendendo spunto da modelli come quelli tedesco e svedese: un’iniziativa che andrebbe realizzata con il coordinamento del Mae. Un’uscita dal carattere di mera eccezionalità del reclutamento di free-lance, oltre a diretti vantaggi nelle missioni, potrebbe portare a una maggiore visibilità, promozione e pubblicizzazione delle opportunità delle missioni civili Ue. L’Italia sarebbe così in grado di offrire un contributo più diversificato e qualificato alle missioni civili internazionali.

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