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6 agosto 2010

Il mondo ha bisogno di un nuovo contratto sociale
Clarinha Glock intervista il premio Nobel argentino Adolfo Pèrez Esquivel

BARCELLONA, 6 agosto 2010 (IPS) - “Dobbiamo iniziare a pensare ad un nuovo contratto sociale su scala planetaria e anche all’interno di ogni paese”, sostiene l’attivista argentino e studioso Adolfo Pérez Esquivel.

All’età di 78 anni, Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace nel 1980, continua la sua battaglia per la pace e per i diritti umani. È una delle anime del movimento per la creazione di una Corte Internazionale dell’Ambiente, a partire dal principio che i disastri ecologici sono un crimine contro l’umanità.

Il movimento per la nuova corte propone la modifica dello Statuto di Roma del 1998, che ha portato all’istituzione della Corte Penale Internazionale nel 2002.

Durante uno dei suoi frequenti viaggi in questa città a nord est della Spagna, Pérez Esquivel, ha discusso con IPS la situazione dell’America Latina e dei progressi compiuti verso la realizzazione di una cultura di pace nel mondo.

Dalla fine delle dittature militari in America Latina, quali progressi ha fatto il paese?

Dopo le dittature imposte dalla politica americana, ci sono stati importanti sviluppi che hanno portato a una transizione verso democrazie “condizionate” o ristrette in America Latina.

È stato un processo in rapida evoluzione, legato alla guerra del 1982 tra Argentina e Gran Bretagna nelle Malvinas (note anche come le Isole Falkland).

In passato, il confronto era tra Oriente e Occidente, tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica. Con la guerra delle Malvinas, il problema è diventato Nord-Sud. Gli Stati Uniti da subito hanno capito che era necessario promuovere le democrazie. Ma la politica neoliberale, la privatizzazione e l’appropriazione delle risorse naturali sono continuate.

L’America Latina è ancora importante per Washington?

Sebbene siano oggi concentrati sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di guardare verso l’America Latina. Non appena un paese comincia ad essere fuori dal controllo degli Stati Uniti, si trova ai ferri corti con gli USA, come accadde con il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador e l’Argentina.

Quando (il deposto Presidente) Manuel Zelaya in Honduras cominciò a mostrare una diversa visione della situazione del paese, lo hanno rovesciato con un colpo di stato legittimato dal Parlamento e dalla magistratura. È stato un esperimento pilota, da applicare anche in altri Paesi come il Paraguay, per esempio, che sta vivendo qualcosa di simile.

Quindi gli Stati Uniti restano dietro le quinte nelle vicende della regione?

Stanno creando un “pincher”militare nel continente: il piano Puebla-Panama (un’iniziativa di grande sviluppo che si estende da Puebla nel Messico meridionale a Panama nel sud) per l’America Centrale e i paesi Caraibici; il piano Colombia (la strategia da miliardi di dollari finanziata per reprimere le insurrezioni e il traffico di droga), di cui fanno parte sette basi prestate ai soldati americani con il pretesto di combattere il commercio di droga e il terrorismo; le Tre regioni di Frontiera (dove Argentina, Brasile e Paraguay convergono); le Isole Malvinas, dove una base militare britannica opera.

Inoltre, corporazioni transnazionali stanno cercando le risorse necessarie nei paesi ricchi.

Tuttavia, nuove forze sociali, politiche e culturali stanno emergendo. Il governo boliviano, per esempio, sta recuperando imprese nazionali e risorse naturali (come il gas naturale) che sono state privatizzate.

Ha preso una serie di misure importanti, come ad esempio il riconoscimento formale della Bolivia come stato “plurinazionale” di cui i popoli indigeni sono parte, o l’adozione di misure per superare problemi di analfabetismo e la salute. La stessa cosa sta accadendo in Venezuela.

Ma questo governo è stato aspramente criticato. Perchè, secondo lei?

Non c’è una democrazia perfetta, solo democrazie “perfettibili”, con margini di miglioramento. Per esempio, la democrazia in Venezuela è diversa dall’apparente democrazia in Colombia, dove c’è la repressione, il controllo dei gruppi para-militari (estrema destra), l’intervento della forze armate, quattro milioni di sfollati interni e cinque milioni di persone in esilio.

I colombiani votano, ma non è il semplice voto che garantisce la democrazia: è la partecipazione del popolo. Con tutte le loro difficoltà e gli errori, i paesi latinoamericani hanno intrapreso ottime iniziative per la costruzione di democrazie partecipative, che oggi sono in divenire.

Sono cambiate le cose dopo l’elezione di Barak Obama?

No. Obama ha raggiunto il governo, ma non ha il potere. Ha promesso di porre fine alla guerra in Iraq, ma questa si è intensificata, e lo stesso accade con l’Afghanistan.

Non ci sono le condizioni di governance di cui i presidenti di Bolivia, Venezuela e Ecuador godono. I loro governi sono uniti attraverso il Mercosur (Blocco del Mercato Commerciale dei Comuni del Sud), Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane) e il Banco del Sur (Banca del Sud, creditore multilaterale sudamericano). Questa alleanza è l’unico modo per competere con le maggiori potenze mondiali.

Può questa unione bloccare il colpo di Stato in Paraguay, come accennava prima?

Certo. Il Presidente argentino Cristina Fernández ha fatto qualcosa di interessante. Il 25 maggio, Giorno della Rivoluzione che portò all’indipendenza, è stato celebrato il bicentenario e lei ha ricevuto Manuel Zelaya con tutti gli onori di un presidente in carica.

Questo è imbarazzante per gli Stati Uniti, che vedono compromessa la loro egemonia. L’America Latina deve rafforzare la sua unità, perché ha enormi risorse naturali, e la prossima guerra sarà per l’acqua e le risorse energetiche e alimentari. L’unico modo per rafforzare questa regione è attraverso alleanze economiche, culturali e politiche.

Lei ha parlato di forze sociali emergenti dell’America Latina. A cosa si riferiva in particolare?

Il movimento delle donne, per esempio. Le donne sono gli attori principali in tutta la regione, da popolazioni indigene alle sfere della scienza, della tecnologia e del pensiero intellettuale.

Un’altra forza importante è il movimento indigeno. I popoli indigeni hanno cominciato ad organizzare e recuperare la loro identità, la cultura e la loro spiritualità.

In terza posizione ci sono i movimenti sociali, che stanno generando un nuovo modo di fare politica e una costruzione partecipativa della democrazia.

Questo ci porta a qualcosa su cui insisto spesso: dobbiamo cominciare a pensare a un nuovo contratto sociale su scala planetaria, ma anche all’interno di ogni paese. Durante l’ultimo meeting dell’Accademia Reale della Lingua Spagnola abbiamo organizzato un congresso linguistico parallelo, perché non siamo un paese monolingue, e tale diversità va rispettata.

Quando parlo di un nuovo contratto sociale, mi riferisco anche a questo, perché la dominazione non comincia con l’economia, ma con la cultura.

Ci sono progressi sulla campagna di fondazione della Corte Internazionale dell’Ambiente?

Una delle cose che faccio è presiedere l’Accademia Internazionale delle scienze Ambientali (IAES) a Venezia, in Italia, che si compone di 120 scienziati, dove lavoriamo su pressanti problemi ambientali del mondo.

Il settore dei diritti umani si concentra più sui danni alle “persone”che ai “popoli” in generale. Nel 1976, la Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli ha proclamato la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Credo che gli sforzi debbano essere concentrati su come affrontare i danni delle popolazioni indigene e delle intere popolazioni, causate dall’inquinamento dell’acqua e dell’aria.

Nel 2001, la FAO ha pubblicato un rapporto in cui dichiarava che più di 35.000 bambini al giorno morivano di fame in tutto il mondo. Questo è ciò che io chiamo terrorismo economico.

Chiediamo una riforma dello Statuto di Roma. Allo stesso tempo, deve essere lanciata una campagna di pressione internazionale per i popoli di tutto il mondo. La resistenza deve ottenere il cambiamento partendo dalla base. ©IPS

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