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08 novembre 2010

L'economista, gli epidemiologi e il capitalismo infelice
di Pietro Spataro

C'era una volta il Grande Mito del Mercato che da solo avrebbe dovuto portare benessere, lavoro e libertà. E c’era una volta il Grande Sogno Americano che ne era l’incarnazione: ognuno poteva farsi da solo, bastava un po’ di intraprendenza e tutti saremmo stati uguali e felici. Oggi il Grande Mito e il Grande Sogno non ci sono più, si sono infranti contro il muro della più grave crisi economica degli ultimi ottant’anni. Dopo i fasti del fondamentalismo liberista scopriamo che il mercato, lasciato a se stesso, è un formidabile produttore di ingiustizie, di povertà, di bancarotte, di disuguaglianza. E anche di infelicità. Il voto americano di Midterm è il frutto anche di questa delusione: l'americano ha paura, vede i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri travolti dalla disoccupazione e dai pignoramenti delle case comprate con i mutui subprime. Certo, Obama ha fatto molto, ma molti volevano che facesse di più e meglio, portando giustizia sociale in un mondo senza regole che salva le banche e punisce il lavoro. Il punto infatti è che il marchingegno liberista non funziona più: il capitalismo, quasi seguendo le previsioni del vecchio Marx, si è finanziarizzato, ha costruito castelli di carta e oggi fa i conti con la propria voracità. Potremmo dire che sta di fronte a un bivio: cambiare o morire. La domanda è: chi lo cambierà?



Questa impietosa radiografia è il risultato delle analisi convergenti di due libri. Il primo è di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia e consigliere di Bill Clinton. Si intitola Bancarotta ed è un viaggio nel capitalismo «corrotto» della bolla immobiliare. Il secondo è di due epidemiologi, Richard Wilkinson e Kate Pickett. Si intitola La misura dell’anima ed è il resoconto, documentato con dati e diagrammi, di come le diseguaglianze rendano le società più infelici: non c’è relazione tra ricchezza delle nazioni e benessere. Anzi, succede il contrario: i paesi con le economie più forti sono quelli più diseguali e hanno quindi la più alta incidenza di «malattie sociali».



La crisi economica che brucia ancora (dal tracollo della Lehman Brothers, anno 2008) non è un errore di percorso. Dice Stiglitz: non si è otturato il tubo, per cui basta un bravo idraulico e tutto torna a posto. In quell’anno horribilis si è consumato un modello di capitalismo rapace che ha travolto regole, coesione sociale e fiducia. Ha messo davanti a tutto solo il profitto e l’interesse sfruttando l’illusione che si potesse vivere «al di sopra delle possibilità». Dall’89 in poi il capitalismo si è sentito libero di gonfiarsi il petto: aveva vinto la sfida e ha imposto la cancellazione di ogni contrappeso. Forte di una pericolosa deregulation, voluta dalla destra (da Reagan a Bush passando per la Thatcher) e timidamente corretta dalla sinistra, ha creduto di essere imbattibile. Ma è stata un’illusione. La Grande Depressione è il risultato di questo pericoloso tornante dell’economia globale. Sappiamo come è andata in questi due anni, quante banche siano crollate (e poi salvate senza contropartite), quanti lavoratori siano finiti per strada, quanti miliardi di dollari siano volati via per riparare i guasti: Wall Street si è mangiata pezzi di economia reale. Ma il grido d’allarme di Stiglitz va oltre questa constatazione e tocca il cuore del modello di sviluppo. Appunto: non basta un lifting. Questa crisi invece dimostra che il capitalismo come l’abbiamo conosciuto è finito e non tornerà più. Serve, per non soccombere, un altro capitalismo, fondato su un nuovo contratto sociale tra cittadino, Stato ed economia, tra la generazione di oggi e quella futura. Nuove regole severe tra Stato e mercato, un equilibrio sociale egualitario. Ci vorrebbe, insomma, un «capitalismo dal volto umano». 



È la stessa conclusione a cui arrivano Wilkinson e Pickett usando diversi strumenti di analisi, andando a guardare dentro la vita delle persone. Ne viene fuori un quadro inedito: i loro studi infatti dimostrano che la ricchezza non fa la felicità. Vuol dire che la misurazione del pil non è un buon indice di misurazione del benessere. Non basta dire che un paese è ricco per pensare che va tutto bene. Bisogna sapere come è distribuita quella ricchezza. E spesso nei paesi più forti è distribuita male: tanto nelle mani di pochi, poco nelle mani di tanti. È il disvalore della diseguaglianza: più è forte, più la società soffre di malattie sociali: ansia, insicurezza, solitudine sociale, scarsa mobilità e deficit nel rendimento scolastico. Ma non solo: violenza, droghe, alcolismo, disagi psichici, cattiva salute e bassa aspettativa di vita. Insomma, le società più diseguali stanno peggio e sono infelici. Non a caso gli Usa e l’Inghilterra, due paesi ricchi, sono nel posto peggiore in tutte le scale esaminate. L’Italia sta meglio degli Usa, ma peggio degli altri paesi europei. Il costo sociale di questa infelicità diffusa, come è facile immaginare, è enorme.



La conclusione non è nuova: l’uguaglianza resta la sfida principale in un mondo che ha sulle spalle 240 milioni di disoccupati e un esercito di precari senza futuro. Ha ragione Stiglitz a dire che il crollo della Lehman Brothers è per il fondamentalismo capitalista quello che è stato il crollo del Muro di Berlino per il comunismo. E questo apre nuovi scenari. Perché spinge a pensare a una nuova società in cui il lavoro abbia un posto centrale, la ricchezza sia redistribuita più equamente, il mercato sia mitigato con regole certe e arbitri imparziali, ci siano le tutele sociali che garantiscano gli ultimi e infine sia vietato lo sfruttamento dell’uomo. L’orizzonte della politica si allarga, la sfida diventa più difficile ma anche più avvincente. In fondo è su questi temi che si misura la forza di un’idea di futuro. Lo dicono liberal di provata fede. Dunque: crisi storica del capitalismo, diseguaglianza e infelicità. Ce n’è abbastanza di compiti per una sinistra che negli ultimi vent’anni ha troppe volte inseguito le mode liberiste. Ha ricercato una legittimazione nei salotti buoni piuttosto che dotarsi di uno sguardo nuovo del mondo. È mancata quella che Alfredo Reichlin nel suo bel libro Il midollo del leone ha chiamato «visione generale». La sconfitta della sinistra, anche qui in Italia, è figlia di questa incapacità di pensare, dopo la fine del comunismo, le nuove chiavi per una nuova società in grado di tenere insieme giustizia e equità, libertà e uguaglianza, solidarietà e benessere. Come diceva Foa, siamo troppo malati di «presentismo»: ci occupiamo solo dell’oggi senza pensare a domani. Se allarghiamo lo sguardo, invece, ogni elemento ritroverà il suo giusto posto: capiremmo meglio, per esempio, il senso del «modello Marchionne» e lo spartiacque che può segnare e anche il senso del berlusconismo e la sua capacità (un po’ grezza) di cavalcare l’onda neoliberista.



Ma la sinistra saprà avere una visione moderna che riporti sulla scena il lavoro e dia le risposte giuste a una massa di donne e uomini che vive ancora nello sfruttamento e nell’alienazione? Saprà trovare la via che conduce a un nuovo umanesimo: l’uomo al centro e non il plusvalore del consumismo? Se non lo farà, lo faranno altri a modo loro. Il problema, quindi, non è tanto trovare un leader che ci conduca alla conquista della città di Utopia. È invece ritrovare una mission: avere un pensiero sul domani per arrestare il declino di un mondo prigioniero dell’egoismo sociale e della «dittatura del prodotto interno lordo». Questo ci suggeriscono Stiglitz, Wilkinson e Pickett. Claudio Napoleoni diceva che bisogna cercare, cercare ancora. Perché se la sinistra non cerca fuori dai recinti, se non guarda avanti, se non sta dentro il futuro dell’uguaglianza, non si capisce che ci sta a fare.

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