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6 aprile 2010

Testo inglese tradotto da Mariano Mingarelli

Gli Effetti delle Continue Interruzioni di Energia Elettrica a Gaza
di Max Ajl

“Le interruzioni di corrente elettrica rendono privo di speranza il futuro dei profughi di Gaza”

Di notte, a Gaza, gli stretti vicoli dei campi profughi risuonano rumorosamente per il fracasso nel bel mezzo dell’oscurità. Il fracasso è dato dal rumore fatto da piccoli generatori. Le famiglie nei campi e molti negozi nei campi e nelle città, fanno assegnamento per l’elettricità su tali dispositivi portatili durante le interruzioni persistenti che travagliano oggigiorno la Striscia di Gaza. Essi rappresentano  una mediocre sostituzione dell’energia fornita dalla stazione centrale di elettricità, o lo sarebbero, se tutti a Gaza potessero permetterseli. Ma non ne sono in grado, in particolar modo le famiglie che vivono nei campi profughi. Loro, fanno affidamento invece sulle candele.

Una famiglia di questo tipo è quella di Abdel Karim. Essi vivono nel campo profughi di Jabaliya, nel tratto centro-settentrionale di Gaza. Jabaliya è un labirinto super-affollato. E’ uno degli otto campi profughi di Gaza, il più esteso. Secondo l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) esso ospita 108.000 persone, il 10 % della popolazione di Gaza, i quattro decimi dell’1 % del già insignificante continente di Gaza. La densità della popolazione di Jabaliya è di 74.000 esseri umani per chilometro quadrato.

Entrai nella casa di Abdel Karim circa alle 8:30 pomeridiane. Il sole era tramontato da parecchio tempo. La stanza era illuminata debolmente. Di fronte a me c’erano tre piccoli tavoli, l’altezza giusta per quando  bambini piccoli lavorano stando in ginocchio sul terreno. I quattro figli di Abdel erano allineati accanto a questi tavoli: tre figlie, Maram, di 13 anni; Imam, di 10; Riham di 8  e poi Mohammed di 6 anni. I tavoli erano rozzi, ricostruiti da pezzi di rottame – due di essi erano proprio pezzi lisci di legno su materiale da imballaggio. Il terzo era dato da una lastra di metallo piano ribattuto in cima ad un banchetto. Sopra ai tavoli c’erano alcune candele. Non sufficienti.

Non c’erano candele a sufficienza perché con uno shekel – Gaza usa di norma moneta israeliana – puoi comprare due candele. Le candele bruciano abbastanza velocemente, e quando una famiglia non ha quasi alcuna entrata di denaro, la differenza tra due candele accese e tre candele accese  costituisce una grande differenza. Ma due candele producevano la luce estremamente pallida, grazie alla quale i figli di Abdel stavano facendo i loro compiti per casa, scrivendo nei loro quaderni di scuola mentre Abdel li guardava.

I suoi bambini cercano di studiare le loro cose più difficili, ma è duro. Lui mi dice che alle 10 pomeridiane la luce continua a traballare restando accesa fino alle 5 di mattina. Per una parte di questo tempo i suoi figli restano svegli e lavorano quando essi dovrebbero dormire. Abdel chiede “una soluzione che provenga dal mondo esterno”, mentre i suoi bambini vanno male a scuola, e la loro vista si deteriora  per una luce di candela così debole da non permettermi di fare fotografie. Essi “non hanno alcuna speranza.”

Abdel mi racconta una storia familiare, familiare perché ricorre più volte a Jabaliya e in tutta gaza. Egli è disoccupato perché è privo di risorse, troppo pigro per trovare lavoro, troppo privo di iniziativa per aiutare Gaza a trasformarsi in una Dubai del Mediterraneo. La percentuale di disoccupazione non è oltre il 50 % a Gaza a causa della pigrizia. Abdel e tanti altri uomini come lui sono disoccupati perché lavoravano abitualmente in Israele.

Ma poi loro lo impedirono. La politica di chiusura di Israele venne messa in pratica nel 1993, molto prima dell’esplosione della seconda Intifada. A causa della politica di chiusura, la gente proveniente da Gaza non poteva più entrare in Israele per lavorare come aveva fatto per decenni. Come scrive Sara Roy dell’Università di Harvard, la principale esperta su Gaza, , “La politica di chiusura è risultata così distruttiva solo perché il processo trentennale di integrazione dell’economia di Gaza con quella di Israele ha reso l’economia locale profondamente dipendente.” Quando, nel 1993, il confine venne chiuso in una morsa serrata, “ l’auto-sostentamento non era più ulteriormente possibile – in quanto venivano a mancare i mezzi. Decenni di espropriazioni e di de-instituzionalizzazione da tanto tempo hanno privato la Palestina del suo potenziale di sviluppo, garantendo che non avrebbe potuto emergere alcuna struttura economica (e quindi politica) in grado di sopravvivere.”

Abdel dipende completamente dall’UNRWA per il cibo, l’acqua e per l’assistenza sanitaria, ma l’UNRWA non può creare una infrastruttura economica dove non ce n’è alcuna, e neppure può importare combustibile o riparare la centrale elettrica rotta che costringe Imam e le sue sorelle a studiare senza l’uso perfino della luce elettrica.

Questo problema è precedente all’Operazione Piombo Fuso. Sin dai bombardamenti dell’estate 2006, quando Israele attaccò lo stabilimento per la produzione di energia elettrica di Gaza, un attacco che Amnesty International dichiarò rappresentare un “crimine di guerra”, Gaza ha subito oscuramenti totali intermittenti. La Striscia necessita di circa 240 megawatt di energia elettrica, di più nei periodi di punta estivi. Metà proviene da Israele, circa un terzo, verosimilmente dall’impianto della centrale, e 17 megawatt dall’Egitto. Lo stabilimento per la produzione di elettricità di Gaza  ha tre turbine. La sua produzione, prima di Piombo Fuso, era di 80 megawatt. Per produrre un tale risultato esso ha bisogno settimanalmente di 3,5 milioni di litri di diesel. I numeri non hanno senso, e perfino prima delle recenti carenze, l’erogazione di elettricità era insufficiente.

Quantunque l’assedio israeliano abbia avuto inizio nel 2006, la chiusura è divenuta veramente più stretta nell’ottobre del 2007. Sin da allora, Israele ha ristretto le quantità di diesel industriale ammesse entro Gaza attraverso il posto di attraversamento di Nahal Oz. L’Unione Europea paga questo diesel. Non è possibile utilizzare il diesel che entra passando attraverso i tunnel, per due motivi  dovuti sia alle esigenze  di limitazione dell’UE  per le modalità con cui essa versa i finanziamenti, come pure perché il combustibile deve essere modificato in rapporto alle necessità tecniche della centrale.

Per diversi mesi, nessuna quantità di diesel era entrata a Gaza, ma nel gennaio del 2008 lo stato di Israele si impegnò di permettere il rifornimento a Gaza di 2,2 milioni di litri di diesel a causa di un’azione legale intentata da Gisha, il Centro Legale per la Libertà di Movimento, una ONG israeliana che patrocina la difesa dei diritti dei palestinesi, in particolar modo di quei palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza. La Corte Suprema di Giustizia ha ritenuto che 2,2 milioni di litri si configurino come il “minimo umanitario”

In seguito, per un certo tempo, la Centrale elettrica funzionò con il  63% del carburante richiesto con una produzione giornaliera di 55 – 65 megawatt, invece della sua resa massima di  80 megawatt. Gisha aggiunge che “ questa quantità limitata ha di fatto impedito che la centrale elettrica approvvigionasse le sue stesse riserve.” Ciò sta a significare che quando Israele non trasporta carburante oltre il confine, non resta alcuna scorta di riserva. La centrale elettrica cessa l’attività.

Raramente Israele si adegua alle sentenze della Corte Suprema di Giustizia, secondo Paltrade, che controlla la quantità di carburante il cui ingresso a Gaza attraverso Nahal Oz viene autorizzato da parte di Israele. Nel periodo compreso tra il 21 febbraio e il 20 di marzo, quando incontrai Abdel ed i suoi figli, in una settimana era stato concesso il permesso per circa 1,25 milioni di litri di carburante. Circa il  57 % del “minimo umanitario”. Ne consegue che le persistenti interruzioni complete della luce possono avere una durata tra le 8 e le 12 ore e i bambini devono studiare al buio per nessun altra ragione che sono palestinesi e che il governo israeliano non si preoccupa di autorizzare l’accesso di diesel in quantità sufficiente per fornire loro qualcosa di così banale come il carburante diesel.

Chiedo ad Abdel se posso porre alcune domande ad Imam. Lui dice di sì. Le chiedo che cosa vorrebbe essere quando fosse cresciuta. Lei vorrebbe diventare una dottoressa, in modo da poter essere di aiuto al suo popolo. Molti bambini desiderano essere dei medici, in tutto il mondo, ma molte persone mi hanno detto che a Gaza tutti i bambini vogliono diventare qualcosa che sarà di aiuto al loro popolo o alle loro famiglie: ingegneri, medici, vigili del fuoco. Non vogliono diventare degli atleti professionisti o dei ballerini o dei musicisti. Imam probabilmente non diventerà un medico, ma nei campi profughi di Gaza i bambini perfino sognano in un modo funzionale. Le ho chiesto se lei ha un messaggio per il mondo al di fuori. Si domanda continuamente di chiarire, di precisare, perché lei continua a dare una risposta un po’ strana, forse perché non comprende la domanda. Forse no. Lei vuole “essere uguale ai bambini del mondo esterno; loro hanno la luce elettrica; loro hanno luoghi sicuri.” Imam ha trascorso metà della sua vita in una prigione ed è sopravvissuta a diversi massacri. Lei ha Jabaliya.

 

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