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8 febbraio 2010

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Ha’aretz (altri articoli di Amira Hass pubblicati da Internazionale).

Joe Sacco è un giornalista e autore di fumetti. In Italia ha pubblicato Palestina (Mondadori 2002), Gorazde (Mondadori 2006) e Neven (Mondadori 2007). Il suo ultimo libro, Footnotes in Gaza, è uscito a dicembre del 2009 negli Stati Uniti e sarà pubblicato in Italia da Mondadori nel 2010.

La memoria di Gaza
di Amira Hass

“Da sola, la parola scritta non basta a comunicare l’orrore”, spiega Amira Hass introducendo il nuovo reportage a fumetti di Joe Sacco.

Dal punto di vista giornalistico è stato facile. Ho chiamato Muna, una mia amica di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, e le ho chiesto se sapeva qualcosa del massacro del 1956 e lei mi ha risposto: “Certo, mio fratello è uno dei superstiti. Non ricordo esattamente, non ne parla più nessuno. I soldati israeliani lo fecero mettere in fila insieme agli altri, poi scoprirono che aveva 17 anni e lo lasciarono andare”.

Hai mai commemorato quel giorno, il 3 novembre? Muna ha riso: “Figurati: dovremmo fare commemorazioni dei morti ogni giorno e magari anche due volte al giorno. Ma la gente è stanca”.

Quando ho telefonato a Mohannad (non è il suo vero nome, preferisce restare anonimo), ho capito che sua sorella, come succede spesso, confondeva due avvenimenti diversi. Nel 1956 lui aveva 6 anni, nel 1967 ne aveva 17. All’epoca a Gaza tutti ricordavano il massacro del 1956 e temevano che si sarebbe ripetuto. “La cosa strana è che quella volta non ci hanno ammazzato”, mi ha detto Mohannad.

Lui dimostrava meno dei suoi 17 anni, ed è quello che l’ha salvato: i militari gli dissero di scendere dal camion, oppure di non salirci. Non ricorda. Gli altri furono portati via, e tutti erano certi che al yahud, gli ebrei, li avrebbero uccisi. Solo una decina di giorni dopo, qualcuno li sentì alla radio egiziana che mandavano saluti ai parenti. Le grida di gioia arrivarono fino al cielo: invece di essere ammazzati come nel 1956, gli uomini erano stati espulsi dalla Striscia di Gaza verso il Sinai e l’Egitto. Qualche anno dopo alcuni sono potuti tornare a casa. Altri sono ancora via, nella diaspora.

Gli uomini contro il muro
Nel 1956, invece, i soldati israeliani avevano ordinato a tutti i maschi dai 15 anni in su di uscire dalle loro case. In un arabo stentato, ricorda Mohannad, gli avevano detto che avrebbero sparato a chiunque fosse restato. Perciò lui e gli altri ragazzi, spaventati, si erano diretti verso “la moschea grande”. Erano rimasti a guardare mentre i soldati schieravano gli uomini contro un muro. Poi alcuni militari ordinarono ai ragazzini di tornare a casa. Mentre scappavano sentirono degli spari ed ebbero paura di continuare: qualcosa li attirò verso il luogo da cui proveniva il rumore.

Mohannad ricorda un cumulo di cadaveri e un mare di sangue. Di cinquanta uomini ne erano stati uccisi venti. Un cadavere sopra l’altro. Poi l’esercito si allontanò e i feriti andarono in un piccolo ospedale nelle vicinanze, a piedi oppure trasportati a bordo di carretti tirati da cavalli.

Con i disegni di Joe Sacco è facile visualizzare i ricordi di Mohannad. Sacco dà un’interpretazione accurata di decine di testimonianze e presenta una descrizione fotografica dei luoghi: com’erano allora e come sono oggi. Mi sembra che sia l’unico modo possibile di riesumare dall’indifferenza totale i massacri di Khan Yunis e Rafah e le loro vittime per farli conoscere alle nuove generazioni. Da sola, la parola scritta non basta a comunicare l’orrore. Foto non ne esistono, pare. Rappresentare quelle scene sarebbe un’oscenità.

I racconti degli altri
Sacco ci fa vedere come la memoria umana produca spesso dei dettagli falsi. Immagino che anche nella descrizione fatta da Mohannad ci siano dei particolari ricavati dai racconti degli altri e che lui non ha visto. Ma non c’è dubbio che quei due massacri ci furono e che le loro vittime furono soprattutto civili. Molti non avevano nessun rapporto con i palestinesi armati – e spesso inermi – che negli anni tra la guerra del 1948 e quella del 1956 si erano infiltrati da Gaza in Israele, dove in molti casi c’erano i loro campi e le loro case.

La guerra del 1956 fu un’iniziativa della Francia, della Gran Bretagna e di Israele. Gran Bretagna e Francia si sentivano ingiustamente colpite dalla decisione dell’Egitto, presa il 26 luglio 1956, di nazionalizzare la Compagnia del canale di Suez di cui i due paesi europei erano i principali azionisti. All’epoca Francia e Israele avevano solidi rapporti militari. La Francia voleva agire contro l’Egitto. Il premier israeliano David Ben Gurion non era disposto ad attaccare l’Egitto senza i francesi, che a loro volta non volevano fare la guerra senza la Gran Bretagna.

La guerra durò otto giorni (dal 29 ottobre al 5 novembre) e Israele occupò il Sinai e la Striscia di Gaza con l’aiuto dei due eserciti stranieri. Il Partito comunista israeliano fu l’unico a opporsi alla guerra. Poi Israele fu costretto a ritirarsi per l’intervento degli americani, dei sovietici e delle Nazioni Unite.

Contro il corso della storia
Nella memoria collettiva di Israele, quell’episodio è stato quasi dimenticato. Il parlamento israeliano ne ha celebrato il cinquantesimo anniversario. In quell’occasione l’ex premier Ehud Olmert ha fatto alcune considerazioni sulla scelta ridicola e anacronistica di Israele di unirsi a due superpotenze “che tentavano, contro il corso della storia, di salvaguardare le loro proprietà in paesi che non gli appartenevano”.

Olmert però ha definito giuste le cause di quella guerra “imposta” – le misure militari prese dal Cairo e le infiltrazioni di palestinesi incoraggiate dall’Egitto – e ne ha ricordato gli esiti positivi. Per la stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza, quella guerra è stata oscurata dalle altre sciagure e catastrofi che li hanno colpiti da allora. Rimane un mistero il motivo per cui le stragi del 1956 sono così marginali nella memoria collettiva palestinese. A Khan Yunis, secondo le stime dell’Onu, furono massacrati 275 palestinesi e a Rafah più di cento: si è trattato dei più gravi eccidi di questo genere, più gravi di tutti quelli commessi dall’esercito israeliano durante la guerra del 1948.

Joe Sacco, mentre discutevamo del suo libro durante una telefonata transcontinentale, mi ha detto che forse la psicologia umana è più adatta delle cause storiche a spiegare quelle stragi. La paura, la disumanizzazione, la certezza che l’altro farebbe a te quello che tu fai a lui sono gli stessi inquietanti sentimenti umani con cui si è confrontato quando era in Bosnia. Nel suo libro Footnotes in Gaza, però, non azzarda nessun profilo collettivo dei carnefici. Questo compito spetterebbe a noi israeliani, anche se dubito che la società israeliana sia disposta a farlo. La storia ci ricorda che questi fatti avvennero otto anni dopo la guerra del 1948, quindi per molti soldati israeliani fu come portare a termine un lavoro già cominciato.

Molte delle stragi del 1948 non sono note nemmeno all’opinione pubblica israeliana. Le indagini di alcuni storici hanno dimostrato che i ricordi palestinesi degli eccidi di civili commessi da Israele durante la sua “guerra di liberazione” non erano pura propaganda, ma la verità.

Guerre al computer
La combinazione di contesto storico e psicologia umana potrebbe darci una spiegazione parziale (certo non una giustificazione) di una realtà sconvolgente: militari che facevano strage di civili inermi.

Ormai, in Israele, è stato rivelato il segreto delle uccisioni e dei maltrattamenti dei prigionieri di guerra egiziani. Ma i civili? I militari israeliani hanno continuato a tacere. Ci sono voluti venticinque anni prima che un ex soldato israeliano accennasse, in un articolo del 1982, al “carnaio umano” che aveva scoperto a Khan Yunis. Per quanto ne so io, la sua lunga testimonianza – che Joe Sacco riporta nel suo libro – non ha suscitato alcuna eco.

Dalle testimonianze di Breaking the silence, un’associazione di ex militari israeliani, possiamo concludere che oggi i soldati parlano molto più di prima: è venuta meno la disciplina che regnava allora e che aveva determinato un clima di segretezza totale. I pochi soldati israeliani che denunciano episodi vergognosi sono quelli che per qualche motivo hanno incontrato i palestinesi faccia a faccia: nei posti di blocco, durante le perquisizioni delle case, o mentre distruggevano interi quartieri della Striscia, come è avvenuto durante l’operazione Piombo fuso, cominciata a dicembre del 2008.

Dei 1.400 morti di Gaza, “solo” un centinaio è stato colpito a distanza ravvicinata da soldati israeliani. E solo un numero ristretto di soldati che ha visto queste scene da vicino è rimasto sconvolto al punto da testimoniare e compromettere così i suoi rapporti con le forze armate e con la società. Circa trecento palestinesi, invece, sono stati uccisi dall’artiglieria, che ormai è altamente digitalizzata: gli operatori sugli schermi non vedono figure in carne e ossa, ma solo ombre scure. Per un migliaio di palestinesi, infine, la morte è arrivata dall’aria: bombe sganciate da caccia a reazione, droni, missili sparati dagli elicotteri.

Breaking the silence non è riuscito a contattare i soldati impegnati in quella specie di videogiochi che sono le moderne guerre computerizzate. Forse questa generazione di soldati israeliani inorridisce solo di fronte alle uccisioni a distanza ravvicinata. Ma la tecnologia uccide al posto loro. E risolve ogni dilemma morale.

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