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Impatto Gaza
di Renza Martini
Renza Martini è Caposala all’Ospedale Santa Maria Nuova di Firenze.

Dieci giorni dopo il cessate il fuoco dell’Operazione Piombo Fuso a Gaza un’infermiera italiana vive, per 13 giorni senza fine, l’impatto con le sofferenze del popolo palestinese prigioniero di una disumana tragedia, difficilmente descrivibile.

E' il primo giorno sotto il cielo di Gaza, sono nella Striscia, Medio Oriente.Oltre lo sguardo si stende il mare, tranquillo e azzurrino, sorvolato dai gabbiani.Un pallido sole, oltre le nubi lontane, mi accompagna ad Al Alawda, dopo aver percorso strade, che spesso non lo sono più, circondate da cumuli di macerie. 
Al Alawda: poco più che una palazzina di alcuni piani.
Definirlo ospedale è fin troppo gratificante.Circondato da fatiscenti strutture, non da meno un pollaio, dove le pecore belano assieme alle galline, sotto vecchi assi di legno, in un cortile sterrato.Sarà il canto continuo del gallo che mi accompagnerà quotidianamente, nelle ore che alternerò fra lì e altri presidi ospedalieri, mentre mi troverò ad aiutare tante donne palestinesi a diventare madri.

Sentirsi infermieri in un tale contesto è pressoché riduttivo: mi accorgo infatti che, data la situazione di degrado del paese ( vuoi per motivi politici, vuoi per motivi di guerra perenne ), ed all'alba di un giorno d'inverno, dopo un massiccio attacco aereo, marittimo e terrestre durato 22 giorni e 22 notti, chiamato operazione “ Piombo Fuso “, noi internazionali siamo accolti ovunque con entusiasmo e gioia, quale simbolo di una speranza di vita di un popolo oppresso.Se poi si accorgono che siamo giunti fin lì non solo per documentare una tragedia umanitaria, ma per entrare anche nelle loro case e in ciò che resta degli ospedali, per prendersi cura dei loro feriti, allora l'accoglienza di tutti, con centinaia di bambini urlanti e sorridenti che ci sommergono, si trasforma in una generale euforia, che mi ha portata a pensare......<< eppure sono “solo “ un'infermiera>> ... ma per questi poveretti è come se vedessero in questa figura un'ancora di salvezza, per l'immenso dolore che li sovrasta.

E così, quei piccolini che vedono la luce accompagnati dalle mie mani, su di un semplice e spoglio ripiano , privo anche di lenzuola, in quelle due stanzine che si affacciano sul pollaio, il cui primo vagito si mischia al canto del gallo, mi riflettono l' immagine di un mondo passato, un mondo in cui il tempo si è fermato, quando ancora alle infermiere non era stato insegnato di “ lavarsi sempre le mani “ o “ usare i guanti “, per ogni pratica di contatto con liquidi organici; dove le donne , in procinto di diventare madri, sollevano il lungo vestito quanto basta per dare spazio al bambino nell'uscire, rimanendo infagottate nei loro stracci casalinghi, e riabassando le vesti, una volta espletato il parto.

Altro che “ camicia da notte “, altro che “ contatto amorevole sul seno materno “, altro che attesa nel taglio del cordone ombelicale, per favorire il fluido magico che s'instaura col proprio bambino, nei primi attimi di vita, e prolungare così il contatto col ventre materno.Niente di tutto questo.E come se non bastasse, nemmeno la possibilità di ripulirsi dei liquidi del parto, che vengono piacevolmente assorbiti dalle lunghe tuniche palestinesi, e con cui se ne vanno tranquillamente via, dopo pochi minuti, col loro fagottino fra le braccia.

Le tre infermierine velate , Imaan, Sabreen e Amira, si dimostrano molto incuriosite dai miei gesti igienici, perlomeno tentativi di pulizia, tant'è che mi sorridono ma contemporaneamente mi fanno segno di scorrere, lì “ usa “ così, senza tanti “ preamboli “.Non solo, ma mi abituerò anche a vederle “ sparire” ogni tanto, almeno 5 volte al giorno, quando si alzerà nel cielo il lamento del Muezzin, e loro alternandosi, s'inginocchieranno su di un tappeto in un angolino dietro una porta, per pregare.

Eppure ho imparato ancora qualcosa: la naturalezza primitiva, con cui si viene alla vita, al di là di ogni progresso professionale, di ogni clausola igienica e preventiva, che fanno nella nostra professione la colonna portante dell'assistenza infermieristica.Ho imparato a trascurare tante manovre di approccio e di contatto, sia con la partoriente che col neonato :la madre che non si spoglia e che non viene pulita; il piccolo che , una volta appoggiato sul piccolo ripiano, sotto quella misera lampada che emana calore spandendosi tutt'intorno, anche su chi è lì vicino , in pochi minuti viene avvolto da più coperte di grossa lana , senza né essere lavato , né tanto meno il cordone ombelicale isolato e disinfettato. Dopodiché si fa tutto un “ pacchettino “ ( con un metodo insegnatomi dalle donne palestinesi ), in cui le braccine dei neonati vengono alternativamente allungate lungo i fianchi e fermate. E poi di corsa , fra le braccia della mamma ....e via . Avanti un'altra, c'è la coda fuori, neanche fosse un banale ambulatorio di visite.

E' impressionante il numero di parti, solo ad Al Alawda si arriva a circa 15 al giorno, circa 500 al mese. Ed è “ solo “ una palazzina, un “francobollo “ d'ospedale. A pochi metri dai lettini di parto ( chiamare Sala Parto quelle due stanzine è un complimento ), si aprono le porte ( a pensarci bene non c'erano porte ) di piccole camerette fatiscenti, con due-tre letti ravvicinati, sempre separati da grandi e polverosi tendaggi ( per garantire la privacy ), non solo perché uomini e donne sono assemblati, ma la religione stessa, a prescindere dai due sessi, impone alle donne l'assoluta riservatezza .Tant'è che, nei piccoli ritrovi, dove si può consumare un pasto a base di “ bite “ ( piadine rafferme riscaldate ) e polpette di verdure, o chissà mai cosa c'è dentro, diversi tavoli sono circondati da tendaggi polverosi, entro i quali famigliole intere con presenze femminili delimitano i loro confini, isolandosi dagli astanti.

Mi appaiono i primi feriti che, nonostante sia stato dichiarato il “ cessate il fuoco “ da dieci giorni, e l'emergenza del grande attacco sia oramai superata, ancora persistono in qua e là, spesso avvolti in poveri stracci e grosse coperte di lana colorata, passate di paziente in paziente, e forse mai lavate.

Mi sono chiesta spesso, inopportunamente date le circostanze, chissà mai se esisteva un protocollo per le infezioni ospedaliere. Pensavo al “ nostro Clostridium “ e alla “ nostra Legionella “, in compagnia dello Streptococco, se mai conoscevano quei luoghi medio-orientali; o se quantomeno il vento del Sinai, soffiandoli oltre il deserto, mosso a pietà, avesse avuto l'accortezza di risparmiare quella terra da un simile contagio.

Alternando turni di attività da un presidio all'altro, giungo ad Al Shifa, l'ospedale centrale di Gaza city, dove i segni del bombardamento si presentano fin dal piazzale antistante l'ingresso: due ambulanze lasciate lì, a cuocere sotto il sole che già accende il cielo di un fine gennaio, sono solo ammassi di lamiere contorte, silurate da carri armati, dove i resti dei corpi disintegrati e appiccicati ovunque, appaiono ai miei occhi come disegni di una funesta tappezzeria, che nessuno ha provato a rimuovere; ci pensa un gattino , a leccare le lamiere, per poi riposarsi sul sedile accartocciato, incurante del mondo.

Poco distante, un cumulo di macerie, che mi dicono essere state la Moschea dell'ospedale, mi fanno fremere di timore ; non è difficile intuirlo: decine di tappeti multicolori sono distesi alla belle meglio sui calcinacci, e sopra, coi piedi scalzi, i fedeli pregano, inchinandosi al Muezzin.

Entrando in Al Shifa, mi assale una sensazione di estrema impotenza e vulnerabilità, di fronte ad un pericolo occulto, che non è più in questo contesto rappresentato da germi e batteri che provocano malattie e loro complicanze, infezioni ospedaliere e chirurgiche; come non è più prioritario pensare all'igiene ambientale e alla prevenzione: no, prevale sopra ogni cosa la consapevolezza della precarietà della vita stessa, dovuta essenzialmente all'interagire di “ semplici “ esseri umani, che decidono della vita e della morte di loro simili.

Qui tutto si capovolge: ed ecco il primo contatto con i feriti “ veri “, amputati , politraumatizzati,, quando non colpiti o sventrati da proiettili, o schiacciati sotto le macerie; e quei poveri corpi ustionati, di cui mi verrà detto: sono strane ustioni, non sappiamo cosa fare, dove mettere le mani, mai visto niente di simile; dopo giorni e giorni, la carne continua a bruciare, fino a divorare i corpi, basta sollevare le bende e i tessuti riprendono a fumare. Con il contatto con acqua, aumenta e peggiora la situazione. Abbiamo solo capito che è il contatto con l'ossigeno che fa riprendere vita al fuoco, basta un 10 % di contatto in un corpo, per decretarne la morte.Tanti ustionati, dopo un primo soccorso, sono stati rimandati via , al loro destino; per vederli poi ritornare dopo pochi giorni, aggravati, con la carne delle ferite consumata fino all'osso, e gli organi interni compromessi.Finché hanno compreso che dovevano rimuovere chirurgicamente le parti ustionate , per asportare ogni frammento , anche microscopico, della sostanza micidiale: il “ Fosforo Bianco “.

Parlo col Dott. Ahmed, dell'ospedale Al Shifa, dove c'è un viavai di madri in nero, mogli , sorelle, figli, che strisciano per corridoi e corsie ad assistere i divorati dal fosforo e dalle “ Dime “ (Dense Inerte Metal Explosive ); mi conferma quanto già sentito: dopo una laparatomia primaria per ferite che parevano relativamente piccole e poco contaminate, un secondo intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi, dopo un periodo di tre giorni.Poi la salute si deteriora ed entro dieci giorni necessita un terzo intervento, che mette in luce una massiccia necrosi del fegato o di altri organi. Il fenomeno è accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto.

Spesso questi feriti sono giunti a cercare soccorsi, portati a spalla, o su carretti trainati da asinelli, dove venivano sdraiati e ammucchiati adulti e bambini.Crani fracassati, occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite ( da racconti di parenti ) che penzolavano sul viso, ma respiravano ancora, e la speranza non moriva.
Una madre distrutta , urlando di disperazione , ci trasmette il suo dolore parlandoci del suo bambino - aveva il torace aperto, gli si potevano contare le costole bianche, mentre lei teneva poggiate le mani su quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare quel frutto del suo amore, e prolungarne la vita, oramai inutilmente volata oltre il mare.

Incomincia così, prima ancora del mio contatto fisico, nell'adoperarmi con quel poco di materiale a disposizione che mi ritrovo, il mio contatto umano, emotivamente sconvolto da quegli abbracci disperati di madri e padri sconosciuti, da quelle frasi arabe per me incomprensibili, urlate più che raccontate, ma più che altro da mille occhi scavati dal dolore, che dicevano tutto, prima ancora delle parole: non importava conoscere la lingua.
E questo è il mio contatto con “ la morte “, dopo che ho avuto il contatto con “ la vita “: mi accorgo che non riesco a trattenere le lacrime, “ non posso “, mi dico. “Devo essere forte e spavalda, che immagine posso dare di me, solo una “ fregnona “, altro che di una figura forte e determinata, giunta fin qui per dare una mano.”Ma è troppo forte l'impatto, troppo forti le immagini crude e crudeli, che mi si presentano.

E troppo forti sono i racconti che mi coinvolgono.Ma non può essere altrimenti: duemilaquattrocento abitazioni civili distrutte, trenta moschee, una cinquantina di stabili pubblici e istituzionali rasi al suolo, ventinove scuole, spesso coi bambini dentro.Il 43% delle vittime sono minori. 
Ahmed, sette anni, piccolo “ cucciolo” d'uomo rannicchiato, giace inerme su un cumulo di coperte colorate.Lo sguardo vitreo, perso nel vuoto, quasi a cercare di afferrare un mondo, che non è più suo.Lo scorgo così, circondato dai parenti, dei quali uno, disperato, si rivolge alzando le braccia verso di me,e parlando in modo incomprensibile.Ma il fido Sami, la nostra guida, si sbriga a tradurmi.Non c'è poi molto da capire: la mano dell'uomo, che è il padre del bambino, stringe una lastra di radiografia , dove appare in controluce ciò che “ l'essere umano “ riesce a fare , al di là della ragione.
Brilla, la pallottola di M16, dentro i profili del cranio di Amhed, che un fucile mitragliatore dieci giorni fa, dopo il “ cessate il fuoco “, continuando a cercare le sue vittime, ha pensato bene di approfittare di un piccolo cucciolo che “ giocava” sulle macerie.“ Parla coi morti “ mi dice il padre, mentre un brivido mi percorre il corpo.
Ed è stato “ abbandonato “, dicono i medici che non possono intervenire, per mancanza di strutture, è già tanto se respira, anche se è stabilizzato.

Accanto, una piccola palestinese con le gambe maciullate, la cui madre mi implora di prendere in considerazione, per vederla tornare a camminare .Vorrei dirle, ma non posso, che è già tanto se sopravvive.Ho una macchina fotografica, con me, ma ho scoperto oggi di essere una pessima fotografa; non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime.Non ce la faccio. Non riesco, perché piango anch'io.

D'accordo con la coordinatrice della Missione, e più che sospinti dal padre , abbiamo tentato poi , con vari contatti telefonici e via internet, da un unico check-point miracolosamente salvato, di comunicare l'intento di poter trasportare Ahmed a Firenze. Dopo vari passaggi di tre giorni, con difficili contatti riusciti con l'aiuto del Dottor Porzio di S.M.N , che si è prodigato nella ricerca esasperata di vertici aziendali, e favorire il contatto con noi nella Striscia, dopo innumerevoli ( e costosi ) tentativi, siamo riusciti ad incrociare i vari riferimenti necessari; dopodiché, attraverso l'intercessione anche del Dott. Stefanini del Consolato di Gerusalemme e l'Ambasciata del Cairo, con il Ministero degli Esteri italiano, e i responsabili aziendali di Firenze e del Meyer, abbiamo ottenuto finalmente il permesso di trasporto in Italia; fermo restando, e questa era un'incognita, che gli israeliani avessero concesso il passaggio al confine. 
Siamo “ volati “ ad Al Shifa, entusiasti come non mai ; purtroppo Ahmed aveva avuto una crisi estrema, la sera prima, cancellando come un colpo di spugna tutti i nostri buoni propositi, che si stavano per avverare.

Bambini, bambini.Quanti ce n'è . Quelli sopravvissuti, di cui tanti giacciono ancora nei letti, mi appaiono mutilati, senza gambe o piedini, al posto dei quali vistose fasciature sporche, quasi più grandi dei piccoli corpicini. Bambini che erano nelle scuole, pure esse colpite e prese di mira dai tank disumani; decine di grembiulini azzurri macchiati di sangue, si confondono con ciò che resta di un'infanzia rubata.

Mentre nelle strade divelte dalle bombe, corpi di animali ( le cui carcasse putrefatte persistono ai miei occhi ) e di uomini, fino a pochi giorni fa , mescolavano il loro sangue in rivoli , fra la polvere .

Parlo con un medico, Mads Gilbert, norvegese, che è qui da diversi giorni.Conferma il sospetto dell'uso di armi proibite, utilizzate da Israele, che lasciano ai feriti, quando non morti, amputazioni estreme, con entrambe le gambe spappolate. Non solo, ma le ferite si presentano strane, quasi che il sangue “ fosse sparito “, così si esprime, tali ferite verranno poi identificate come provocate da bombe DIME, involucri metallici che, scoppiando , lanciano milioni di particelle taglienti di tungsteno e carbonio, che tranciano le parti basse delle vittime. Naturalmente molti di loro non riusciranno a superare il trauma.

Centinaia di persone ferite, bisognose di assistenza e medicinali, si sono trovate pure senza risorse alimentari: erano esaurite le scorte di farina, hanno iniziato a mescolarla con farina d'animale ( non saprei di che tipo, sto pensando che gatti a giro ne ho visti solo due, e altrettanti cani randagi, impegnati solo a strappare la carogne putrefatte agli angoli delle strade ) .Oppure si sono cibati di quello che viene chiamato “ pane-penicillina “; è ammuffito, avanzi di produzioni vecchie di settimane, verde di muffa. Ma messo su un fuoco, con un paio di ceppi di legno, può bastare, dove non c'è più niente.

2 febbraio, si va verso Al Quds, l'ospedale della Mezza Luna Rossa , più grande degli altri.Un disastro, di sette piani , almeno quattro sono fuori uso , completamente demoliti.Nei giorni di fuoco tutti gli occupanti sono stati evacuati, tutti però sdraiati al di fuori delle mura sulla strada antistante, comprese le incubatrici coi neonati fatti respirare “ a mano “, prese sottobraccio e portate via correndo.

In una stanzetta fatiscente scorgo due bambine, gli arti coperti da bende sporche, Amira e Alah,.La prima è rimasta sola al mondo, genitori e fratelli maciullati da missili lanciati da un carro armato.Lei stessa, ferita in tutto il corpo, con le gambe fuori uso, si è trascinata nella polvere, fino a trovare una porta aperta di una casa abbandonata, dove ha cercato da bere, e dove, dopo tre giorni, è stata rinvenuta dal proprietario rientrato e portata all'ospedale, praticamente dissanguata. Ha saputo poi che i suoi familiari erano stati sepolti già il giorno prima e che i conoscenti, trovando “pezzi di carne “irriconoscibili, hanno pensato che fosse lei. Ancora una volta sono percorsa da brividi, ancora una volta mi sentirò più impotente che mai, di fronte alla grandezza di tali tragedie.

Abbiamo portato con noi materiali di primo soccorso: pacchi di garze e cotone, disinfettanti, betadine, acqua ossigenata, bende, siringhe, mascherine monouso,cerotti, amixocillina, cateteri e tubi per tracheotomia, sacche raccolta urine e deflussori, aghi epidermici.Ma anche giocattoli, richiesti come le medicine.

Con un passa-parola abbiamo avuto l'indicazione di diversi feriti, soprattutto ustionati, rimandati nelle loro abitazioni, almeno quelle rimaste in piedi.Mi sono recata a trovarli, sotto la guida di Sami, per portare loro assistenza, o perlomeno “ presenza umanitaria “, consapevole del fatto che, in mancanza di mezzi adeguati, ben poco avrei potuto risolvere . Mi sono resa però conto che, al loro capezzale, già sentirsi prendere in considerazione, oltre che a sostituire bende oramai putrefatte, molto serviva a dare loro una speranza in più, persa forse in un mare di morte, ma sufficiente ad attaccarsi ad un barlume di vita.

Ahmad, sul suo semplice lettino, lo sguardo perso nei suoi sedici anni appena, disperato e struggente ,il corpo devastato dal fosforo bianco, mi porge le sue mani rattrappite dalle ustioni ;non le muoverà più, ma molto peggio è ciò che sta bruciando il suo corpo, penetrando all'interno.Mi chiede se morirà.
Un nodo alla gola, che mi fa ingoiare amaro e saliva, mi impedisce di formulare troppe parole scientifiche. Riesco solo a dire a Sami : “ Cerca di essere molto chiaro, e traduci bene quello che sto per dire ad Ahmad , lo vedrò dal suo sguardo se tu riesci a dirgli ciò che voglio intendere io, nel modo giusto, devo vedere sparire quella sua infinita tristezza. Ebbene, digli che assolutamente per quello non morirà, e che deve pensare solo a vivere, al futuro, al domani.Che la forza per guarire la deve trovare dentro di sé , e che sicuramente ce la farà , perché deve vivere la sua giovinezza , ne ha diritto.
Parole stupide, lo so, che a fatica hanno superato la barriera della mia gola strozzata e delle mie lacrime trattenute a fatica.Eppure ho visto un sorriso spuntare da quel giovane volto, e ciò è bastato per farmi sentire, forse più di ogni altra occasione, in grado di essere utile a qualcuno , in tale inferno, anche se sono “ solo “ un'infermiera.Ben sapendo che potrei essere solo un'infermiera “ bugiarda”.

A cinquant'anni e passa, credevo di essermi abituata alla morte; credevo di non dovermi stupire più di nulla.Forse che c'è morte e morte ?Forse che sotto un altro cielo mi appare più tremenda ?Forse che l'immagine di un uomo che muore in un nostro letto d'ospedale, è meno triste e meno dolorosa di chi muore per una guerra ?Eppure è così: la corazza che si crea nella nostra routine professionale, e che ci permette di affrontare il quotidiano, non è sufficientemente spessa per sopportare troppa sofferenza tutta assieme.

O forse solo perché tanti, troppi, sono i bambini diventati angeli; quei tanti cuccioli innocenti che, rivolgendo gli occhi al cielo per rimirare il volo dei gabbiani, hanno invece incrociato lo sguardo con i missili degli “ Apache “ e degli “ F16 “ rombanti; l'ultimo sguardo.

No, non sono più abituata alla morte, e con questa consapevolezza riprendo il cammino del ritorno.

Poco lontano, lungo la strada polverosa, due dromedari si contendono pochi fili d'erba, sulle dune spoglie del deserto incipiente.

Mi bruciano gli occhi:sarà il vento che solleva la sabbia, mentre saluto il cielo di Gaza, lanciando uno sguardo struggente al mare, le cui onde s'infrangono assieme ai miei ricordi sui resti di un popolo antico.

Me ne torno nella mia tranquillità , alla mia “ morte normale “, alla mia quotidianità.

Ma forse ho lasciato su quelle dune della Striscia, oltre alle mie impronte che si stanno cancellando, una parte del mio cuore,sepolto dalla sabbia del deserto.

 


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