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17/09/2010

Tolstoj il Gandhi dell'Occidente

RILETTURA. A cent?anni dalla morte il grande romanziere resta il prototipo di artista e intellettuale di retta coscienza. Se Proust si consacrò all’estetica il russo è esempio di classicità Una esistenza per il bene comune mai succube delle faziosità.

A cent'anni dalla morte, Leone Tolstoj (1828 - 1910), la sua vita e la sua opera (connesse da legami indissolubili) offrono l'esempio di un artista e di un intellettuale non organico (ossia non succube di una fazione politica). Al confronto con quella di Proust (1871 - 1922) l'opera del grande narratore russo splende con una luce classica altrettanto limpida di quella romantica che pervade la Recherche; ma la vita del massimo stilista francese della modernità attesta un'inclinazione irresistibile all'estetismo (come culto primario dell'arte) che in Tolstoj risulta superata, e alla fine biasimata, a scapito dei suoi stessi capolavori (Anna Karenna e Guerra e Pace), considerati dall'autore dannosi: esempi di letteratura non consona alle esigenze di ordine etico a tutela del bene comune. A queste considerazioni conduce la storia di Tolstoj, che è quella di un formidabile ansioso, appartenente alla cerchia di coloro che «cercano gemendo» (Pascal): mai chiuso alla sperimentazione (anche alla più dolorosa), mai prigioniero del privilegio o della comoda inerzia, o accidia, che paralizza ogni impulso altruistico e induce a fare il gioco degli «operatori di iniquità» (Luca 13, 27) d'ogni specie, sempre pronti a giustificare la violenza come male fatale e inguaribile. A Jasnaja Poljana, dove è nato (e dove è sepolto), il conte Tolstoj intraprende una lunghissima opera di umanizzazione, generosa e severa. Si dedica ai lavori più umili, diviene maestro impareggiabile per i figli dei suoi contadini: li aiuta a crescere leggendo e commentando testi sacri; fino a che la moglie (da cui ebbe 13 figli) non lo richiama, inducendolo a dedicarsi ai suoi compiti di scrittore, senza perdersi in prestazioni da lei considerate improduttive. Tuttavia Tolstoj non recede dai suoi propositi anticonformisti: rinuncia a ogni diritto di proprietà, ai proventi d'autore, dichiara nel testamento che le sue opere sono «di dominio pubblico». E vive sempre attento ai costumi e ai diritti della sua gente povera: tanto da meritare l'epiteto di avvocato dei contadini, poco gradito ai nobili e ai comunisti che antepongono i proletari ai servi della gleba, poco aperti ai rinnovamenti politici. Questa propensione alla difesa dei poveri e al disprezzo della ricchezza (condiviso con Gandhi, suo fratello spirituale) non si allenta nel corso degli anni e si accompagna all'esigenza di farla crescere in famiglia: con risultati purtroppo sempre più problematici, che finiscono col rendere difficile la coesistenza con la moglie e con i figli, in un clima di tensione, venata di inquietudine repressa o sfogata. La contrastata vicenda famigliare è stata rievocata da innumerevoli osservatori e dai punti di vista più diversi: magistralmente da Victor Sklovskij (nella biografia pubblicata dal Saggiatore nel 1978). Ma di rado ha raggiunto l'efficacia testimoniale, e la stringatezza incisiva che connotano le poche pagine scritte nel 1910 da Elias Canetti, nell'intento di tracciare un profilo di Tolstoj, l'Ultimo avo (così dice il titolo della testimonianza, grondante di ammirazione commossa e veritiera). Composto in dieci giorni mentre la vicenda terrena del grande russo di concludeva a Astapovo, il saggio ne condensa l'essenziale, in modo disadorno e incisivo. E precisa che «nella vecchiaia, vittima dei parenti e dei seguaci, oggetto di tutto ciò che egli specialmente combatte», la vita di Tolstoj «acquista un significato che non è raggiunto da nessuna delle sue opere». Neppure dalle pagine di Resurrezione, il romanzo tardo (pubblicato nel 1899), quasi scaturito dal senso di umanità di Tolstoj e dal rifiuto dell'estetismo? Canetti non risponde all'ipotetica domanda. Si limita a precisare che Tolstoj è «il più franco degli uomini», costretto a vivere in una sorta di regime di diffidenza. Lotta con tutta l'energia di cui è capace contro tutto ciò che contrasta con la voce imperativa della coscienza. «È l'unica figura del passato», arriva a scrivere Canetti, «che si possa prendere sul serio nei tempi nostri».

INCOMPRESO Quando, stremato da una resistenza sempre più aspra, s'accorge d'essere inascoltato dai famigliari (soprattutto dalla moglie, che secondo Canetti «odia la qualità esemplare della sua vita» in perenne «dibattito con se stesso») Tolstoj fugge. S'allontana dal suo paese con Certkòv, seguace e segretario, che aveva suscitato dubbi «agli occhi folli della moglie, come se il rapporto tra maestro e discepolo fosse di carattere omosessuale». Fugge come un viandante disperato, incompreso dal potere statale e dalla gerarchia ecclesiastica ortodossa (che lo aveva scomunicato considerandolo eretico). Ma non incompreso da migliaia di suoi lettori e dal popolo, nel quale «la sua pazienza ha suscitato», precisa Canetti, «lo stupore ammirativo dei contadini intorno a lui» pronti a ripetere che «di tutti gli uomini a loro sembra il migliore». La moglie e i familiari sono invece di diverso parere: incapaci di apprezzarlo, lo inseguono frastornati e perplessi: come costretti da una tardiva resipiscenza piena di dubbi e di paure. Ma il vegliardo, ammalato, non è più disposto ad ascoltarli; riceve e scrive lettere; si affida ai consigli dei medici accorsi. E si spegne senza agonia alla fine d'una estrema resistenza (durata dal 28 ottobre al 7 novembre), meravigliosa come una fiaccola che manda ancora luce. L'ultimo barbaglio, intenso e indimenticabile, è come specchiato da un particolare prezioso: prima di allontanarsi dalla sua casa di Jasnaja, il fuggitivo non si scorda di portarsi dietro, come viatico per l'ultimo viaggio, un libro. E sceglie quello che contiene la seconda parte dei Karamazov, il capolavoro di Dostoevskij. Le riflessioni e le emozioni che quel testo formidabile ha prodotto sulla mente di Tolstoj sfuggono a ogni controllo. Ma la scelta di quel libro è di per se stessa eloquente. E induce a immaginare le motivazioni di quella predilezione finale che attesta l'ansia di dialogare ancora con un interlocutore come Dostoevskij: forse con l'intento riascoltare la voce di certi personaggi, come lo staretz Zosima, che esorta Alioscia, incantevole figlio incorrotto, a percorrere le vie del mondo: per realizzare un cristianesimo nuovo, privo di scorie clericaleggianti, fiducioso nella forza della «vita vivente» salvaguardata dalle ombre degli «uomini del sottosuolo», rievocati da Dostoevskij in pagine perfette.

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