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Sabato 27 Febbraio 2010 21:53

Bayan Nuwayhed al-Hout

LE VITTIME VIVENTI. SABRA E CHATILA 25 ANNI DOPO (1982-2007)

Per non dimenticare Sabra e Chatila, 22 febbraio 2010

Vittime del massacro di Sabra e Chatila

 

Vi proponiamo la lettura di un saggio (tradotto da Vincenzo Brandi con la collaborazione di Marta Turilli) della professoressa Bayan Nuwayhed al-Hout, docente di Scienze Politiche all’Università di Beirut, che ha condotto una lunga ricerca sul massacro di Sabra e Shatila basata principalmente sulle testimonianze orali dei sopravvissuti o dei congiunti delle vittime, pubblicata in “Sabra e Shatila: settembre 1982”, Londra, Pluto Press, 2004. Quest’opera è tradotta in varie lingue e sarebbe molto importante farla conoscere anche in Italia ma fino ad oggi non è stato possibile realizzare questo progetto.

Il  saggio è stato scritto in occasione dei 25 anni della strage di Sabra e Chatila ed è un tributo nei confronti degli uomini e delle donne che hanno visto con i loro occhi scampando la morte: ed offre elementi di analisi e ricostruzione dei fatti al cui centro c’è l’impossibilità di vivere per chi è sopravvissuto a quell’orrore.

Le vittime dei massacri non vengono uccise solo quando sono fisicamente soppresse: quella è solo la prima volta. Esse sono moralmente uccise ogni volta che le voci libere non riescono a dire la verità e a condannare gli assassini. Questa è la grande tragedia; è la tragedia delle vittime viventi, coloro che recano nelle loro memorie, negli occhi e nella coscienza, la vocazione verso le loro vittime morte.

Il massacro di Sabra e Shatila non è stato solo uno dei massacri più crudeli del 20° secolo, o solo un capitolo nella lista dei massacri israeliani a danno dei Palestinesi e degli Arabi. Il mistero di “Sabra e Shatila” sta nel fatto che esso è ben lungi dall’essersi concluso, e non potrà mai esserlo finché la sua gente continuerà a soffrire di incubi. Anche se si muovono, viaggiano, lavorano, si sposano, allevano figli, essi continuano a scoprire – consapevolmente o no – che il corso delle loro vite è dettato dal massacro. Avevano pensato che ogni successo che potessero ottenere, ogni emigrazione verso paesi distanti migliaia di miglia da Sabra e Shatila, avrebbe loro permesso di superare lo strazio, ma ciò non è accaduto. Queste sono infatti le vittime viventi.

L’operazione iniziò al tramonto, era giovedì 16 settembre 1982, ed ebbe termine intorno all’una di pomeriggio di sabato 18 settembre. Continuò avanti senza interruzione per 43 ore.

In quell’occasione, l’esercito israeliano circondò il campo di Shatila e tutti i quartieri popolari vicini, e mantenne l’area continuamente illuminata per mezzo di artiglierie ed aerei, finchè la notte di Sabra e Shatila fu di fatto mutata in giorno, e l’intera area fu trasformata in un’isola violata dalle milizie delle Forze Libanesi (la Falange) e da altre milizie che davano loro man forte.

Di fatto, i soldati e gli ufficiali israeliani si comportarono come membri di una compagnia teatrale agli ordini – espliciti o impliciti – del regista Ariel Sharon e del suo assistente Raphael Eitan. Quegli ordini comportavano che gli  israeliani sorvegliassero l’area di Shatila da tutti i lati ed in corrispondenza di tutte le uscite dai tetti degli edifici più alti. Qualsiasi cosa accadesse, ci si aspettava da loro che non vedessero, non sentissero e non testimoniassero!

Molti degli assedianti israeliani erano ben consci di quanto stava accadendo: sterminio di famiglie, vecchi e bambini; episodi di tortura e rapimento; seppellimento di persone ancora vive; cancellazione delle tracce del massacro con i bulldozer. Alcuni degli ufficiali israeliani inviarono rapporti, nessuno dei quali raggiunse la sua destinazione finale, cioè gli alti ufficiali dell’esercito o la sua struttura di comando!! Ma quegli alti ufficiali erano pienamente a conoscenza delle leggi internazionali.

Secondo la IV Convenzione di Ginevra, del 1949, ed il Protocollo I, del 1977, la responsabilità di un crimine ricade sui comandanti occupanti se, in qualità di persone dotate di autorità, essi sono, o dovrebbero essere, a conoscenza del fatto che si stanno regolarmente commettendo crimini, e se hanno il potere di intervenire per arrestare le azioni criminali.

Se il mondo credesse veramente che i comandanti militari israeliani non furono informati di ciò che stava accadendo,  come si afferma nel rapporto ufficiale israeliano, noto come Rapporto Kahan, pubblicato nel febbraio del 1983, allora si tratterebbe di una vera beffa!

Venticinque anni sono trascorsi dal massacro di Sabra e Shatila e i criminali delle forze libanesi che avevano compiuto il massacro restano a piede libero, né ha subito conseguenze nessuno degli Israeliani che avevano protetto ed aperto la strada agli assassini! Comunque, la gente nobile dotata di coscienza non è rimasta in silenzio.

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Nella storia dei massacri, è la morte che parla per prima, poi è la vittima, ed infine l’assassino.

E la morte parlò per prima. Parlò a lungo durante la ricerca delle vittime e dei loro resti tra le macerie. Di fatto, a partire dalla metà di sabato 18 settembre, il distretto di Sabra e Shatila divenne il più famoso del mondo; nel frattempo vari mezzi di comunicazione avevano esibito foto, dettagli e testimonianze.

Durante quei giorni critici, nessuno avrebbe potuto impedire a nessuno di parlare, urlare, o piangere istericamente. I giorni del “divieto” e della “rimozione” sarebbero venuti immediatamente dopo la ricerca delle vittime nell’area del massacro, dove dozzine di corrispondenti e fotografi stranieri spuntarono fuori dal nulla per riferire al mondo ciò che era accaduto.

Le foto valsero più di migliaia di parole. Dozzine delle più significative furono scattate dai fotografi Mya Shone e Ryuichi Hirokawa – l’una americana, l’altro giapponese –, che si sono distinti per la determinazione nel presentare le loro foto in conferenze e mostre internazionali fino ai nostri giorni.

Gli articoli e le corrispondenze della stampa internazionale, in particolare, possono costituire il primo capitolo nel “libro” del massacro. Tra gli articoli diffusi, vi furono quelli di Robert Fisk, Mark Fineman, Ray Wilkinson, Colin Campbell, Loren Jenkins, e Ze’ev Schiff. La testimonianza di Jean Genet nel suo famoso articolo “Quattro ore a Shatila” potrebbe essere definita la testimonianza del secolo, per la sua eloquenza, la sua filosofia, la profondità, l’impatto umano e la profonda analisi che non avrebbero potuto mai scaturire se non da una grande mente e da una coscienza acuta; ecco come egli ha descritto l’amore e la morte mentre si trovava di fronte alle vittime:

Amore e morte. Queste due parole sono immediatamente associate quando una di esse è scritta. Dovevo andare a Shatila per capire l’oscenità dell’amore e l’oscenità della morte. In entrambi i casi il corpo non ha più nulla da nascondere; posizioni, contorsioni, gesti, segni, persino i silenzi appartengono ad un mondo ed all’altro. Il corpo di un uomo di trenta o trentacinque anni giaceva a faccia in giù. Come se l’intero corpo non fosse altro che una vescica in forma d’uomo, esso era diventato così gonfio sotto il sole e a causa della chimica della decomposizione che i pantaloni erano tesi talmente da essere sul punto di scoppiare sulle natiche e le cosce. La sola parte della faccia che potevo vedere era nera e paonazza. Poco sopra il ginocchio si poteva  vedere una coscia ferita sotto il tessuto stracciato. Causa della ferita: una baionetta, un coltello, un pugnale? Mosche sulla ferita e tutt’intorno. La testa era più grande di un cocomero – un cocomero di quelli scuri. Chiesi il suo nome; era un musulmano.

“Chi è?”

“Un palestinese”. Un uomo di circa quarant’anni mi rispose in francese…..

Gli articoli di scrittori e giornalisti arabi furono molto rari, a dire il vero. Comunque, non sottovalutiamo l’importanza di quei pochi che si erano offerti volontariamente di raccogliere e pubblicare testimonianze; tra loro, Zaki Chehab, Layla Shahid Barrada e Muna Sukkarieh. Nel quarto anniversario del massacro, quando il silenzio prevaleva in tutto il Libano, fu Elias Khoury a rompere il silenzio sul quotidiano as-Safir.

Non molto dopo  il massacro di Shatila passò dai periodici ai libri in varie lingue; i primi anni furono testimoni di un’abbondanza di pubblicazioni che negli anni successivi venne a cessare. Prima della fine del 1982, Amnon Kapeliouk pubblicò il suo piccolo libro “Inchiesta su un massacro: Sabra e Shatila”, che costituisce certamente uno dei riferimenti più accurati; successivamente, nel 1983, comparve il libro di Abie Weisfeld “Sabra e Shatila: una Nuova Auschwitz”. Per quanto riguarda il libro dell’avvocato americano Franklin B. Lamb, “Responsabilità Legale Internazionale del Massacro di Sabra-Shatila”, esso fu pubblicato nello stesso anno, e divenne un importante riferimento legale, così come le foto del Centro di Comando israeliano e dei luoghi vicini, scattate dall’autore prima che fossero effettuati cambiamenti nell’area. Queste due foto costituiscono un solido documento e confermano il fatto che gli Israeliani erano pienamente a conoscenza di quanto stava accadendo. Poi Ilan Halevi pubblicò il suo libro “Israel, de la terreur au massacre d’Etat” (“Israele, dal terrore al massacro di Stato”), del 1984, su cui non è necessario dire di più, dato che il titolo stesso indica il significato e i contenuti; inoltre, Halevi si distingue per la sua analisi accurata.

Vi sono stati molti altri libri che hanno avuto parzialmente a che fare con il massacro di Sabra e Shatila. Prima della fine del 1982 fu pubblicato il libro di Jakobo Timerman: “La guerra più lunga: Israele in Libano”. L’autore è un ebreo russo di nascita, cresciuto in Argentina, poi emigrato in Israele; aveva mandato il suo manoscritto alla casa editrice prima che il massacro avvenisse, ma lo recuperò e aggiunse un capitolo finale, nel quale si chiedeva:

Perché gli Israeliani sono incapaci di riconoscere l’alto grado di criminalità della campagna del loro esercito contro il Popolo Palestinese? ….

Cos’è che ci ha trasformato in criminali tanto efficienti?

Temo che nel nostro subconscio collettivo sia possibile che non respingiamo del tutto la possibilità di un genocidio dei Palestinesi ….

Nei primi due anni dopo il massacro, i libri più importanti furono: “La battaglia di Beirut: perché Israele invase il Libano”, di Michael Jansen; “Il triangolo fatale: gli Stati Uniti, Israele e i Palestinesi”, di Noam Chomsky; “Andando fino in fondo: signori della guerra cristiani; avventure israeliane e la guerra in Libano”, di Jonathan C. Randal; “Conflitto finale. La guerra in Libano”, di John Bulloch; e molti altri.

Sempre nei tre anni che seguirono il massacro, vi furono numerose inchieste e conferenze tenute in molte città e capitali;  le più significative si svolsero a Cipro, Oslo, Atene, Tokyo e Bonn. Le testimonianze ed i rapporti presentati in queste conferenze furono pubblicati in volumi, e di alcuni di essi furono realizzati dei nastri mostrati in video, ad esempio delle testimonianze fornite dalla Commissione Nordica per i Crimini di Guerra in Libano. Le “Testimonianze di Oslo” che ebbero luogo nell’ottobre del 1982, sono, fino ad oggi, le più importanti presenti in archivio che riguardino l’invasione israeliana del Libano ed il massacro di Sabra e Shatila, e ciò è dovuto alla loro stretta aderenza a tutte le norme previste nell’interrogatorio dei testimoni. In ogni caso le testimonianze più famose furono pubblicate nel 1983: “Il Rapporto della Commissione Internazionale di Inchiesta sulle riferite violazioni della Legge Internazionale da parte di Israele durante l’Invasione del Libano”. Il rapporto è ben noto sotto il nome di “rapporto McBride”, dal nome del Presidente della Commissione Sean McBride, ed è caratterizzato dalla condanna della parte israeliana.

La massima  efficacia nell’informazione, in verità, fu raggiunta con le notizie diffuse dalla televisione in tutto il mondo nei giorni che seguirono il sanguinoso evento, quando i corrispondenti continuarono a divulgare i dettagli dell’orribile massacro ed a mostrare le fotografie dei morti e dell’area devastata. Nessuna circostanza simile era stata possibile per il massacro di Deir Yassin, o altri precedenti massacri. Questo, di fatto, fu ciò che aprì gli occhi ai Sionisti sull’importanza della documentazione audio-visiva, specialmente quella relativa all’Olocausto. Sebbene nei decenni passati fosse stato regolarmente pubblicato più di un libro al mese sull’Olocausto, i Sionisti hanno cominciato a fare lunghe interviste registrate a sopravvissuti dell’olocausto solo a partire dall’estate del 1982. Quei nastri sono divenuti la base dell’Archivio sul Sionismo aperto presso l’Università di Yale un anno fa.

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Per i tre o anche quattro anni che seguirono il terribile sanguinoso evento, non uscirono altri libri su Sabra e Shatila, né altri articoli o  film documentari; quasi non se ne parlò.

La gente di Sabra e Shatila rimase l’unica incapace di dimenticare ciò che era successo; dormiva persino nei rifugi, benché non vi fossero più bombardamenti o attacchi. Aveva ancora paura dei fantasmi; era abituata a sentire che fronteggiare la morte insieme agli altri poteva essere in qualche modo più facile da sopportare, piuttosto che affrontarla individualmente.

Ma la morte non era più la stessa. E nemmeno la vita. Tutto era cambiato.

Durante quei primi critici anni, e mentre ogni cosa era in continuo cambiamento, io intervistavo i sopravvissuti al massacro. Le alte autorità libanesi bandirono l’uso della nuda parola “massacro”; comunque, rimanevano ancora vari modi e mezzi per incontrarsi con la gente di Sabra e Shatila, che collaborava in modo  sorprendentemente solido. E’ vero che molti avevano parlato nei primi giorni, quando i fantasmi della morte, l’odore della morte e i bulldozers della morte stavano ancora prevalendo nell’area di Shatila, ma allora parlavano in confusione, e qualcuno addirittura era uso urlare senza pronunciare una sola parola. Ma, dopo quel periodo iniziale, essi parlavano con profondo dolore e contemporaneamente con piena consapevolezza. Avevano un impellente bisogno, in tempi di asservimento, di qualcuno che li ascoltasse.

A partire dalla metà degli anni ’80, portai a termine il “Progetto di Storia Orale” e “Lo Studio sul Campo”; per di più, avevo raccolto tutti i documenti su cui ero riuscita a mettere le mani, in particolare la lista dei nomi delle vittime e dei rapiti, che erano classificati. Ero soddisfatta per essere riuscita a tenere tutti i file e i nastri in nascondigli separati, con l’intento di tornarvi sopra e pubblicarli in seguito, o, almeno, di permettere a qualcun altro di farlo. Per essere sincera, sentivo che la mia missione era compiuta, e che questa era la documentazione sul massacro.

Tuttavia, Sabra e Shatila rimanevano in profondità nella mia coscienza. Le visite reciproche con Um Alì, Um Zainab, Um Ahmad, Um Majed, Siham, Khadija, Ahmad e Munir, in realtà non cessarono mai, e i ricordi non furono mai messi da parte. Mi resi perfettamente conto, attraverso i miei contatti con le persone che amavo e con le altre, che Sabra e Shatila erano ancora qualcosa di sconvolgente: si può respirare un giorno dopo l’altro, ma non essere realmente più vivi.

Non ci interessano più a questo punto le agonie che il campo di Shatila ebbe a soffrire durante i giorni sanguinosi conosciuti come “la Guerra dei Campi”, cioè tra gli anni 1985 e 1987, né i cambiamenti demografici che ne seguirono, o i movimenti di Palestinesi verso altre località del paese, persino se avvennero a partire dall’area di “al-Horsh” di fronte all’Ospedale Akka verso la zona centrale del campo di Shatila, né quella specie di migrazione che vi fu dal Libano ai paesi scandinavi.

Mi dissero che i tempi erano cambiati, e che il gruppo dirigente libanese era cambiato. Mi fu anche detto che il capitolo delle “Guerre Interne”, o della “Guerra Civile”, o delle “Guerre di Altri sulla Nostra Terra”, era stato chiuso, e che per il Libano era iniziata una nuova era nota come l’era del “Dopo l’Accordo di Ta’ef”, ma – come per Sabra e Shatila – non si trattava che di una  prosecuzione della politica del silenzio. L’oscurità dell’oblio continuò a circondare l’area, cancellando i diritti umani, fin quasi alla fine del ventesimo secolo.

D’altro canto, rimanevano poche voci libere che ricordavano di tanto in tanto Sabra e Shatila. Uno di questi pionieri fu la dottoressa Swee Chai Ang, britannica, originaria di Singapore, che aveva testimoniato durante i difficili giorni dell’Ospedale Gaza, e che aveva compiuto interventi chirurgici negli ultimi giorni che precedettero l’attacco della Falange. I Palestinesi l’amavano molto e la chiamavano “il dottore cinese”. Nel silenzio generale, nel 1989, la dottoressa Swee pubblicò a Londra il suo impressionante libro “Da Beirut a Gerusalemme”. Un’altra coraggiosa voce libera venne nel 1997, anch’essa da Londra, da parte di Robert Fisk, con l’articolo “Quindici anni dopo il bagno di sangue, il mondo volta le spalle”, un articolo che definisco un grido nel deserto.

Più tardi, un grande, inaspettato evento avvenne diciotto anni dopo il massacro di Sabra e Shatila, nel settembre del 2000.

Senza preavviso, una delegazione italiana giunse all’aeroporto internazionale di Beirut, per commemorare Sabra e Shatila.

I membri della delegazione si attennero ad un programma predisposto; iniziarono con l’incontrare il Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera ed il Primo Ministro; poi a Shatila incontrarono i parenti delle vittime, che raccontarono delle loro amate vittime, dei rapiti, e delle proprie sofferenze nella vita di ogni giorno, ricavando una grande soddisfazione dal fatto che i membri di una così onorevole delegazione li ascoltassero con la massima partecipazione, e soprattutto Stefano Chiarini, il ben noto scrittore progressista del quotidiano “il manifesto”, capo della delegazione. Le vittime viventi non avrebbero osato sognare che la visita si sarebbe trasformata in un appuntamento annuale, ogni settembre, o che i loro nuovi amici, tra cui c’erano scrittori, artisti, deputati, registi e combattenti della libertà, come Monica Maurer, Stefania Limiti, Maurizio Musolino e Anna Assuma, non li avrebbero mai abbandonati.

Il Comitato presieduto da Stefano Chiarini, noto col nome “Per non dimenticare Sabra e Shatila”, si è assunto la responsabilità di commemorare “Sabra e Shatila” per tutti i sette anni scorsi. In aggiunta alla delegazione italiana, altre numerose delegazioni vennero dalla Francia e dalla Spagna, e molti altri sostenitori della libertà e dei diritti civili si unirono a loro. E, col tempo, lo stesso motto, “Per non dimenticare Sabra e Shatila”, fu tradotto in programmi annuali. La conseguenza più importante furono le amicizie, che misero profonde radici, e le passioni che penetrarono  nei cuori di entrambe le parti, le “vittime viventi” e i loro “nuovi amici”.

A Beirut, da parte palestinese, fu fondato un nuovo gruppo guidato da Qasem Aina, un ben noto attivista nel settore sociale, che in seguito si prese cura di tutti i dettagli; i bambini palestinesi, specialmente quelli di “Beit Atfal Assumoud”, videro in Qasem il loro amato “padre”.

La televisione britannica (BBC) ricordò Sabra e Shatila nel suo programma “Panorama” (2001), e presentò un eccellente documentario, “L’accusato”, in cui si accusava Sharon del massacro. Pierre Pèan, del giornale francese “Le Monde Diplomatique”, venne a Beirut dopo vent’anni, per scrivere a proposito delle “vittime viventi”. Il suo famoso articolo uscì nel settembre del 2002 con il titolo “Le passè, c’est ancore le present: Sabra et Shatila, retour sur un massacre” (“Il passato è ancora il presente: Sabra e Shatila, ritorno su un massacro”). Esso fu ripreso da numerosi periodici europei in varie lingue. Inoltre, nel corso dello stesso anno (2002), comparve un libro eccellente, pubblicato da Stefania Limiti, una scrittrice italiana, membro del Comitato “Per non dimenticare Sabra e Shatila”. Il suo libro , “I Fantasmi di Sharon. Il massacro dei palestinesi nei campi di Sabra e Shatila, 16-18 settembre 1982”, conteneva articoli di autori progressisti molto conosciuti.

Alla fine, i primi anni del ventunesimo secolo recarono nuova speranza alle famiglie delle vittime di Sabra e Shatila, in seguito all’azione legale condotta contro Sharon e Amos Yaron, che era il comandante del distretto, e contro tutti quelli che l’indagine aveva collegato al massacro. I querelanti, 23 sopravvissuti al massacro, sottoposero il caso alla magistratura belga il 18 giugno 2001, per mezzo di tre avvocati: il libanese Chibli Mallat e i belgi Luc Walleyn e Michael Verhaeghe. Fu possibile  sollevare il caso grazie alla legislazione vigente in Belgio nel 1993, modificata nel 1999, che riguardava la punizione dei principali violatori dei diritti umani internazionali. A Beirut, nel 2002, sotto la presidenza di Rif’at Sidqi al-Nimer fu costituito il “Comitato di Fondazione a Sostegno della Causa contro Sharon”, che con i tre avvocati fece ogni possibile tentativo, ma sfortunatamente invano. La giurisdizione della corte che riguardava questo tipo di azioni legali fu sospesa, come risultato dell’immensa pressione americana ed israeliana sul Belgio. Ciò nonostante, l’importanza di un simile processo sta nel fatto che ha aperto la strada alla possibilità che un procedimento giudiziario internazionale abbia corso, in futuro, in ogni stato del mondo che possa accogliere tali azioni legali in virtù delle proprie leggi.

Qualcosa di simile fu riproposto dall’Unione degli Avvocati Arabi, che il 3 e 4 febbraio del 2006 istruì un processo al Cairo su “i crimini anglo-americani e sionisti in Iraq e Palestina (territorio, popoli, luoghi sacri, civilizzazione, salute, ecc.), in aggiunta ai crimini di Guantanamo”. Gli incriminati erano George W. Bush, Tony Blair e Ariel Sharon;  il collegio giudicante fu presieduto da Mahateer Mohammad, l’ex Primo Ministro della Malaysia, la cui acuta attenzione, vasta cultura, e calma e forte personalità, imposero un’atmosfera di dignità e solennità che restituì ai partecipanti un sentimento di fiducia nella giustizia. Tra i più importanti pubblici accusatori ci fu Khaled al-Sufiani, originario del Marocco (più tardi Segretario Generale della Conferenza Nazionale Araba). Il compito di difendere le vittime fu espletato dal signor Abdul-Azeem al-Mughrabi, un avvocato egiziano facente funzioni di Segretario dell’Unione degli Avvocati Arabi, la cui difesa fu notevole non solo per la validità degli argomenti legali sollevati, ma anche per l’abilità nell’ispirare le accuse. Non c’è bisogno di dire che i testimoni provenivano da vari paesi arabi ed occidentali, e che le loro testimonianze furono, in generale, accurate e documentate. Alla fine, i tre criminali furono condannati.

Ultimamente lo sviluppo più importante ha avuto luogo a livello locale: lo spiazzo dimenticato dove si trovava la fossa comune è stato trasformato in un reliquiario circondato da alberi e rose, come avevano promesso il Sindaco di Ghubairy, Mohammad Said al-Khansa, e i suoi colleghi, i membri della Municipalità di Ghubairy, che si era posta l’obiettivo di preservare il luogo della “tomba comune” e trasformarlo in un santuario aperto ai visitatori. Questo fu quanto avevano promesso di fare, e questo fecero. E forse è stata la prima azione che ha reso onore alle vittime di Sabra e Shatila da parte dell’autorità libanese responsabile.

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Vent’anni dopo i tre giorni di sangue, avevo finito di scrivere il testo e, allo stesso tempo, compilato e completato le appendici del mio libro “Sabra e Shatila, settembre 1982”. Fu pubblicato in arabo dall’Istituto per gli Studi sulla Palestina (2003), ed in inglese dalla Pluto Press (2004). Sinceramente confesso che non era stato facile immaginare di arrivare alla pubblicazione del libro. Lunghe notti di insonnia, e ostacoli innumerevoli, cui dovetti far fronte, ancora oggi mi ossessionano. Il libro segue due metodi: la storia orale e lo studio sul campo, con i dati statistici. Tuttavia la parte più importante potrebbe essere l’appendice, che contiene le liste dei nomi delle vittime e dei rapiti, pubblicate per la prima volta. La compilazione si basa su 17 liste di nomi, classificabili come segue: liste assemblate sulla scena del massacro e nei cimiteri; liste assemblate nei mesi che seguirono il massacro; liste assemblate per mezzo di ricerche individuali o da commissioni ufficiali o da commissioni giudiziarie fino alla fine del ventesimo secolo. I nomi documentati provenienti dalle varie fonti comprendono un totale di 906 vittime e 484 rapiti e dispersi. E’ provato che nessuno dei rapiti è tornato, nessuno dei dispersi è stato mai ritrovato, da cui risulta un totale di 1390. Questa cifra è quasi il doppio di quella menzionata nel Rapporto Kahan, che si basa sulla stima delle I.D.F. (Forze di Difesa Israeliane: n.d.r.) e oscilla tra le 700 e le 800 vittime.

Per ottenere le “cifre stimate” ho seguito più di un modello analitico e statistico, tra cui uno basato su una stima complessiva delle persone sepolte nei cimiteri, nelle fosse comuni, in buche per i cadaveri, e sotto le macerie. Modelli differenti accorpati insieme hanno portato a una cifra minima di 3000 vittime.

Per quanto riguarda le vittime femminili, nel Rapporto Kahan se ne contano 15, mentre uno studio sul campo (basato su un campione di 430 vittime) ha concluso che le donne sono state più di un quarto delle vittime totali; inoltre, le liste dei nomi delle “vittime del massacro di Sabra e Shatila” basate su varie fonti contengono 201 nomi di donne. Per quanto riguarda il numero dei bambini, che è di 20 nel Rapporto Kahan, è stato verificato, tramite raggruppamenti per fasce d’età basati sullo studio sul campo, che la cifra totale dei bambini non ancora nati e dei bambini di età compresa tra uno e dodici anni raggiunge le 95 vittime sul campione di 430, cioè il 23% del totale.

Quelli che commisero il massacro di Sabra e Shatila ebbero successo, in verità, nello sterminare i residenti, ma fallirono nel sopprimere lo spirito umano.

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Il ricordo di “Sabra e Shatila” è stato perpetuato dalle vittime viventi, coloro che non interpretano  solo il ruolo del narratore dell’evento, perché essi stessi sono diventati l’evento, il legame e l’obiettivo; senza dimenticare che per ciascuno di loro c’è ora un racconto che è cominciato 25 anni fa.

Tra i racconti di queste vittime viventi, torniamo indietro al resoconto di Munir, che aveva dodici anni quando il massacro ebbe luogo.

Munir stava con sua madre, con le sorelle ed i fratelli, nel rifugio di Abu Yaser. Tutti furono uccisi; sua madre Zahra fu uccisa insieme alle sorelle Aida, Fadya e Iman, e a suo fratello Mu’in, non lontano dal distributore di benzina, la prima notte, mentre suo fratello Mufid fu ucciso la mattina seguente (venerdì mattina) all’Ospedale Akka. Egli stesso scampò alla morte, sebbene abbiano cercato di ucciderlo tre volte.

Otto mesi dopo il massacro feci in modo di incontrare Munir. Non rispose ad una sola domanda. Già sapevo di questa tragedia attraverso i giornali e la gente che ne aveva a lungo parlato, ma, se avessi riflettuto su tutte le interviste che Munir aveva dovuto affrontare, non avrei chiesto di vederlo. Tuttavia, nel corso dell’intervista venni a conoscenza di molti altri dettagli da un vicino che venne insieme a lui. Seppi di come Munir dovette fingere di essere morto, per poter rimanere vivo, e di come rimase a giacere tutta la notte accanto a sua madre, mentre non era affatto sicuro che fosse morta, né avrebbe potuto sapere cosa avrebbe fatto il giorno seguente, e se fosse riuscito a scappare.

Munir rispose solo alla mia ultima domanda, che riguardava ciò che avrebbe fatto da grande: si sarebbe vendicato? O avrebbe perdonato? O che cosa avrebbe fatto? Egli dette una risposta chiara e netta: “No, no. Non avrei mai pensato di vendicarmi uccidendo dei bambini come uccisero noi. Che colpa hanno i bambini?”

Quando intervistai il dottor Paul Morris, il dottore britannico dell’Ospedale Gaza, nella primavera del 1983, mi disse: “Munir potrebbe sorridere un po’, giocare ogni tanto a pallone, ma egli non si comporta spontaneamente come gli altri della sua età, se non occasionalmente”. Poi il dottore picchiò sulla tavola e disse: “Il ragazzo deve essere salvato. Deve lasciare il distretto, anche solo per un po’ di tempo, per recuperare”. Di fatto Munir lasciò il distretto per andare lontano negli Stati Uniti, con l’aiuto dell’infermiera americana Ellen Siegel, e suo fratello maggiore Nabil partì insieme a lui. Questi furono gli unici superstiti della famiglia di Ahmad Moussa Muhammad.

Mi incontrai una seconda volta con Munir cinque anni dopo, e fu nel New Jersey. Era diventato un giovane forte e ben fatto, con un bel sorriso. Lo incontrai ancora verso la fine del ventesimo secolo a Washington: un uomo che aveva lottato con la vita, e che stava ancora lottando. Infine l’ho incontrato in Libano, nel settembre del 2000, mentre percorreva la strada principale di Shatila, dove aveva passeggiato l’ultima volta con sua madre, le sorelle, i fratelli, e dozzine di donne e uomini.

Quando raggiunse lo spiazzo del Cimitero Comune delle Vittime di Sabra e Shatila, Munir parlò di sua spontanea volontà e toccò due argomenti che non era stato facile toccare con le dozzine di precedenti testimoni; parlò dello stupro delle ragazze, e di un certo numero di attaccanti assassini che erano caduti morti. Disse:

Dopo che spararono su di noi, eravamo tutti giù per terra, e loro andavano avanti e indietro, e dicevano: “Se uno di voi è ancora vivo, avremo misericordia e pietà di voi e vi porteremo all’ospedale. Venite, potete parlarci”.

Se qualcuno si lamentava, o prestava loro fede e diceva di aver bisogno di un’ambulanza, sarebbe stato soccorso a fucilate e finito prima o poi.

Io …. ciò che mi turbava realmente non era solo la morte tutta intorno a me. Io …. non sapevo con sicurezza se mia madre e le mie sorelle e i miei fratelli fossero morti. E certamente avevo paura di morire io stesso. Ma …. ciò che mi turbava così tanto era il fatto che essi ridevano, ubriacandosi e divertendosi per tutta la notte. Gettarono coperte su di noi e ci lasciarono fino al mattino. Tutta la notte potei udire le voci delle ragazze che piangevano e urlavano: “Per l’amor di Dio, lasciateci sole”. Io voglio dire …. Io non riesco a ricordare quante ragazze stuprarono. Le voci delle ragazze, con la paura e il dolore; non si può dimenticarle mai.

….Ora ricordo. Stavamo camminando lungo qui. Io contai tre o quattro degli uomini armati che ci avevano assalito, li contai mentre cadevano. Morirono? Forse. Non posso esserne sicuro …. Ricordo chiaramente ora; uno degli uomini che aveva dato ordini gridò agli altri miliziani più forte che  potè: “Per amor di Dio, Robert, non sparate da dove state; una pallottola ci può colpire. Tre o quattro uomini sono a terra”.

Munir pensò di andare al college, e gli si presentò un’opportunità quando il Presidente Yaser Arafat, venuto a sapere  del suo caso, dette disposizioni di coprire tutte le spese del college; ma Munir non spese nulla, e non potè realizzare il suo sogno; per studiare sono necessarie una seria concentrazione ed una completa attenzione, sia dal punto di vista mentale che psicologico; e ciò fu esattamente quello che gli venne meno a causa delle vecchie memorie.

Munir vive ora a Washington; è sposato con Suad, una bella dolce marocchina. Ma ancora oggi soffre moltissimo, come soffrono tutti gli ‘altri’, quelli che hanno visto con i propri occhi ciò che accadde a “Sabra e Shatila” e sono sopravvissuti. Sono  le vittime viventi.

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Nella storia dei massacri, è la morte che parla per prima, poi è la vittima, e per ultimo l’assassino.

In questo caso, la morte ha parlato, e così hanno fatto le vittime.

Gli assassini devono ancora parlare, e le vittime viventi lo stanno aspettando con impazienza.

 

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