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4 marzo 2010

Il giorno delle piazze colorate di giallo
di Mihai Mircea Butcovan
Scrittore romeno che vive in Italia dal 1991.

Il 1 marzo, in sessanta città italiane, migliaia di stranieri hanno scioperato. Sei scrittori hanno raccontato l’iniziativa per Internazionale. Dopo Muin Masri e Laila Wadia, ecco la testimonianza di Mihai Mircea Butcovan.

Milano non si era fermata nemmeno il giorno prima per il blocco del traffico. Ma il 1 marzo alle nove palazzo Marino, la sede del comune, era circondato da enormi transenne – che comprendevano perfino la statua di Leonardo – su cui i manifestanti avevano attaccato dei volantini con scritto “Zona libera dal razzismo”.

Mentre si stendevano gli striscioni e si facevano le prove dei microfoni, molte persone vestite di giallo hanno cominciato ad arrivare nella piazza. Dopo i primi interventi è partito un corteo pacifico che ha attraversato le vie della città cantando slogan come questo: “Ma quali criminali e quali clandestini? Ecco a voi i nuovi cittadini!”.

In piazza Abbiategrasso gli studenti di tre scuole superiori hanno ascoltato gli interventi dell’attore senegalese Modou Gueye e del segretario dell’Opera Nomadi Giorgio Bezzecchi. Giansandro Barzaghi, dell’associazione NonUnodiMeno, ha ricordato agli studenti che viviamo in una società dove “il penultimo odia l’ultimo”.

Alle 13 sono stati srotolati alcuni striscioni gialli nei punti strategici della città. Davanti al palazzo di giustizia si leggeva: “Migrare non è reato”. E davanti alla questura è apparsa la scritta “Permesso di soggiorno per tutti. Tempi di rinnovo più rapidi”. L’azione è stata svelta come la considerazione dell’agente di guardia: “In mezz’ora tutto finito, tutto tranquillo”.

A via Padova, Dulen, il titolare bangladese di un minimarket, non sapeva dello sciopero: “In questa via siamo tutti aperti”. Invece Ahmed, il macellaio, aveva sentito della manifestazione da alcuni amici egiziani in Emilia-Romagna che erano stati informati dal centro culturale islamico locale. Ahmed era solidale con chi manifestava ma il suo negozio era aperto: “Conti­nuiamo a lavorare. Che dobbiamo fare? Siamo qui per questo, no?”.

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