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15/02/2010

La visita della discordia
intervista al professor Stefano Cammelli

L'incontro tra Obama e il Dalai Lama fa risalire la tensione tra Usa e Cina

Obama ha confermato che giovedì riceverà il Dalai Lama alla Casa Bianca. Il governo cinese ha risposto con un duro comunicato ufficiale del ministero degli Esteri che esorta il presidente Usa ad “annullare immediatamente” l'incontro per “evitare di danneggiare ulteriormente le relazioni sino-americane”.

“Come la prenderebbe il governo Usa – si chiede il China Daily, organo del Partito comunista cinese – se i leader cinesi ricevessero qualcuno che vuole l'indipendenza di uno Stato americano, per esempio dell'Alaska? Obama finge di non sapere che il Tibet è stato parte della Cina per secoli, che la storia del Tibet come parte della Cina è più lunga di tutta la storia degli Stati Uniti. Se si riconoscono le ragioni del Dalai Lama, a maggior ragione bisognerebbe riconoscere il diritto delle tribù degli indiani d'America di cacciare gran parte della popolazione americana fuori dagli Stati Uniti. Incontrando il Dalai Lama Obama manca di rispetto al popolo cinese, si mostra ai nostri occhi come un uomo con un doppio standard morale e senza princìpi e ci dà l'impressione di aver detto il falso, o quantomeno di non credere alle sue parole, quando prometteva di promuovere le relazioni sino-americane”.

Per comprendere le posizioni cinesi sulla questione tibetana bisogna guardare con obiettività alla storia comune di quei due popoli. Una storia censurata da mass media legati a governi che hanno sempre sostenuto il separatismo tibetano come strumento di destabilizzazione della potenza cinese. Una storia oscurata dalla sacrosanta condanna della politica repressiva di Pechino nei confronti dell'identità culturale tibetana e dal comprensibile fascino che la millenaria cultura buddista tibetana esercita sulle società occidentali. Ma che non può essere ignorata.

Per questo vi riproponiamo un'illuminante intervista al professor Stefano Cammelli, storico ed esperto di Cina, realizzata all'epoca della rivolta di Lhasa del marzo 2008.

 

Professore, come giudica l’informazione odierna sulla questione tibetana?

Sul Tibet si stanno dicendo grandi stupidaggini.

Su questo delicato argomento c’è un’ignoranza storica enorme.

Dal XIII secolo in poi, il Tibet ha confuso irreparabilmente la propria storia con quella della Cina fino al punto che a livello amministrativo, linguistico, artistico, architettonico e politico è impossibile fare la storia del Tibet e della Cina in modo separato.

 

Può tratteggiarci questa storia comune e intrecciata di Tibet e Cina?

Il Tibet si forma come Stato tra il II e il VI secolo dopo Cristo. Dal VII secolo inizia un’aggressiva fase espansionistica che porta alla creazione di un impero tibetano, che nell’XII secolo si estende dallo Xinjiang meridionale a ovest, al Quinghai e al Gansu a nord, fino al Sichuan occidentale. E’ il cosiddetto Tibet storico, che coincide con le regioni interessate dalle rivolte anticinesi.

Nel XIII secolo, i mongoli di Gengis Khan invadono e conquistano la Cina. Per amministrarla senza l’aiuto dell’intellighenzia cinese, l’imperatore Kublai Khan si servì del clero tibetano, chiamando alla sua corte di Dadu, l’odierna Pechino, il monaco Phagspa il quale, adattando il tibetano all’alfabeto uiguro dei mongoli, crea una nuova lingua amministrativa. Da quel momento tra gli occupanti mongoli e i monaci tibetani nacque una stretta alleanza anticinese, testimoniata dalla costruzione della Pagoda Bianca ancora oggi visitabile a Pechino. Sotto l’impero mongolo, la Cina viene occupata culturalmente e politicamente dal Tibet, i lama tibetani sono la classe dirigente al pari dei mongoli e a discapito dei cinesi.

 

Poi, quando i cinesi prendono il potere, cosa cambia per i tibetani?

Poco e niente. Con la caduta dei mongoli e con l’avvento al potere della dinastia cinese dei Ming, nel 1368, i nuovi padroni della Cina, desiderosi di vendicarsi e di cancellare per sempre il pericolo mongolo, espellono i burocrati mongoli per poi invadere e distruggere la Mongolia. Vengono espulsi anche i cristiani e i musulmani che avevano servito gli occupanti mongoli. Ma con il potente clero tibetano i Ming stringono subito una solida alleanza, ben consapevoli della loro importanza strategica per l’amministrazione dell’impero. Dal canto loro, i tibetani riconoscono la supremazia politica della dinastia cinese e il Tibet non viene occupato perché i Ming non hanno né la forza militare per occuparlo, né motivo di farlo.

 

Nel XVII secolo inizia per la Cina una nuova lunga era di occupazione, quella dei manciù. Qual è la situazione dei tibetani in questo periodo storico?

Nel 1644 la decadente dinastia cinese dei Ming viene spazzata via dalle rivolte contadine e dagli invasori provenienti dalla Manciuria, che occupano Pechino. E’ l’inizio della dinastia manciù dei Quing, che dominerà la Cina fino al 1912. Di nuovo, come con i mongoli, anche con gli occupanti manciù i lama tibetani stringono un’alleanza in funzione anticinese. Al Dalai Lama – figura guida dei tibetani affermatasi alla fine del XVI secolo – viene riconosciuta la supremazia spirituale e i tibetani diventano una casta potentissima, che legittima e sostiene la supremazia politica dei manciù, riconoscendo nell’imperatore la reincarnazione dell’apostolo buddista Manjusri. In quest’epoca, Pechino si riempie di monumenti, monasteri e luoghi di culto lamaisti. Anche i mongoli e la Mongolia vengono reinglobati nell’impero Quing, che assume così un carattere multietnico e universalistico.

 

Insomma, professore, quando nasce la ‘questione tibetana’?

Nel 1912, quando la multietnicità universalistica dell’impero termina con il rovesciamento della dinastia manciù e con la nascita della repubblica ‘cinese’ di Sun Yatsen. Nasce la Cina come ‘nazione’, basata sull’invenzione ideologica di una ‘razza’ cinese, gli han, che sono una razza quanto lo possono essere gli ‘italiani’. Questa rivoluzione ha effetti disastrosi per tibetani e mongoli, i quali si sentono automaticamente esclusi da uno Stato solo cinese. Tibet e Mongolia proclamano quindi la loro indipendenza da Pechino. La Mongolia viene occupata dalla Russia sovietica nel 1919. Il Tibet conserva la sua indipendenza fino a quando viene occupata dalla Cina maoista nel 1950, nell’ambito della più vasta opera di costruzione della nuova Cina comunista: un bagno di sangue in cui affogarono milioni di persone: non solo tibetani, ma anche mongoli, uiguri e milioni di cinesi ‘controrivoluzionari’.

 

Vuol dire che la questione tibetana è solo un aspetto del più grande problema cinese?

Il problema vero è il modo brutale e retrogrado in cui il Partito comunista cinese gestisce il potere e tratta tutti gli abitanti del suo Paese, non solo i tibetani.

Trasformare il problema tibetano, che è un problema di forte identità culturale da tutelare e rispettare, in una ‘questione nazionale tibetana’ di indipendentismo significa stimolare corde pericolosissime che garantiscono una risposta schematica, repressiva e violenta, da parte delle autorità cinesi. Rischiano inoltre di aprire la strada a un secolo di guerre indipendentiste. Altro che effetto Kosovo!

 

Sta dicendo che le proteste anticinesi e pro-Tibet sono controproducenti?

Purtroppo è così. Urlare ‘Tibet libero’ significa fare un gran torto ai tibetani e un gran favore all’ottuso regime di Pechino il quale, per la sua natura di regime, non può avere altra reazione che quella di irrigidirsi nelle sue posizioni brutali e retrograde. Le proteste pro-Tibet che infiammano gli occidentali alla disperata ricerca di simboli e modelli per riempire un vuoto ideologico che nessun subcomandante Marcos può ambire a soddisfare, non risolvono il drammatico problema del comportamento tenuto dalle autorità cinesi negli ultimi sessant’anni. Anzi, semmai lo aggravano perché, quando viene attaccato dall’Occidente, il regime cinese si rafforza rinsaldando lo spirito patriottico contro ‘il nemico esterno’. Funziona così per tutti i regimi, da Castro a Ahmedinejad.