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28 luglio 2011

"Caschi verdi": il mondo non può aspettare
di Pietro Greco

La Russia non ne vuole neppure accennare. E persino la Germania, che per prima quattro anni fa ha posto il problema al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ne ha dichiarata prematura l’istituzione. Ma dei “caschi verdi” – o comunque li si voglia chiamare – sentiremo parlare nel prossimo futuro. Per il semplice motivo che ce ne sarà sempre più bisogno.

Per “caschi verdi” intendiamo una forza delle Nazioni Unite in grado di intervenire in caso di gravi emergenze ambientali (anche) per prevenire conflitti. Il tema è diventato di attualità a causa dei cambiamenti del clima, sempre più accelerati. Il previsto aumento della temperatura media del pianeta – che secondo l’IPCC, il gruppo di scienziati che lavorano per l’ONU, potrebbe progressivamente arrivare fino a 6 °C entro il 2100 – determinerà non solo drastici mutamenti ambientali. Ma anche sconquassi sociali. Il sistema agricolo sarà ridisegnato, il regime delle acque potabili sconvolto, ampi territori costieri diventeranno inabitabili, si verificherà in specifiche zone un deciso aumento della frequenza di eventi meteorologici indesiderati. Decine, forse milioni di persone saranno costrette ad abbandonare le loro case e diventeranno “environmental refugees”, profughi ambientali.

Il caos sociale e ambientale, rischia di trasformarsi in un caos politico e degenerare in conflitti a intensità più o meno elevata.

Certo, si tratta di previsioni. Di scenari sociali intrinsecamente incerti poggiati su scenari biogeofisici (i cambiamenti dl clima) a loro volta innervati di indeterminazione. Ma sono il meglio che la scienza, sociale e naturale, oggi sa mettere in campo. E, inoltre, in parte si stanno già realizzando. È per questo che sia David King, già consigliere scientifico del governo inglese, sia gli analisti della CIA, i servizi di intelligence americani, da una decina di anni definiscono i cambiamenti climatici «la più grave minaccia per la sicurezza» che l’umanità si troverà ad affrontare in questo XXI secolo. Superiore, persino, alla minaccia del terrorismo di Al Qaeda o al rischio di una guerra nucleare.

Ed è per questo che, quattro anni fa, la Germania ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di iniziare a discutere il tema. Magari pensando ad allestire un corpo – i “caschi verdi” – in grado di intervenire in caso di emergenza.

La Russia, come abbiamo detto, non ne vuol sentire parlare. Non vuole che venga accostato in un documento ufficiale il tema della pace globale al tema dell’ambiente globale. E la stessa Germania – per bocca del suo ambasciatore al palazzo di Vetro, Peter Wittig – giudica prematura la discussione sull’istituzione di un corpo. I “caschi verdi”, sostiene, devono dimostrare di essere qualcosa di diverso dai già esistenti “caschi blu”. Altrimenti si rischia un (costoso e inefficiente) duplicato.

Certo, l’ambasciatore ha ragione se qualcuno pensa ai “caschi verdi” che, fucile alla mano, si interpongono tra due paesi o due popolazioni che si contendono l’ultimo rivolo d’acqua dolce o lottano al confine per impedire che, dopo un’inondazione, milioni di “environmental refugees” si riversino in un’area tranquilla. Ma forse non è di militari, sia pure col casco verde, che ha bisogno l’umanità per affrontare le prossime emergenze ambientali.

Molti casi recenti – lo tsunami del 2004 in Indonesia; l’inondazione di New Orleans nel 2005; l’incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater nel Golfo del Messico, il terremoto di Haiti nel 2010 e l’inondazione del Pakistan nel 2010, l’incidente nucleare in Giappone nel 2011 – hanno dimostrato che, di fronte a gravi catastrofi ambientali e non, in molte aree del mondo manca un sistema di protezione civile in grado di intervenire con tempestività e professionalità sia per affrontare l’emergenza sia per gestire il dopo emergenza.

Ecco di cosa ha bisogno il mondo nel secolo del rischio climatico: di tecnici e ingegneri, di medici e di infermieri, in grado di intervenire in ogni parte del mondo in ogni situazione – per allestire un campo profughi, per portare soccorso alle vittime di un terremoto o di un’inondazione o di uno tsunami, per gestire un’emergenza nucleare o chimica – sapendo cosa fare e avendo i mezzi a disposizione per farlo. Ecco cosa dovrebbe essere un casco verde: l’elmetto per identificare un tecnico civile, ma preparato e ben allenato, di un sistema di “protezione civile globale”.

In quest’otica non è affatto prematuro parlare dei “caschi verdi”. Neppure in sede di Consiglio di sicurezza dell’ONU. Non sono state, forse, proprio le Nazioni Unite a sostenere che la più grave minaccia che incombe sul capo dell’umanità, i cambiamenti indesiderati del clima, va affrontata sia con la prevenzione (abbattendo le emissioni di gas serra), sia attraverso l’adattamento. E non è forse un sistema di protezione civile il modo migliore e meno costoso di adattarsi agli effetti più catastrofici del “climate change”?

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