da Il Mondo di Annibale
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Lunedì, 11 Aprile 2011

Da Naji a Juliano, lo stesso destino
di Giovanna Nigi

“L’Occupazione fa male a tutti, occupati e occupanti, ditegli di smettere”. Forse si potrebbe riassumere così il messaggio che l’arte, alle prese con gli orrori dell’occupazione, ha mandato sempre, dai tempi di Naji al-Ali fino a quelli di Julian. Fa male perché colpisce e ferisce la dignità dell’uomo. L’arte di Naji al-Ali ha creato Andala, il famoso bambino-testimone: con i suoi capelli radi è diventato il simbolo di un popolo, dei torti e degli orrori che ha patito: poi il suo autore è stato assassinato a Londra da un ignoto sicario ( in molti sostengono  che tanto ignoto non fosse, che fosse stato pagato dai  vertici dell’Olp, irritati dalla sue critiche a “lorsignori”). Ora hanno assassinato Juliano Mer Khamis: anche in questo caso non sappiamo da chi  e non è la nostra prima preoccupazione perché siamo sicuri del motivo, che è lo stesso per cui fu ucciso Ali: l’occupazione e i suoi derivati, estremismi e fanatismi, non sopportano l’arte e i suoi valori, che sono semplicemente quelli dell’uomo. Ma davvero Juliano aveva qualcosa in comune con Naji? Vediamo….

“Stiamo cercando di costruire un’idea differente. Siamo lontano da scopi commerciali o politici. Ogni piccolo passo qui è una rivoluzione, ogni gesto è un mattone verso la creazione di una cultura di accoglienza, in cui essere accettati con la nostra identità di spazio dedicato all’arte” diceva così Juliano Mer-Khamis.

Manifestazioni di cordoglio e di protesta si sono svolte un po’ovunque, nei territori palestinesi occupati, centinaia le persone che sono scese in strada ad Haifa, Jenin, Ramallah sotto lo slogan: “Juliano morto per la libertà”.

In un’intervista del 2009 rilasciata a “L’Arte come Re-Esistenza”, di Federica Battistelli, Laura Lanni e Lorenza Sebastiani  Juliano Mer, che aveva continuato con il Freedom Theatre l’opera della madre,  raccontava le sue difficoltà, il suo sentirsi non capito da una parte e dall’altra. Un destino, il suo, già segnato dalla nascita, con genitori ingombranti alle spalle,israeliana lei, palestinese lui, ex militanti del Partito Comunista e con un’idea fissa nella testa: uno stato unico e democratico su tutta la Palestina storica, in cui convivere con tutte le confessioni religiose, in armonia e rispetto. Come era il loro rapporto, solido e solidale, espressione compiuta di un’idea di felice convivenza.

Il Teatro della Libertà di Juliano, nel campo profughi di Jenin, era anche scuola di vita:

“Avevo deciso di lasciare la scena di quel bordello per prostitute che è Israele, e stavo cercando altri spazi. Non potevo più far parte della cultura israeliana, che non è una cultura, ma una copertura per lo sciovinismo e l’arroganza e l’intero apparato di oppressione e di occupazione. Hanno costruito uno scudo di semicultura per supportare le loro azioni.

Non si può dire che Israele sia un luogo di cultura. Sono tutte pecore, non c’è spirito critico, non c’è opposizione. Io dovevo starne fuori. Mi sono detto che non potevo collaborare con questo sistema. Così ho deciso di aprire il teatro a Jenin. Questo ha anche degli aspetti tragici per me. Arrivare in un posto in cui il rispetto della tradizione religiosa impone regole oppressive nei confronti della donna, non è facile. Io non sono felice qui. Ma qui sto lottando con i miei amici. L’amicizia che abbiamo costruito, le relazioni che stiamo creando sono più forti del progetto in se stesso. Questo è quello che accade sempre all’inizio di un processo di cambiamento o di rivoluzione…”

Un processo ostacolato da molti, da ogni parte, un discorso difficile,il più complicato, quando far parlare le armi sembra tanto più ovvio…

Mer usava il teatro come arma, e come vendetta:

“Fare teatro a Jenin e’ la mia personale vendetta contro la politica israeliana, la gente, il governo, il paese. Ero molto arrabbiato e frustrato. La mia vendetta e’ stata ricostruire ciò che loro avevano distrutto.”

Le sue conclusioni spiegano probabilmente perché non si sa chi lo ha ucciso:

“Tutte le difficoltà di cui parlo sono il risultato diretto dell’occupazione. È vero, accade in altri Paesi, ma sono anch’essi occupati, e forse in misura maggiore che qui. Iraq, Iran, Egitto: sono tutte brutali occupazioni, prodotti dell’imperialismo americano e della corruzione delle leadership arabe.  Siamo arenati tra l’arroganza insostenibile degli israeliani e una società islamica tradizionalista…E siamo in un grosso dilemma… Ci adattiamo, perché la società ci accetti o andiamo a fondo ai problemi che la attanagliano rischiando così le nostre vite? Noi abbiamo deciso di rischiare, ma i risultati non sono così evidenti, perché stiamo procedendo molto lentamente.”

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