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Scritto il 24/2/11

Lo spettro di Tienanmen: la Cina teme la Rivoluzione araba

La Cina ha paura della “rivoluzione dei gelsomini” che sta spazzando via le dittature post-coloniali del Mediterraneo: Pechino in questi giorni blocca in anticipo proteste, dispone limitazioni al web, impedisce manifestazioni di sostegno ai giovani libici che lottano contro i colpi di coda del sanguinario regime di Gheddafi. La paura ha un nome tristemente noto: Tienanmen. Proprio nella “piazza della pace celeste”, oggi sinistramente evocata dal tiranno libico in agonia, il regime comunista guidato allora dall’anziano Deng Xiaoping ordinò la brutale repressione degli studenti democratici, sgombrati coi carri armati in un bagno di sangue. Una tragedia rimossa, il cui spettro continua però a inquietare il Dragone cinese, ora che nel mondo arabo – forziere petrolifero del mondo – soffia forte il vento della libertà.

Era la primavera del fatidico 1989, Gorbaciov stava liberando l’Europa dell’Est e il suo tour trionfale lo portò a Pechino, dove gli studenti accampati da mesi nella capitale speravano di ricevere la benedizione politica definitiva dal prestigioso padre della Perestrojka. Sappiamo com’è andata: di lì a poco, il leader sovietico è stato rovesciato e la Russia “democratica” è finita tra le grinfie dei predoni russi e americani alla corte di Eltsin, con lo spaventoso corollario delle atroci guerre in Cecenia. Chi aveva puntato tutto sulla democrazia è stato abbandonato dal popolo, mentre i cinesi – che la democrazia studentesca l’avevano repressa col sangue per proteggere il miracolo economico promosso proprio da Deng, a suo tempo eroicamente capace di resistere al delirio maoista – hanno posto allora le basi per la Cina di oggi, prima potenza planetaria del terzo millennio.

Potenza dai piedi d’argilla? Finora Pechino ha sempre rimosso il massacro della Tienanmen, una carneficina di cui non si conosce l’esatto bilancio: 800 morti per la Cia, 2.600 per la Croce Rossa, da 7 a 12.000 per altre fonti, più almeno mille “giustiziati per ribellione” secondo Amnesty International. Ora che la Cina tiene in piedi l’economia mondiale, sorregge l’Impero americano sostenendone il pauroso debito e accorre anche in Europa come salvatrice della pericolante finanza spagnola e portoghese, resta sempre quell’antico nodo irrisolto: nel più grande paese del mondo, alle prese con una crescita economica e demografica esplosiva, la strage della Tienanmen continua a ricordare che il Dragone ha finora rinviato problemi essenziali come diritti umani e democrazia.

Per questo, oggi, la dirigenza cinese guarda con crescente apprensione alle sorprendenti rivolta a catena innescatesi in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente, aree fino a ieri “commissariate” dall’Occidente attraverso dittature post-coloniali. «Il governo della Cina – scrive Enrica Garzilli il 23 febbraio sul “Fatto Quotidiano” – ha paura che anche nel paese scoppi la Rivoluzione dei gelsomini e ha bloccato sul nascere la protesta organizzata ieri da gruppi di persone a Pechino, Shangai, Guangzhou e in altre dieci grandi città». Sabato scorso, parlando ai leader regionali nella scuola centrale del partito, il presidente Hu Jintao ha insistito sulla necessità di «controllare più da vicino Internet» e di «guidare l’opinione pubblica».

Senza accennare direttamente ai disordini e alle rivolte che stanno scuotendo l’Egitto, il Medio Oriente, il Bahrain e la Libia, il numero uno di Pechino ha detto che, nonostante la Cina stia diventando sempre più prospera, deve anche affrontare un acuirsi dei conflitti sociali che mette a dura prova l’abilità del partito di tenere tutto sotto controllo. «Il giorno dopo il discorso di Hu Jintao – continua “Il Fatto” – il governo ha bloccato le conversazioni telefoniche e i siti web che incitavano il popolo a ribellarsi ed emulare la Rivoluzione dei gelsomini». Il primo messaggio è apparso su Boxun.com, il sito di una comunità cinese virtuale creata da Watson Meng: è il primo esempio di giornalismo partecipativo in Cina e, come fonte alternativa di notizie, è riuscito comunque a pubblicare il video della piccola manifestazione organizzata a Pechino.

L’appello che circolava in Rete è rimbalzato attraverso alcuni siti oltreoceano gestiti da attivisti cinesi fuoriusciti. Il messaggio diceva: “Tu e io siamo il popolo cinese che ancora ha un sogno per il futuro. Dobbiamo agire responsabilmente per il futuro dei nostri figli”. I manifestanti avrebbero dovuto gridare gli slogan “Vogliamo il cibo”, “Vogliamo una casa”, “Vogliamo giustizia”, “Viva la libertà” e “Viva la democrazia”. Richieste sia per migliorare le condizioni di vita materiale, quindi, sia per il rispetto dei diritti umani. «Il governo cinese ha preso questo tentativo di rivolta molto seriamente», sostiene Enrica Garzilli. «L’Information Centre for Human Rights and Democracy di Hong Kong ha calcolato che oltre 100 attivisti sono stati portati via dalla polizia, oppure messi agli arresti domiciliari o semplicemente spariti».

Spairizioni a cui si aggiungono quelle degli avvocati incarcerati la settimana scorsa, durante una riunione per decidere come aiutare Cheng Guangcheng, l’attivista messo illegalmente agli arresti domiciliari dopo quattro anni di carcere per aver denunciato oltre 7.000 fra sterilizzazioni e aborti forzati da parte del governo. Twitter cinese, continua “Il Fatto”, ha anche bloccato la ricerca della parola “gelsomino”: ad ogni tentativo di includerla nelle pagine personali dei social network, appare un messaggio che invita a non postare “messaggi inappropriati”. La parola non si può neanche cercare sui vari motori di ricerca.

Per questa volta, osserva la Garzilli, la Rivoluzione dei gelsomini cinese sembra sventata, anche se qualche piccolo spiraglio di apertura si intravede da parte delle autorità: diversamente dal solito, l’organo del governo Xinhua ha riportato la notizia che la polizia ha gettato in prigione tre persone dopo l’assembramento di protesta a Piazza del Popolo a Shangai, nel centro nevralgico della città. L’avvocato dei diritti umani Pu Zhiqiang ha dichiarato che è molto difficile che il governo cinese cambi, ma che quello che è successo mostra delle trasformazioni nella società cinese e «unisce e fortifica la mente delle persone». Soprattutto, mostra che i politici possono controllare dei dissidenti, ma non possono impedire che la gente si unisca per un fine comune, perché queste riunioni sono organizzate spontaneamente e non dall’alto.

Il tentativo di organizzare una Rivoluzione dei gelsomini in Cina, benché senza grandi conseguenze sul piano politico e sociale, secondo Enrica Garzilli indica due novità importanti: intanto, dimostra che la Cina non è impermeabile alla tendenza globale di richieste di miglioramento delle condizioni di vita che investe i paesi arabi. La Cina «non è più un paese a sé stante, aperto solo commercialmente al resto del mondo ma chiuso socialmente e politicamente in sé stesso: il popolo recepisce le esigenze di cambiamento di altri paesi e le fa proprie, come se l’esempio che viene da fuori desse la stura a far sentire la propria voce».

L’altro fatto degno di nota è l’impatto di Internet, che in Cina conta oltre 450 milioni di utenti, sulle aspirazioni dei cittadini. È cominciato nel 2008 con la protesta dei tibetani di Lhasa, che viaggiava su Web, e continua ancora. «Se il governo centrale non si aprirà a delle riforme sostanziali a beneficio non solo di tibetani, uighuri e attivisti del Falun Gong ma anche dei cittadini comuni – sostiene la Garzilli – la stabilità sociale della Cina sarà sempre più minata e a niente servirà oscurare i siti, interrompere i collegamenti col cellulare o impedire il libero uso dei social network». Lo si è già visto in Nepal nell’aprile 2006: quando i tempi sono maturi la protesta dei gruppi di militanti, anche se duramente repressa, corre anche su Web e diventa rivoluzione popolare: a quel punto, niente e nessuno riesce più a fermare i venti del cambiamento.

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