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Sabato, 17 luglio 2010

Verità filosofica e critica sociale
di C. Preve

La modernità borghese-capitalistica non sa che farsene della verità (che gli antichi concepivano in modo filosofico ed i medioevali in modo religioso) per il semplice fatto che la legittimazione simbolica della società capitalistica non è più di tipo filosofico (la verità come prodotto della ragione umana) o di tipo religioso (la verità come corretta interpretazione della natura di Dio), ma è di tipo integralmente economico. Il fondamento è allora il nesso fra proprietà privata e valore di scambio delle merci (con il lavoro umano come prima merce), e questo fondamento per sua natura non è veritativo, in quanto basta accertarsi del fatto che non c'è nulla di empiricamente accertabile al di la della proprietà privata e del valore di scambio. La metafisica è cosi integralmente trasformata nel nesso fra empirismo ed utilitarismo, l'ontologia diventa gnoseologia, la gnoseologia diventa la nuova teologia del capitalismo e degli apparati universitari normalizzati (Lukacs) ed al posto della vecchia trinità viene insediata la separazione fra categorie dell'essere (ontologia veritativa) e categorie del pensiero (epistemologia accertativa).

Il discorso sarebbe lungo e qui è appena cominciato. In sintesi, se qualcuno pensa di poter parlare di verità filosofica, e nello stesso tempo accetta il terreno del kantismo, del positivismo e del niccianesimo, ebbene, costui si sbaglia, ed è come un topolino che, attratto dal pezzo di formaggio, si chiude nella gabbia da solo.
Sostenere apertamente che la filosofia è una ideazione integralmente veritativa in senso classico platonico-hegeliano (e non scettico-relativistico) e darne anche una formulazione determinata (come ho fatto in precedenza) provoca immediatamente sconcerto ed irritazione, non solo perché viola la regola postmoderna (il postmoderno sta ai sofisticati intellettuali disincantati come Padre Pio sta al popolo dei semplici credenti rimasti fermi alla scuola dell'obbligo), ma anche perché sembra un atto di presunzione tipico di chi “ritiene di avere la verità in tasca”, e magari la vuole anche imporre con inevitabili esiti autoritari e violenti. Ma non è affatto cosi. Ad esempio io ritengo che la filosofia sia una ideazione conoscitiva e veritativa, e non mi sottraggo opportunisticamente dal darne una formulazione pubblica, ma non ritengo affatto di avere la verità in tasca, ed anzi sono dispostissimo a sottoporla ad una pubblica discussione seria ed approfondita. Semplicemente ritengo (in compagnia con i “classici” come Platone, Aristotele, Spinoza e Hegel) che senza una comune intenzionalità veritativa il cosiddetto dialogo non è che un torneo narcisistico di trovate retoriche più o meno brillanti.

La filosofia deve quindi essere liberata da due gendarmi che la tengono ammanettata, la scienza naturale e l'ideologia politica. La scienza naturale è una grande ideazione conoscitiva, che però comprende soltanto la conoscenza e non la valutazione morale della totalità (totalità che l'approccio kantiano e poi positivistico valuta come inconoscibile). La filosofia è una interpretazione olistica della totalità, non un rispecchiamento delle caratteristiche della natura astronomica, fisica, chimica o biologica, e la sua sottomissione ai canoni del rispecchiamento scientifico la uccide, come un pesce verrebbe ucciso dall'aria o l'uomo dall'acqua. La riconversione della verità in certezza del soggetto (Cartesio, Kant, positivismo) oppure la riduzione della verità a semplice interpretazione (Nietzsche ed il postmoderno) non sono semplici “errori” ma sono funzioni strutturali e sistemiche della riproduzione capitalistica, che non ha bisogno della verità ed anzi la aborre, bastandole la relatività del potere d'acquisto delle merci da parte dei soggetti individualizzati.

L'ideologia è invece una patologia diversa dalla precedente. Mentre il relativismo nasconde l'assolutezza della merce e del suo dominio, l'ideologia generalmente è solo una teologia della storia divinizzata, per cui alla fine la stessa storia non esiste più, e come ha detto un acuto commentatore novecentesco, si ha “una storia spogliata della sua forma storica”. In proposito, il congedo meditato dal dominio ideologico è sempre una precondizione necessaria (anche se non sempre sufficiente) per un ritorno alla filosofia correttamente intesa. L'ideologizzazione della filosofia è però stata una peste novecentesca, oggi tramontata, per cui, pur respingendola in modo netto (personalmente, sono un “sopravvissuto” dalla riduzione ideologica della filosofia effettuata nel novecento dal marxismo, e mi considero vaccinato come lo era dalla peste Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi), non la considero oggi un nemico pericoloso nella congiuntura storica attuale (2010). Oggi il nemico principale della filosofia è la sua riduzione positivistica a semplice supporto epistemologico alle scienze della natura (che per procedere non ne hanno comunque nessun bisogno), patologia gemella a quella del chiacchiericcio scettico-universitario di tipo nichilista e relativista. Senza un ritorno ai classici non vedo per ora nessuna salvezza.



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