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Counterpunch
02.12.2011

Occupy il Pianeta Terra
di Nafeez Mosaddeq Ahmed
Traduzione di Davide Illarietti

Il movimento Occupy è la più potente manifestazione di resistenza pubblica e disobbedienza civile che abbia preso piede in Occidente dagli anni '60. E come risposta, ha provocato una militarizzazione della violenza di Stato senza precedenti. Negli Stati Uniti l'utilizzo di gas lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di plastica è stato impiegato – deliberatamente e brutalmente – contro civili che esercitavano il loro diritto a manifestazioni pacifiche: solo e soltanto per ragioni di "ordine pubblico". Più che mai l'insistenza della gente nel reclamare spazi pubblici in opposizione all'ingiustizia di cui è responsabile il proverbiale 1% della popolazione mondiale sta tirando giù la maschera allo stato democratico per rivelare il dominio incontrastato del denaro e delle armi su cui il suo potere si fonda. 

Rispetto ad altre proteste del XX secolo, il movimento Occupy si distingue per spontaneità, assenza di leader e per la sua proliferazione globale nelle strade di tutte le più importanti città industriali del Nord. La forza propellente di Occupy, tuttavia, non deriva soltanto dall'incedere della recessione globale, anche se il ruolo di quest'ultima non va sottovalutato. Piuttosto, la determinazione dei cittadini a occupare luoghi pubblici strategici è ispirata da una convergenza di percezioni comuni.

La maggioranza delle persone oggi ha una visione dei governi occidentali e della natura del potere tali che ne avrebbero fatto degli emarginati sociali dieci o venti anni fa. Si tratta di persone scettiche sulla guerra in Iraq, convinte del ritiro delle truppe dall'Afghanistan, risentite nei confronti delle banche e del settore finanziario responsabile della crisi, sono consapevoli delle questioni ambientali come mai prima d'ora. Nonostante la confusione negazionista promulgata dalle lobby petrolchimiche, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna la maggioranza delle persone è seriamente preoccupata per il surriscaldamento globale; è stanca della prassi della politica partitica e delusa dal sistema parlamentare dominante, con il suo continuo susseguirsi di scandali su scandali. In altre parole, su tutta una serie di questioni si è avuto uno spostamento dell'opinione pubblica verso una critica dell'attuale sistema politico-economico. Si tratta, certo, di un fenomeno per lo più subliminale, non elaborato, e manca di una visione coerente di cosa sia necessario fare, ma senza dubbio questo spostamento c'è stato e diventa sempre più profondo. La gente si fa sempre meno illusioni sulle strutture socio-politiche dominanti. Ha sete di alternative. E tuttavia non ne trova nessuna a portata di mano, nessun meccanismo che dia veramente espressione alle voci di dissenso. Cosa resta da fare, allora, oltre alla semplice occupazione di suolo pubblico nel tentativo di reclamare, in qualche modo, del potere?

Civil Contingencies: i preparativi dello Stato per la contro-insurrezione

Eppure, fin dai primi colpi della recessione globale nel 2008, l'"uno per cento" di cui dicevamo – o parte di esso – era ben consapevole che una delle conseguenze immediate sarebbe stato il riversarsi dei cittadini in strada. E sono stati fatti dei preparativi.

Sul finire del 2008 un promemoria interno emanato da Citigroup, membro della Us Bank e della Federal Reserve, firmato dal responsabile delle strategie tecniche Tom Fitzpatrick, avvisava di un "crescente deterioramento finanziario, causa di un ulteriore deterioramento economico, in un circolo vizioso" il quale "porterà a instabilità politica […] alcuni capi di stato sono oggi ai minimi di popolarità. C'è rischio di rivolte interne, a cominciare dagli scioperi, perché la gente si sente privata del diritto di poter decidere di sé stessa.”

Cosa fare? Una risposta è quella avanzata dall’US Army Strategic Studies Institute nel dicembre di quell'anno, in un rapporto che sollecitava l'esercito americano a prepararsi per un "dislocamento strategico all'interno degli Stati Uniti" che sarebbe stato giustificato da "imprevisti dissesti economici", "mancanza di un ordine politico e giuridico" e "resistenza decisa e insurrezione interna", assieme a altre minacce. Il rapporto prospettava la necessità di impiegare risorse del Dipartimento della Difesa "al servizio di autorità civili per contenere e sovvertire minacce di violenza alla pace civile" e contemplava "l'uso di forze armate […] contro gruppi ostili all'interno degli Stati Uniti". Il nobile scopo di tale militarizzazione è, naturalmente, quello di "restaurare l'ordine pubblico e proteggere popolazioni minacciate", da sé stesse, a quanto sembra.

In modo analogo, in Gran Bretagna dal 2004 il governo si è arrogato poteri straordinari per mezzo del semi-sconosciuto Civil Contingencies Act, un decreto per le situazioni di emergenza.

Il decreto spianò la strada alla nascita di uno stato totalitario. Con i poteri conferitigli, il governo può proclamare lo stato d'emergenza a propria discrezione senza una consultazione pubblica o un voto parlamentare. E una volta proclamato lo stato d'emergenza, entrano in gioco strumenti di potere di ogni tipo. I ministri possono introdurre nuove leggi, "normative d'emergenza" tramite la Prerogativa Regale, senza ricorrere al Parlamento. Tali leggi possono andare dalla confisca della proprietà privata al divieto di proteste e assemblee pubbliche di qualsiasi tipo, all'istituzione del coprifuoco, al divieto di spostamento, all'impiego dell'esercito su suolo britannico e così via: isolamento di intere città, chiusura di siti internet, censura dei media. Quel che è peggio, lo Stato può permettersi di classificare come offesa qualsiasi comportamento a propria discrezione.

Il problema è che il decreto non ha niente a che vedere con emergenze reali. Secondo la rivista della British Association of Public Safety Communication Officials, il governo è del tutto privo di "chiare direttive, fondi specifici, apparati normativi" utili a preparare il Paese a concrete emergenze o scenari disastrosi. La pubblicazione chiede, a ragione: "Se il Governo è realmente intenzionato a proteggere la nazione, come mai i ministri non stanno impiegando i poteri forniti loro dal Civil Contingencies Act per monitorare preventivamente le condizioni effettive di preparazione dello stato?"

La nuova guerra transnazionale tra le classi

È una domanda intelligente, perché l'insieme delle misure di prevenzione da parte dei governi occidentali nei confronti degli "imprevisti domestici" si è focalizzata in modo del tutto sproporzionato sulla centralizzazione e il consolidamento di poteri militari e degli apparati di polizia. Perché? Per farsi un'idea di che razza di ideologie retrograde alberghino nelle menti che dirigono il Dipartimento della Difesa, vale la pena di dare un'occhiata al rapporto 2007 del Ministero della Difesa americano. Il rapporto, steso dagli strateghi del Mod'Defence Concepts and Doctrines Centre – un think-tank militare responsabile della pianificazione di iniziative – mette in evidenza che entro il 2035 la popolazione mondiale raggiungerà probabilmente gli 8,5 miliardi di persone, un aumento riconducibile per il 98% ai paesi sottosviluppati. Il rapporto riconosce che questo enorme incremento della popolazione avrà luogo in un contesto di enormi tensioni mondiali dovute a crisi economiche, energetiche e ambientali.

Cosa interessante, le previsioni contenute nel rapporto si focalizzano sulla cosiddetta "preminenza giovanile", con circa l'87% delle persone sotto i 25 anni concentrate nel Sud sottosviluppato. In particolare, si fa notare che la popolazione in Medio Oriente aumenterà del 132% e nell'Africa Sub Sahariana dell'81%. Si tratta di regioni a maggioranza musulmana. Di qui il rapporto avverte del pericolo che l'acuirsi delle crisi globali possa fungere da propellente per la militanza musulmana: "Le aspettative di un numero sempre maggiore di giovani in queste regioni, molti dei quali dovranno fare i conti con prospettive di disoccupazione endemica, difficilmente saranno soddisfatte. Il dilagare dello scontento tra fasce sempre più larghe della popolazione giovanile nei confronti di regimi non democratici sarà canalizzata nella militanza politica, compresa quella d'ispirazione islamica radicale, il cui concetto di Umma, la comunità islamica globale, e di resistenza al capitalismo si troverebbero a cozzare con un sistema internazionale basato su stati-nazione e flussi globali di mercato.” Ma il rapporto non si ferma qui. Prosegue individuando un pericolo di radicalizzazione non solo nel Sud, ma anche nel Nord, e prospetta la possibilità di una rivoluzione mondiale delle classi medie: “Le classi medie potrebbero diventare la fascia sociale più propensa alla rivolta, assumendo lo stesso ruolo che Marx destinava al proletariato." Ciò potrebbe avvenire su scala transnazionale, grazie al sempre crescente divario tra un'élite di super-ricchi e le classi medie, e alla nascita di una sotto-classe urbana. “Le classi medie di tutto il mondo potrebbero unirsi, utilizzando il loro accesso a conoscenze, risorse e capacità per dare forma a processi internazionali nell'interesse della loro condizione." Previsioni azzeccate, anche se leggermente in ritardo sulle date (di 24 anni, per la precisione).

Facciamo un passo indietro per un momento e riflettiamo su questo straordinario documento. Non solo problematizza il dato della crescita demografica all’interno di particolari gruppi etnici e religiosi: demonizza anche qualsiasi possibile forma di resistenza alle strutture politico-economiche dominanti a livello globale. E lo fa individuando alcuni sintomi superficiali, a cui offre una risposta reazionaria e militarizzata, anziché individuarne le cause strutturali intrinseche all'organizzazione stessa del sistema globale.

Tutto questo sta per finire

Il sottinteso, inespresso assunto ideologico di questo genere di analisi è semplice: l'attuale ordine politico-economico globale deve essere sostenuto, mantenuto, perpetrato a ogni costo; non può essere soggetto a riforme profonde e strutturali, perché è già perfetto: siamo già arrivati a quella che Francis Fukuyama chiama “la Fine della Storia”, "la vittoria incontrastata del liberalismo politico-economico" in Occidente, e "il punto di arrivo dell'evoluzione ideologica del genere umano" che spazza via ogni possibilità di alternativa al capitalismo neo-liberista. Di conseguenza, la resistenza al neoliberismo è delegittimata e merita di essere soppressa senza rimorsi.

Ma Fukuyama si sbagliava di grosso. Al momento siamo davanti non a una semplice crisi, ma a una convergenza di molteplici crisi globali: finanziaria, idrica, alimentare, bellica e terroristica. Ognuna di queste non è che un sintomo di una più profonda Crisi della Civiltà. Persino l'International Energy Agency stima che non rimangano più di cinque anni all'inizio di un'era imprevedibile di stravolgimenti climatici pericolosi e irreversibili che renderanno il pianeta inabitabile, dominato da una macchina industriale che lavorerà per la crescita economica illimitata a beneficio di una sparuta élite contro i bisogni della stragrande maggioranza della popolazione umana.

La Primavera Araba nel Medio Oriente e il movimento Occupy in Occidente sono, in questo contesto, rivolte popolari contro un suicidio collettivo di portata planetaria; i primi colpi mortali inferti a una forma di civiltà vecchia e malfunzionante. La natura stessa della nostra civiltà – e della sua traiettoria inarrestabile verso l'autodistruzione ecologica e economica – viene ora messa in dubbio assieme alle sue idee di vita, al suo ambiente, al sistema di valori e il modo in cui questi sono strettamente collegati alle sue forme socio-politiche, economiche e culturali.

E tuttavia quello che abbiamo sotto gli occhi non è semplicemente una civiltà sull'orlo del collasso, ma un processo di transizione, i cui esiti finali sono ancora imprevedibili.

Per la prima volta nella storia dell'umanità affrontiamo una crisi di civiltà di proporzioni realmente planetarie. Inoltre, assistiamo all'autodistruzione di una civiltà industriale basata sullo sfruttamento, destinata a collassare nel giro di pochi decenni, di certo entro la fine di questo secolo. Con ciò, abbiamo una possibilità senza precedenti nella storia di sviluppare modi diversi di vivere, agire, essere – in senso economico, politico, culturale etico, persino spirituale – che sono d'un tratto, almeno in potenza, molto più compatibili con la prosperità e il benessere del genere umano di quanto si potesse finora immaginare.

Per fare questo è necessario sfruttare al massimo l'energia e l'entusiasmo del movimento Occupy in modo da sviluppare anzitutto una diagnosi critica coerente della natura del problema e, su tale base, un quadro coerente di azioni alternative. Dobbiamo lavorare all'unisono per dimostrare l'efficacia e superiorità di alternative sociali, politiche, economiche, culturali e etiche. Su questi modelli dobbiamo improntare il nostro agire, ma dobbiamo anche sviluppare modi nuovi di presentare i modelli stessi, diffonderli, educare comunità e istituzioni. Con un approccio critico, dobbiamo analizzare il modo in cui le comunità, in particolare quelle più emarginate, potrebbero adeguarsi a questi modelli nelle contingenze presenti. Per iniziare a creare un reale cambiamento che parta dalle radici, dal basso verso l'alto. Come possiamo lavorare insieme per sviluppare forme partecipative di cambiamento economico? Come far sì che le risorse comunitarie a livello locale siano al riparo da eventuali shock energetici, diventando più autosufficienti nella produzione decentralizzata di energie rinnovabili? Come acquisire le conoscenze necessarie a produrre il cibo che mangiamo e a dipendere di meno dalle reti internazionali – inique e capricciose – dell'industria agricola? Come costruire nuove strutture politiche e culturali a livello locale che possano rendere sempre meno influente la piramide dello Stato militarizzato?

Scendere nelle strade e occupare luoghi pubblici sono azioni importanti, ma da esse dovrebbero germogliare i modelli di quella trasformazione sociale che il 99 per cento di noi può iniziare a esplorare, in dialogo gli uni con gli altri e persino con quell'1 per cento di cui contestiamo il monopolio. Perché queste energie popolari non possono rimanere prive di analisi accurate e l'attivismo deve puntare nella direzione giusta, non solo a quell'1 per cento, ma al più vasto sistema economico, ideologico ed etico che ne consente l'esistenza e che segna la via autodistruttiva che, al momento, stiamo tutti seguendo.


Il dr. Nafeez Mosaddeq Ahmed è Executive Director dell'Institute for Policy Research & Development. Blog: The Cutting Edge. Ultimo libro, A User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It (Pluto/Macmillan, 2010), è alla base del documentario The Crisis of Civilization (2011), largamente acclamato dalla critica.

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Fonte: Occupy Planet Earth

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