Di spari, di morti, di bombe. Di terra, di libertà, di straordinaria forza.
di Paola Manduca
Prof. Genetics

 

Striscia di Gaza - Di mestiere ha fatto il contadino per 35 anni, si chiamava Shaban Mohammed Shaker Karmoot, classe 1964. Un tempo sulla sua terra a Beit Hannoun crescevano olivi, palme e limoni, poi una notte sono arrivati i carri armati israeliani e li hanno sradicati. Hanno aperto un varco su un muro della sua casa, hanno demolito la casa dei vicini davanti ai suoi occhi. Aveva 12 figli, nonostante quello che gli era successo aveva piantato nuove verdure ed alberi e si recava a coltivare la sua terra tutti i giorni, arrivava al campo alle sei e mezzo del mattino e tornava a casa alle quattro e mezzo del pomeriggio. Anche il 10 gennaio ci è andato, però non è tornato a casa perché gli hanno sparato: un colpo al collo, uno al petto ed uno all'addome. C'era l'intento di uccidere da parte di chi sparava, e Shaban è morto. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni. Le forze di occupazione non sono riuscite ad incatenarlo con la paura degli spari e delle incursioni, e per impedirgli di coltivare hanno dovuto sparargli.

Il 4 Gennaio quattro bulldozer israeliani sono entrati nell'area vicina al confine nei pressi di Khuza'a, al sud della striscia, protetti da nove carri armati, due elicotteri Apache, due F16 e diversi droni. Hanno distrutto 50 dunam di terreno e almeno 13 famiglie hanno dovuto temporaneamente abbandonare le proprie abitazioni. Però dopo sono tornate alle loro case, nonostante i buchi dei proiettili su alcuni muri.

“Fanno queste incursioni e per spaventarci e mandarci via da casa nostra. Vogliono convincerci che ci sarà un'altra guerra e ci vogliono allontanare dalle nostre case in modo da poter fare ciò che vogliono senza ostacoli e senza testimoni. Ma noi non lasceremo le nostre case, questa è la nostra terra e noi rimarremo qui fino a che potremo.” (Shatha Abu Rjela)

Questa nuova guerra, però, sembra tristemente vicina: i due episodi sopra descritti sono solo un esempio di come sia evidente un'escalation nelle violenze israeliane. In dicembre, il primo ministro israeliano Silvan Shalom ha dichiarato che Tel Aviv dovrà “rispondere e rispondere con tutta la nostra forza” nel caso in cui i combattenti per la resistenza palestinese non smettessero di lanciare i loro missili fatti in casa. 

Secondo Ilan Pappe, noto storico ed intellettuale di origini israeliane emigrato in Inghilterra: “C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua  popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di  tempo più breve. […] Lo scenario per il prossimo round si sta schiudendo davanti  ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in  via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa:  bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di  provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. […] È ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore DOPO il  massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare di  prevenire il prossimo.”

Ogni giorno a Khuza'a si sentono spari provenienti dalla torretta di controllo, ed ogni giorno o quasi i soldati israeliani sparano a contadini e pastori vicino al confine, causando gravi ferite quando non la morte del lavoratore in questione. Diverse volte al giorno i droni , gli F16 e gli Apache volano in cielo, e questi, quando non scaricano bombe, portano con sé un carico di oscuri ricordi e paura. La vita stessa di questi uomini, donne e bambini, è resistenza. È un grido che non vuole sottostare al giogo dell'occupazione. È un esempio di straordinaria forza. Ed è il momento, per coloro che dichiarano di amare la libertà, di compromettersi. Per prevenire la prossima guerra, ma prima ancora per supportare queste persone nella loro quotidiana resistenza.

In effetti tutto ciò di cui ho parlato ha a che fare con la libertà e non con la ricchezza. Non è un problema di elemosina, il punto non è che questa gente ha bisogno di aiuti materiali. Il problema è politico. Rivedo gli occhi fermi, decisi, quasi severi di Taragi, madre di 5 ragazze, con il marito in carcere e la casa ad un chilometro dal confine: “L'esercito israeliano ha invaso le terre che coltivavamo e le ha rese aride, ma non vogliamo aiuti economici per questo. Non vogliamo assistenza psicologica per i traumi causati dai soldati israeliani, dai loro bulldozer, dai loro proiettili, dai loro carri armati, dai loro Apaches, F16 e droni. Non vogliamo ne' soldi ne' psicologi. Noi, vogliamo che i soldati israeliani se ne vadano. Vogliamo non avere paura dei loro spari. Vogliamo vivere nella nostra terra. Vogliamo essere libere.”

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