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19 agosto 2011

Dopo un’estate a parlare di welfare
in Israele torna la violenza
di Paola Caridi

Era stata una strana estate. Una di quelle rare, in cui in Israele non si discuteva di Iran, di sicurezza, di Hamas e Gaza. Ma di carovita, di affitti alle stelle e di formaggio rincarato. Certo, c’era la questione dello Stato di Palestina, della richiesta di riconoscimento del proprio Stato che i palestinesi vogliono portare all’Onu. Era, però, una questione tutta conchiusa dentro i circoli della politica. La società israeliana, quest’estate del 2011, aveva deciso di portare all’attenzione dei propri governanti altri problemi: il welfare, la sempre più evidente frattura sociale, la perdita del potere d’acquisto della classe media. Le tende della protesta a Tel Aviv, le piazze che si riempiono di dimostranti. Centomila, centocinquantamila, trecentomila. E il governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu che cerca di frenare l’onda della protesta, istituisce una commissione d’inchiesta sul carovita, promette di fare qualcosa.

Poi, nella calura estiva, in pieno deserto del Negev, giù a sud, la protesta delle tende lascia il posto di nuovo al sangue. Otto morti, decine di feriti in una raffica di attentati ancora dai contorni confusi. Chi sono gli attentatori? Partono da una Gaza sotto assedio, o fanno parte di quel magma che nel Sinai ha dato via a uno scontro mai sopito tra la popolazione locale (in gran parte beduina) e i servizi di sicurezza egiziani? I vertici militari israeliani sono sicurissimi: tutto ha avuto origine da Gaza, dice il ministro della difesa Ehud Barak. Parte subito la rappresaglia: i raid degli aerei di Tel Aviv colpiscono da ieri bersagli a sud della Striscia di Gaza. Vengono uccisi figure importanti dei Comitati di Resistenza Popolare, il ‘cartello’ dei gruppi armati che da anni si è costituito, con militanti che provengono da settori diversi. Non solo e non tanto da Hamas. Il bilancio delle vittime è alto, comprende civili, comprende ragazzini, civili. Di nuovo come prima. Botta e risposta. Si torna a parlare di armi, violenza, sangue, sicurezza.

Armi, violenza, sangue, sicurezza. La cronaca ‘militare’ non basta, però, a spiegare la complessità del conflitto. Perché questa è una strana estate. Due giorni prima dell’attentato, dal Cairo, era arrivata una notizia singolare. Di quelle che non giungono al grande pubblico, e che invece interessano gli esperti. L’intero stato maggiore politico di Hamas era arrivato in Egitto: il numero uno Khaled Meshaal, il numero due Moussa Abu Marzuq, gli esponenti più importanti dell’ufficio politico di stanza a Damasco. In tutto, una delegazione di dodici persone. Perché? Le indiscrezioni hanno subito dato la lettura: si è riaperto il dossier dei prigionieri, si potrebbe arrivare alla liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit in cambio della liberazione di centinaia di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. È una trattativa che va avanti da anni, ormai, in una litania senza fine di aperture, colpi di teatro, indiscrezioni, buchi nell’acqua. Stavolta, però, sia da parte del governo israeliano sia da parte di Hamas arrivano le conferme. Le posizioni si sono ammorbidite. Soprattutto quella di Tel Aviv, disposta – sembra – a liberare detenuti arabo-israeliani e di Gerusalemme est. Anche sulla questione dell’esilio di molti dei detenuti da liberare ci potrebbero essere delle aperture. Il tam tam continua, si dice che al Cairo sia anche arrivato il numero uno dell’ala militare di Hamas, Ahmed Jaabari.

E intanto si affiancano altre ipotesi. Hamas ha un problema serio, a Damasco. Mentre Bashar el Assad prosegue in una repressione sempre più violenta e sanguinosa, che coinvolge ora come vittime anche i palestinesi dei campi profughi, Hamas deve necessariamente pensare al proprio ruolo in Siria. Damasco appare sempre più instabile. L’ufficio politico del movimento islamista palestinese potrebbe spostarsi altrove. Forse dividersi in tre o quattro tronconi e ricollocarsi in altre capitali. Da Doha al Cairo. E forse anche in Turchia. Situazione complicata, insomma, per Israele, per Hamas, per la Siria. E anche per l’Egitto, che sotto il regime di Hosni Mubarak non è mai riuscito a controllare il Sinai, come dimostrano i terribili attentati contro le località turistiche degli ultimi sette anni. Taba, Sharm, Dahab. In questo quadro complicato, il deserto del Negev diventa il teatro di una singolare catena di attentati, in una calda mattina d’agosto. Chi li ha compiuti? E soprattutto, perché? Frange di Al Qaeda nel Sinai, i gruppi salafiti che contestano Hamas dentro Gaza, lo scontento che alligna nelle popolazioni beduine del Sinai. Le ipotesi devono essere complesse, per poter fornire risposte. La superficialità delle analisi e delle conclusioni non serve a nessuno. Tantomeno alla pace.