Le Temps, Svizzera
17 agosto 2011 13.40

I poveri sono tanti, ma non interessano a nessuno
di Serge Dumont
Traduzione di Stefano Valenti

Nonostante gli sforzi, Odalia Baran, 36 anni, non è riuscita a racimolare abbastanza shekel per raggiungere una delle manifestazioni “per la giustizia sociale” organizzate il 13 agosto in dodici città israeliane a cui hanno partecipato almeno 80mila persone.

Questa ragazza madre, che tira avanti grazie a prestiti che non potrà mai restituire, è stata una delle prime ad accamparsi in strada per protestare contro la politica neoliberista del governo di Benjamin Netanyahu. Ma Kiryat Gat, la cittadina povera del sud di Israele dove vive con i suoi due figli, non è Tel Aviv e nessuno finora aveva dato peso alla sua protesta.

“C’è un abisso tra gli studenti di Tel Aviv che fanno festa nell’accampamento su viale Rothschild e le persone ai gradini più bassi della scala sociale che da anni cercano di non affondare”, dice Baran. “Quelli che sono qui con me (una trentina) non hanno neanche i mezzi per studiare”.

Sulla carta, Israele è un paese ricco. Il tasso di disoccupazione è del 5,9 per cento e la crescita annuale è a livello di quella delle potenze asiatiche. Le cifre, però, nascondono una realtà molto più dura. Il settore tecnologico, il vanto dello stato ebraico, comprende solo due o tre grandi aziende legate al ministero della difesa e circa 3.360 piccole e medie imprese, che impiegano 198mila israeliani su una popolazione complessiva di 7,5 milioni. Gli altri lavoratori sono spesso mal retribuiti. Molti devono accontentarsi del salario minimo (750 euro) mentre il costo della vita supera in media del 30 per cento quello dei grandi paesi europei.

Sasson Tobias, 47 anni, fa il netturbino e partecipa al movimento degli “indignati”. “Lo stato e le comunità locali non assumono più. Subappaltano le commesse ad agenzie interinali che trattano i lavoratori come schiavi e non garantiscono un reddito stabile né una pensione. Se ti lamenti ti licenziano su due piedi”, dice sospirando.

I sussidi sociali sono stati ridotti dallo stesso Netanyahu quand’era ministro delle finanze nel 2006 e molti nuovi poveri israeliani arrivano a fine mese grazie ai buoni pasto distribuiti dalle associazioni benefiche. “Gli occhiali che indosso li ho ricevuti da un’associazione francese di oculisti ebrei. Dovrei cambiare le lenti ma non ho i soldi per farlo”, spiega Rachel Tuito, un’indignata di Ashdod. Tobias non va dal dentista dal 1993: “Non me lo posso permettere. Le cure sono costose e non sono rimborsate dal servizio sanitario”.

Circa il 50 per cento degli israeliani ha un reddito così basso che non paga le tasse. Tra i più poveri ci sono gli ebrei ultraortodossi, che non lavorano per motivi religiosi, e gli arabi che devono accontentarsi di lavori precari o in nero mal retribuiti. “Nel migliore dei casi, chi guadagna uno stipendio lo spende tutto e non risparmia nulla”, dice Eliran, che è accampato vicino alla stazione degli autobus di Tel Aviv. “Il movimento in corso cambierà qualcosa? Non credo, e molti la pensano come me. Certo, Netanyahu sta preparando delle misure che possano far contenti gli elettori della classe media ma non è disposto a varare riforme per ridurre la povertà. I poveri sono sempre più numerosi ma non hanno un peso politico. Non interessano a nessuno”.

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