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22 gennaio 2011

Crimini di Guerra: I Limiti dell’Obbedienza
di Chantal Meloni
ricercatrice di Diritto Penale, Università degli Studi di Milano

L'assunto dell’obbedienza militare come giustificazione per i crimini commessi nel corso di un conflitto è andato in pezzi da decenni. Di fronte ad un attacco contro civili un militare ha il dovere giuridico di rifiutarsi di eseguire gli ordini.

Milano, 22 gennaio 2011, Nena News  “I limiti dell’obbedienza”, un incontro svoltosi lo scorso dicembre a Tel Aviv, presso il Centro per l’identità e la cultura ebraica, come parte di una serie di dibattiti chiamati “il Potere Militare in uno Stato Democratico” ed organizzati in cooperazione con l’esercito israeliano. Ne dà conto Amira Hass in un articolo recentemente pubblicato su Haaretz (il giornale israeliano su cui regolarmente scrive).

Ciò che la giornalista israeliana, che vive a Ramallah, pubblica è una rara e non filtrata testimonianza di un militare dell’aviazione israeliana – il maggiore T. –  implicato direttamente nell’uccisione “mirata” del comandate di Hamas, Salah Shehadeh, a Gaza. Era lui il pilota dell’aereo che la notte del 22 luglio 2002 sganciò la bomba di quasi una tonnellata sul palazzo dove si trovava Shehadeh con la sua famiglia, nel centro di Gaza City.

Insieme al comandante di Hamas morirono anche 14 civili, di cui otto bambini, che abitavano nell’edificio o in case circostanti. Diversi palazzi nei dintorni furono distrutti o gravemente danneggiati dall’impatto, tra cui quello della famiglia Matar, che da sola contò otto vittime; tutto il quartiere Al Daraj di Gaza fu danneggiato, circa 150 persone ferite, molte in modo grave, il cratere lasciato dalla bomba è ancora visibile  sul luogo.

Il pilota dell’aeronautica militare israeliana, parlando ai giovani ragazzi di Tel Aviv che si stanno preparando a svolgere il servizio militare, si interroga sui limiti dell’obbedienza, sulla difficile decisione nel momento di eseguire ordini superiori, nel portare a termine un’operazione quando “si sa di fare qualcosa di sbagliato”.  E come lui stesso dice, nelle trascrizioni pubblicate da Haaretz: “Nel momento del decollo io divento una macchina da guerra. Fino a quando non so, fino  al punto in cui so che sto facendo qualcosa di sbagliato. Qualcosa di sbagliato è uccidere persone comuni”.

E si chiede: “Cosa avrei fatto se avessi saputo dei 14 civili?”. “Non sono sicuro che avrei colpito come ho fatto (…) Stavate discutendo gli ordini legittimi e illegittimi, e ne parleremo. Se avessi avuto  le informazioni di intelligence che non a caso non avevo, non è il mio lavoro, non lo so, non ho il quadro completo con le informazioni di intelligence come qualcun altro. Se avessi saputo di informazioni riguardanti cose a me proibite, non avrei colpito. Sarebbe stato sbagliato per me colpire”.

Qualcuno tra i ragazzi del pubblico replica: “I servizi militari sapevano”. E qualcun altro: “Questo è un modo di nascondere informazioni”. Il maggiore T. “Non è nascondere informazioni. C’è una chiara separazione qui … voglio solo che voi guardiate alla mia prospettiva come pilota. Io non sapevo … sapevo che c’era qualcuno, sapevo che stavo lavorando a ciò da molto tempo, e ora sto attaccando nella maniera più professionale possibile”.

L’uccisione “mirata” (il targeted killing, come si chiama in gergo) di Shahadeh del 2002 suscitò immediate critiche e forti reazioni: una richiesta di aprire una indagine penale sui fatti fu presentata in Israele davanti al procuratore militare, al procuratore generale ed infine, a seguito della risposta negativa di entrambi questi, una petizione fu portata davanti alla Corte Suprema israeliana.

Era il 30 settembre 2003; il 17 giugno 2007 la Corte tenne un’udienza in cui, lungi dal pronunciarsi sul quesito se le modalità del bombardamento dell’edificio ove si trovava Shehadeh costituissero indizi – prima facie – della commissione di crimini e di violazione delle leggi dei conflitti armati che richiedessero l’apertura di una indagine penale, si limitò a domandare allo Stato se avrebbe acconsentito alla istituzione di una commissione di indagine indipendente.

L’istituzione di commissioni di indagine ad hoc era stata in effetti raccomandata dalla Suprema Corte nella decisione sulla legittimità dei targeted killings del 14 dicembre 2006, ove i giudici israeliani stabilirono che la legittimità o illegittimità di tali pratiche non potesse essere decisa in linea di principio ma dovesse essere valutata caso per caso, tenendo in considerazione  le circostanze concrete anche alla luce del principio di proporzionalità (per cui il vantaggio militare atteso deve essere accuratamente bilanciato con i possibili danni collaterali ai civili). In quella occasione il presidente della Corte, il giudice Barak, aveva enfatizzato come la questione della proporzionalità fosse una difficile:

“Raggiungere tale bilanciamento è difficile. Anche qui, uno deve procedere caso per caso, restringendo l’area di disaccordo. Si prenda ad esempio il classico caso del combattente, o di un terrorista che stia sparando ai soldati o a civili dalla sua veranda. Sparargli è proporzionato anche se come risultato un vicino innocente o un passante venisse ferito. Questo non è il caso se l’edificio viene bombardato dal cielo e dozzine di abitanti e passanti sono colpiti.”

Non è difficile scorgere nelle parole del giudice Barak un riferimento, seppur non esplicito, all’uccisione “mirata” di Shehadeh, che infatti non sfuggì ai molti avvocati e giuristi impegnati a fare luce e possibilmente giustizia per le vittime di quell’attacco, così palesemente sproporzionato.

A tutt’oggi – oltre otto anni dopo i fatti – la vicenda non ha trovato alcun epilogo giudiziario: la commissione di indagine ad hoc nominata dal Primo Ministro israeliano come risultato della petizione davanti alla Corte Suprema, oltre a non garantire alcuna indipendenza e a non essere dotata dei necessari poteri, è stata rallentata da varie vicissitudini e cambi di composizione dei suoi membri, e non ha ancora concluso il suo lavoro di indagine.

Anche in Spagna, ove è stata presentata una denuncia penale per gli stessi fatti e dove nel gennaio 2009 il giudice di istruzione Fernando Andreu Merelles ha deciso di aprire una indagine sulla base del principio della giurisdizione universale spagnola, il procedimento si è  nel frattempo insabbiato. La decisione di Merelles è stata ribaltata prima dal tribunale e poi dalla Corte Suprema spagnola, che hanno ritenuto di attendere gli svolgimenti del caso davanti alla giurisdizione israeliana.

Forse – per ora – nessuno sarà sottoposto ad un procedimento penale: non Dann Haluz, l’allora comandante in capo dell’aviazione israeliana, non Moshe Ya’alon, l’allora Capo di Stato dell’esercito, non Doron Almog, l’allora comandante Sud delle forze israeliane, o Benjamin Ben-Eliezer, l’allora ministro della difesa, e Michael Herzog, suo segretario militare  non Giora Eiland, l’allora capo  del Consiglio di Sicurezza Nazionale, o Abraham Dichter, l’allora direttore dei Servizi di Sicurezza Generale. Tutti costoro erano accusati di crimini di guerra nella denuncia presentata ai giudici spagnoli a nome delle vittime dell’attacco contro Shehadeh a Gaza, per il loro ruolo nell’avere pianificato, autorizzato e ordinato tale operazione.

E tuttavia, a dispetto dell’assenza di indagini penali, che non si trattasse di una operazione legittima, alla luce della presenza di tanti civili innocenti, appare chiaro persino al pilota dell’aereo che sganciò la bomba. Nel corso dell’incontro a Tel Aviv di cui abbiamo accennato sopra, il maggiore T. lo fa trasparire diverse volte. “se avessi saputo non avrei…”; “…ma non sapevo”; “non avevo altra scelta”; “una volta in aria non c’è scelta. Come pilota non ho l’opzione della scelta”.

Uno dei ragazzi ancora gli chiede: “Ma l’intelligence ti deve dare anche queste informazioni: ‘sta cenando con la sua famiglia’. Quindi c’è una situazione in cui non eseguiresti la decisione? C’è una situazione in cui diresti: ‘Ok, sta cenando?’ ”.

Il pilota: “Le decisioni non sono prese nell’occhio del ciclone, dentro ad un aereo, ma piuttosto comodamente seduti ad una scrivania. Chi ci diede l’ordine (…) quelle sono le persone [responsabili NdA], e sono ai più alti gradi dello Stato di Israele. Loro sono quelli che sanno se vale la pena attaccare, cos’è il principio di proporzionalità e così via. Quando chiudo il portello divento un pilota da guerra che esegue la missione, sto solo eseguendo la missione, e questo viene dopo tutta la fase  di discussione e deliberazione”.

E l’ufficiale di grado maggiore lì presente aggiunge: “Ecco perché ciò che accadde, dal momento del decollo, non è stata sua responsabilità, lui deve eseguire una missione nel modo più professionale possibile (…). Prendere la decisione non è stata sua responsabilità”. “Dovete realizzare che ognuno di tali incidenti, e parlo anche di molti, molti attacchi contro persone molto meno importanti [di Shehadeh, NdA] e non solo da aerei pilotati, sono approvati al livello del Primo Ministro israeliano”.

Un documento per certi versi eccezionale questo riportato da Amira Hass, che si colloca accanto alle sempre più numerose testimonianze di soldati israeliani che “autodenunciano” la commissione di crimini nei confronti dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano. Tali testimonianze, raccolte nel corso dell’ultimo decennio dall’organizzazione israeliana Breaking the Silence, che le ha pubblicate ora in un volume da oltre 400 pagine intitolato “Occupazione dei Territori”, gettano una luce diversa sul comportamento dell’ “esercito più morale al mondo”, come ama definirsi e presentarsi quello d’Israele.

In una di queste centinaia di testimonianze un soldato commenta a proposito di una operazione a cui lui stesso partecipò nel 2000 a Gaza per eliminare un presunto terrorista nel sud della Striscia: “non ci potevo credere  a come un ordine di uccidere qualcuno potesse essere eseguito in un minuto”. L’operazione dal nome significativo di “Ground elimination operation” era di intercettare “un terrorista sulla strada per Rafah, bloccarlo nel mezzo della strada ed eliminarlo”. Non arrestarlo?  “No, eliminarlo direttamente, uccisione mirata”.

Davanti ad ordini palesemente illegittimi c’è sempre una scelta; la disobbedienza non solo è possibile, è anche imposta dal diritto  internazionale, che da tempo non riconosce la validità della scusa “stavo solo obbedendo agli ordini”. La commissione di crimini internazionali non è mai giustificata neanche nei confronti del militare che stava “solo obbedendo” ad ordini superiori, se tale soldato poteva rendersi conto che l’ordine ricevuto era illegittimo o se l’illegittimità dell’ordine era manifesta. Tale principio è oggi espressamente riconosciuto dall’articolo 33 dello Statuto della Corte  Penale Internazionale. Dal soldato di fanteria al comandante la catena delle responsabilità non si interrompe e non si esaurisce di fronte alla commissione dei crimini più gravi, quali sono i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra.

Il vecchio assunto dell’obbedienza militare come giustificazione per le violazioni e i crimini commessi nel corso di un conflitto è andato in pezzi da decenni. Il problema che resta da dimostrare nel singolo caso è se effettivamente il soldato sapesse, o dovesse sapere, che l’ordine ricevuto era illegittimo. In tal caso, lo si ripete, ha il dovere giuridico di rifiutarsi di eseguirlo, pena la sua personale responsabilità penale.

L’articolo di Amira Hass cui si fa riferimento è apparso su Haaretz il 9 gennaio 2010: http://www.haaretz.com/print-edition/features/good-hit-alpha-1.335981(in inglese).

Il volume pubblicato da Breaking the Silence è scaricabile dal sito dell’organizzazione: http://www.shovrimshtika.org/publications_e.asp (per ora parzialmente tradotto in inglese).