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10 dicembre 2011

L'appello di Khalida El Khatir: «Nati in Italia ma senza diritti»
di Mariagrazia Gerina

Tutto è cominciato con un passaparola tra donne. Con un: «Vieni anche tu?». «Ero indignata come tutte per quello che stava accadendo in Italia, ma era la prima volta che qualcuno mi invitava a far parte di una associazione come donna italiana ed è stato molto bello sentire che con le altre avevamo in comune soprattutto due cose: essere donne ed essere italiane, anche se proprio quello ci faceva indignare», racconta Khalida El Khatir, 27 anni, italiana di seconda generazione, anche se nata in Marocco, madre di un bambino di due anni e in attesa di un secondo figlio.

Domenica Khalida prenderà la parola dal palco di piazza del Popolo, a nome anche delle altre donne che vedono crescere in Italia i loro figli, come se fossero stranieri. «La prima cosa che dirò - preannuncia Khalida - sarà un ringraziamento al Presidente della Repubblica, che si è fatto carico di questa questione, dicendo chiaramente che la attuale legge sulla cittadinanza è una follia. Poi mi rivolgerò alle donne che saranno in piazza e a tutte le mamme che hanno figli che vanno nelle scuole italiane». A loro Khalida chiederà una cosa semplice e grande: «Di lottare con noi, perché quella per la cittadinanza ai bambini nati in Italia o cresciuti in Italia, che sono compagni di scuola dei loro figli, è e deve essere una grande battaglia comune per noi donne».

Seconda generazione

Per lei, cosiddetta "seconda generazione", la cittadinanza è stata un approdo difficile. Arrivata in Italia con genitori e sorelle all’età di 7 anni. Cresciuta a Rovereto dove ha frequentato tutte le scuole, dalla prima elementare alla maturità. Khalida ha avuto la cittadinanza solo quattro anni fa. Ed è stata la prima della sua famiglia. «Mi sentivo italiana da sempre e però quando l’ho presa questa benedetta cittadinanza, quel pezzo di carta che mi evitava le file in questura, il caos burocratico, le fobie che possa succedere qualcosa, è stata una liberazione», racconta ripensando agli anni in cui ha vissuto appesa alla paura di non vedersi rinnovare il permesso di soggiorno. «Il primo l’ho avuto a sedici anni, da quel momento in poi potevo stare in Italia solo per motivi di studio, ancora mi ricordo l’angoscia quando all’università non sono riuscita a fare tutti gli esami richiesti per quell’anno e ho rischiato di diventare clandestina. Oppure l’ansia per una gita in Spagna organizzata dalla scuola». Per la gita andò tutto bene, per il viaggio di nozze meno. «Ci avevano regalato un biglietto per Parigi, ma io ero in attesa che mi rinnovassero il permesso. Io e mio marito, con tutti i bagagli, siamo andati fino all’aeroporto: ci hanno rispediti indietro, niente viaggio».

Non siamo stranieri

Per Adam, suo figlio, è stato più facile. Lui è nato cittadino italiano, visto che quando è venuto al mondo sia lei che suo marito avevano già la cittadinanza. «Ma come spiegherò ad Adam che è cittadino italiano solo chi ha sangue italiano? So che gli dirò che c’è un solo sangue ed è quello umano e che la cittadinanza non deve dipendere dal sangue». Basterà a proteggerlo dalle discriminazioni? «Finché davano a me della straniera perché figlia di immigrati, ci rimanevo male però un po’ capivo, non mi arrabbiavo fino in fondo, però a mio figlio nato in Italia da genitori cresciuti in Italia che ha tutti qua i suoi nonni, a lui non potranno mai dire straniero».

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