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06 agosto 2011

Un sopravvissuto: "Ho gettato 
in acqua il corpo di mio cugino"
di Francesco Viviano

Sdraiata sulla brandina di uno dei capannoni del centro di accoglienza di Lampedusa, una giovane donna di 20-25 anni, nigeriana come gran parte dei 376 sopravvissuti all'ultima tragedia del mare, tiene stretta la sua bambina di appena due mesi. Ha lo sguardo smarrito, risponde a stento alle domande degli operatori sanitari delle organizzazioni umanitarie. Non riesce a piangere, al seno la sua piccola che si è salvata grazie a quel poco di latte materno che riusciva a darle.

Accanto a lei, gli altri sopravvissuti che per sei giorni e sei notti sono rimasti in mezzo al mare in balia delle onde, del caldo del giorno e del freddo della notte, ignorati dalle grandi navi della Nato che da mesi attaccano la Libia. Hanno negli occhi ancora il terrore e la disperazione.

"Ne abbiamo visto diverse di quelle navi ma nessuno ha raccolto i nostri segnali di aiuto, soltanto quel rimorchiatore cipriota ci ha notati ma non si è mai avvicinato. Ci ha lanciato in mare delle zattere ma raggiungerle era impossibile...",  ricorda Robert, un nigeriano di poco più di 20 anni che insieme ad altri ha gettato in mare un centinaio di cadaveri morti a bordo del barcone durante la tragica traversata. Tra quei cadaveri c'era anche un suo cugino: "Che dovevamo fare?" si chiede facendosi il segno della croce come a voler chiedere perdono.

Ma non ha nulla da farsi perdonare: "Morivano davanti ai nostri occhi e noi non potevamo fare proprio nulla perché da giorni non avevamo più né cibo né acqua". Urla disperato Robert, vuole che tutti lo sappiano: "Siamo stati visti da molte navi, navi grandi e grosse con cannoni e radar, ma nessuno si è mai avvicinato".

Forse, se solo si fossero avvicinate, se avessero dato un minimo di soccorso a quei disperati magari distribuendo un po' di acqua o pane, diverse decine di persone si sarebbero potute salvare. "Invece sono finite in fondo al mare come tanti altri migliaia di immigrati che sono partiti e non sono mai arrivati - dice con sconforto un militare che da mesi è impegnato nelle operazioni di soccorso in mare - Ma mi chiedo - dice ancora il militare che naturalmente chiede l'anonimato - perché quelle navi militari non sono intervenute? Loro erano a poche miglia da quel barcone, lo avevano intercettato con i loro potentissimi radar a cui non sfugge neanche una mosca in quella zone di mare che da tempo è al centro di una guerra.

Un conflitto - sottolinea ancora il militare - che sarebbe scoppiato per salvare migliaia e migliaia di persone dal regime di Gheddafi. Ma tra queste persone da "salvare" non ci sono o c'erano anche quelli che sono riusciti a fuggire dalla Libia imbarcandosi su una carretta e rischiando di morire pur di raggiungere Lampedusa? Ma che senso ha questo comportamento? Li vogliamo salvare in Libia bombardando Tripoli e una volta che centinaia di persone riescono ad andare via vengono poi abbandonate a se stesse. Che senso ha? E' un incredibile paradosso, vogliamo salvarli in Libia e li lasciamo morire in mare?".

Che in quella zona di mare si trovassero navi della Nato è un fatto che sembra ormai acclarato. Una si trovava a 27 miglia dal barcone e in meno di un'ora avrebbe potuto raggiungerla. Ma non l'ha fatto. Non solo, la Guardia Costiera Italiana era stata allertata già mercoledì scorso, avvertita anche da un rimorchiatore cipriota che solcava quelle acque.

La richiesta di soccorso è giunta anche ai comandi Nato ma quelle navi che si trovano lì per "salvare" migliaia di persone in territorio libico non hanno voluto o potuto salvare quegli stessi disperati che fuggivano proprio dalla Libia. Se lo avessero fatto, se fossero intervenuti 24 ore prima, forse almeno quest'ultima strage si poteva evitare.