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14 giugno 2012

Vent'anni di sviluppo sostenibile cronaca di un fallimento: Rio+20
di Giuseppe De Marzo

 

Sono passati 20 anni dalla prima conferenza sulla Terra che segnò un forte avanzamento nella consapevolezza della relazione tra sviluppo economico, sociale e protezione dell’ambiente. Tre i principi che vennero adottati da 108 capi di Stato e 172 delegazioni governative: la responsabilità comune ma differenziata; il principio di precauzione; il diritto all’informazione ed alla partecipazione. I documenti approvati furono: la dichiarazione di Rio, quella sulle Foreste e l’Agenda 21. Firmate le convenzioni sui Cambiamenti Climatici, la diversità biologica e la desertificazione. Creata la Commissione delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile.

A distanza di venti anni dagli obiettivi e dagli impegni presi a Rio, la differenza tra il discorso e la realtà dei fatti è enorme. Gli indicatori che misurano la perdita di biodiversità, gli sconvolgimenti climatici, la distruzione delle foreste, le morti per inquinamento, mostrano come lo sviluppo sostenibile sia stato sino ad ora retorica più che sostanza. Nonostante nell’ambito delle Nazioni Unite i paesi si siano pronunciati per lo sviluppo sostenibile, in realtà la nozione di “sostenibilità” è stata completamente cancellata dalle priorità dei governi, così come quella di “sviluppo sociale” approvata a Copenaghen nel 1995. I paesi cosiddetti sviluppati si sono concentrati in queste due decadi sulla crescita economica, lasciando in secondo piano la distribuzione della ricchezza e la distruzione dell’ambiente.

I paesi in via di sviluppo sono stati forzati dalle politiche del Fmi, della Bm e del Wto a puntare su un’economia incentrata sulle esportazioni di materie prime a basso costo e sulle privatizzazioni dei servizi basici, inibendo lo sviluppo di un’economia domestica legata alla domanda interna e ad un’autonoma gestione delle politiche industriali ed energetiche. Oggi i limiti e le contraddizioni di questa visione esplodono in tutta la loro drammaticità. La Terra non ce la fa più. Abbiamo superato i limiti di carico del pianeta e non diamo il tempo alla natura di autorigenerarsi per fornire i materiali e l’energia di cui abbiamo bisogno per sostenere il modello di sviluppo. Il tipping point, il punto critico oltre il quale il cambiamento diventa inarrestabile, è stato già superato per la stragrande maggioranza della scienza mondiale che urla di fare presto per limitare i danni, adattarsi e mitigare i cambiamenti. Oggi non esistono strumenti vincolanti che possano costringere i governi di coloro che inquinano e consumano di più a cambiare rotta. L’unico, nato dal percorso dalla conferenza del ’92, era proprio quel protocollo di Kyoto che è stato seppellito dalle esigenze del mercato durante la Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Durban nel dicembre 2011, dove i governi dei più grandi inquinatori hanno preferito rimandare al 2020 un accordo nuovamente vincolante. Il punto dunque non è denunciare un generico rischio del tipo «fate presto prima che sia troppo tardi», bensì prendere consapevolezza che i cambiamenti sono già in atto e che l’unica cosa di buon senso sarebbe riconoscerli ed organizzarci con strumenti vincolanti.

In ballo al vertice di Rio+20 c’è la nostra sopravvivenza, messa in discussione dalla più grave crisi planetaria che l’umanità ricordi La sfida sarà su come costruire un modello che tenga insieme giustizia e sostenibilità, dove per giustizia intendiamo quella ambientale e sociale, attraverso cui “democratizzazione” lo sviluppo. Ma quello che minaccia l’ennesimo e per certi versi inevitabile fallimento della conferenza è la natura della governance. Il modello liberista è convinta che sia il mercato il luogo in cui risolvere la crisi ecologica. A Rio multinazionali, governi dei paesi più industrializzati e istituzioni finanziarie scommetteranno tutto sul potere taumaturgico di una green economy indefinita per rilanciare la crescita. Il modello di sviluppo liberista ed i soggetti che lo incarnano, rifiutano qualsiasi dibattito sul fatto che una transizione socio ecologica debba essere guidata da chiari obiettivi fisici. A parte le buone intenzioni, nei documenti preparatori manca infatti qualsiasi procedura vincolante per garantire la transizione ad un modello più giusto e sostenibile. Vorremmo ricordare, come sostiene Martinez Alier, presidente della società internazionale di economisti ecologici, che i livelli dell’economia sono tre: finanziario, produttivo e “reale”. Il primo consente una crescita esponenziale slegata dall’economia materiale. Ne stiamo infatti pagando il prezzo. Il secondo è legato alla produzione di beni, ed è in stallo, tranne che nei settori ad alta innovazione. Il terzo, l’economia reale, misura invece i flussi di energia e di materiali utilizzati e gli scarti, l’inquinamento ed i rifiuti prodotti in eccesso che la Terra non riesce a smaltire.

È questo il livello più importante dell’economia perché costituisce la precondizione per garantire la sostenibilità ecologica di uno sviluppo che evidentemente deve essere diverso rispetto a come l’abbiamo sino ad ora immaginato. Il dibattito degli economisti mainstreaming negli Usa ed in Europa è invece esclusivamente sui primi due livelli, ignorando il fatto che l’economia costituisca innanzitutto un sottosistema dell’ecologia. La green economy costruita fuori dalla logica del metabolismo sociale terrestre risulta quindi inutile al suo scopo originario e rischia di costituirsi come terreno di ulteriore “cattura cognitiva” del sistema capitalista. Nel mondo se ne discute. Lo si farà anche a Rio nel Forum mondiale dei popoli per la giustizia ambientale e sociale che si terrà negli stessi giorni della conferenza Onu. Abbiamo urgente bisogno anche nel nostro paese di aprire un dibattito su cosa debbano essere oggi lo sviluppo e la sostenibilità. Una cosa la possiamo stabilire: per raggiungere la sostenibilità ambientale bisogna essere socialmente sostenibili. Le disuguaglianze economiche sono la prima barriera allo sviluppo sostenibile. La sostenibilità è molto più legata alle politiche economiche, alle ingiustizie ed alle disuguaglianze, piuttosto che alla scienza ed all’ambiente inteso in maniera astratta. Per annullare il deficit di equità e sostenibilità ecologica contenuto nell’attuale concetto di sviluppo sostenibile, bisogna partire dall’interdipendenza tra giustizia sociale, benessere economico e gestione delle risorse naturali. Abbiamo urgenza di condividere valori nuovi, insieme ad un vocabolario capace di fornire i fondamenti etici di una comunità mondiale nuova. La priorità oggi è il futuro.

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