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16/11/2012

Il ruolo delle armi nel (dis)ordine internazionale
di Leopoldo Nascia

Dall’esplosione della bolla dei titoli subprime, lo scenario economico globale è cambiato con differenze significative nelle diverse regioni del mondo. I paesi avanzati del Nord (Stati Uniti, Europa e Giappone) centro delle crisi che si sono susseguite dal 2008 hanno mostrato la vulnerabilità del loro sistema economico che dopo un decennio di crescita ininterrotta, si è incamminato nel tunnel delle crisi.

Il ricorso alle finanze pubbliche per salvare i grandi gruppi bancari e assicurativi ha compromesso l’equilibrio finanziario dei settori pubblici interventisti e generosi con la finanza e liberisti e rigorosi per quanto riguarda la giustizia sociale. La ricetta neoliberista come cura della recessione, non riesce a ridare slancio al sistema ma anzi favorisce il declino dei paesi europei rispetto alle nuove potenze economiche rappresentata dai paesi emergenti.

Tra i paesi emergenti come India, Cina e Russia la crisi ha solo rallentato la crescita, grazie a una bilancia commerciale in continuo surplus e a un flusso continuo di investimenti esteri. Nonostante questi paesi mostrino una spesa pubblica elevata e in crescita non hanno sviluppato sistemi di welfare confrontabili per qualità e intensità a quelli europei e registrano spese militari molto elevate, con variazioni anche maggiori del Pil

Le previsioni di crescita di spese militari previste tra il 2011-2015 sono impressionanti: 140% in Cina, 70% in Brasile, 40% in India, 31% in Russia. Invece nei paesi sottosviluppati come l’Africa subsahariana, America Centrale, paesi poveri dell’Asia (Bangladesh, Nepal, etc.) la crisi si è unita ai fattori endemici di arretratezza esacerbando problemi come fame e povertà

In questi paesi si assiste spesso alla rappresentazione di forti conflitti sociali, etnici, di frontiera, guerre civili, e nonostante gli stati siano sull’orlo del fallimento si registrano alte spese militari (30,1 miliardi di $ nel 2011).

Nel mondo sono aumentati gli squilibri, non solo tra nord e sud, ma anche all’interno dei paesi per la ritirata dello stato sociale e per la riduzione delle politiche per l’uguaglianza, sostituite da modelli market oriented.

In questo contesto si inserisce il mercato delle armi caratterizzato dalla presenza di grandi gruppi industriali concentrati in pochi paesi avanzati o emergenti, elevata intensità di R&S, accordi internazionali di fornitura, commesse pubbliche pluriennali e una rete relazionale molto sviluppata fra le imprese e i centri militari.

Il modello di business delle armi trova una specificità nella presenza di una domanda composta da pochi acquirenti (gli stati) la cui inclusione nel perimetro di interesse di ogni gruppo industriale scaturisce dalle dagli accordi e dalle alleanze politiche. Con lo spostarsi nello scacchiere internazionale dei paesi da un’alleanza all’altra si crea la necessità di integrazione militare con i nuovi alleati e di conseguenza si apre un mercato di sbocco.

Le imprese di armi oltre a un processo sempre più intenso di concentrazione in pochi gruppi, tanto che i primi dieci gruppi spiegano il 56% del mercato nel 2010, sono caratterizzate da una spinta alla specializzazione, tralasciando il mercato civile anche perché molto più aperto e competitivo delle reti privilegiate con le istituzioni pubbliche.

Il modello del mercato dei sistemi d’arma predilige un intreccio fra politica e profitto in cui le alleanze politiche aprono i mercati e spartiscono le zone d’influenza dei paesi produttori di armi, in base a criteri geopolitici e alle logiche di profitto dei grandi gruppi. La politica degli Usa è al vertice di questo meccanismo basato sulla cooptazione degli ex nemici per trasformarli in clienti per i produttori di armi occidentali secondo le gerarchie delle alleanze e dell’affidabilità nel tempo: gli stati del golfo sono un esempio di scuola dell’intreccio politico imprenditoriale con la sostituzione dei vecchi arsenali sovietici con aerei e navi più moderni.

Nel complesso il mercato delle armi nel 2011 aumenta il fatturato rispetto al 2010 passando da 1630 miliardi a 1740 miliardi di dollari. L’Africa nonostante la fame e la povertà aumenta la spesa per armi di oltre il 5%, come anche il Sudamerica (5,8%). Le nuove potenze nucleari, India e Pakistan, guidano il riarmo in Asia, mentre il mercato europeo e americano per le politiche di riduzione della spesa pubblica si ridimensionano temporaneamente. Le americhe guidano la classifica modiale della spesa per armi (791 miliardi di $ nel 2010), seguita da Europa (382 miliardi di $), Asia (317 miliardi di $) e Africa (30,1 miliardi di $)

Si deve notare come la spesa militare sia concentrata in pochi stati: il 75% della spesa mondiale per armamenti nel 2011 riguarda appena 10 Paesi con gli Stati Uniti che registrano 43% della spesa mondiale militare.

Nel quadro complessivo del mercato delle armi internazionale l’Italia occupa una posizione di primo piano come indicato da elementi come:

- decimo paese al mondo per volume di spesa militare (37 miliardi di $ nel 2010)

- terzo paese esportatore di armi in Europa dopo Francia e Germania

- mercato delle esportazioni concentrato in regioni delicate come il medio oriente

Il primo e pressoché unico gruppo industriale italiano per i sistemi d’arma è Finmeccanica (18,7 miliardi di euro di fatturato nel 2010) che è anche l’ottavo gruppo nel mondo delle armi.

La riduzione dei budget pubblici nei paesi avanzati nonostante abbia creato qualche preoccupazione a questa industria, che comunque non è riuscita a fermare la sua capacità di attrarre risorse pubbliche, anche nei paesi in fallimento come la Grecia, primo e terzo mercato di sbocco rispettivamente dei gruppi di armi tedeschi e francesi.

Durante la crisi, nonostante i debiti pubblici fuori controllo di molti paesi, la spesa militare trova molti sostenitori come cura per la crescita ‘arm teraphy’ a causa di una forma malintesa di keynesismo militare che considera l’industria delle armi come il volano per uno sviluppo basato sulle esportazioni, sulla ricerca e sviluppo, con la manodopera saldamente legata all’ambito nazionale.

Questo modello in apparenza convincente per ridare fiato alle economie in recessione possiede aspetti assai discutibili come l’ingerenza della politica, l’assenza totale di una forma reale di competizione e di mercato assieme alla mancanza di appalti trasparenti. Il modello arm theraphy anche grazie all’intreccio di interessi pubblici e privati crea in realtà mercati protetti dalla concorrenza sicuramente più comodi per le imprese rispetto alla competizione feroce presente in altri settori disincentivando qualsiasi tentativo di riconversione.

Gli effetti più gravi della arm therapy colpiscono i sistemi economici in maniera molto pervasiva perché esacerbano gli equilibri finanziari pubblici,impediscono riduzioni dell’onere fiscale, e grazie all’intreccio fra politica, eserciti e produttori di armi, si riescono a spostare, in parte o per intero, i tagli richiesti dalle politiche di rientro dal debito pubblico verso gli altri settori tagliando ulteriormente i servizi pubblici.

Sorge spontanea una domanda: esistono soluzioni realistiche a livello nazionale e internazionale per contrastare un complesso politico industriale che condensa nella arm therapy il proprio modello di business e di sviluppo? Esistono soluzioni alternative a un ordine internazionale basato sul profitto dei produttori di armi? Esistono misure che possono mitigare gli squilibri dopo la crisi?

Le soluzioni, sono disponibili da tempo e passano per parole chiave come: redistribuzione, sviluppo al posto della crescita, integrazione, partecipazione e trasparenza.

Con la crisi, dovuta proprio all’eccesso di concentrazione della ricchezza in poche mani, le misure atte a redistribuire le risorse diventano prioritarie per risolvere gli squilibri a livello nazionale e fra i paesi del sud e del nord del mondo.

La spesa pubblica deve poggiare su priorità quali: welfare, uguaglianza e lotta squilibri interni, arginando lo strapotere politico e ideologico di entità quali il Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea, che impongono soluzioni nonostante non siano state in grado di evitare la crisi.

Gli stati dovrebbero favorire i processi di disarmo/integrazione economica e cooperazione politica regionale mantenendo lontane le grandi corporation delle armi, anche al costo di perdere temporaneamente posti di lavoro che poi sarebbero più che compensati da opportunità nel mondo civile.

I governi dovrebbero cercare la partecipazione della società civile nello stabilire gli obiettivi politici e economici sia a livello nazionale sia internazionale, le istituzioni internazionali dovrebbero concentrare i propri sforzi nel controllo dei flussi monetari delle armi spesso intercettati da paradisi fiscali.

Restringendo il campo all’Italia misure concrete come impegnare la spesa pubblica per piccole opere, welfare e conoscenza, adozione di politiche fiscali progressive, riduzione spesa militare e delle grandi opere. Nella controfinanziaria 2013 di Sbilanciamoci queste misure vengono proposte nel dettaglio mostrando come una alternativa sia non solo possibile, ma anche di rapida implementazione.

Il problema principale non risiede nella difficoltà di elaborazione o nella complessità delle misura quanto nella mancanza di una risposta alla domanda: Quali sono le alleanze sociali/politiche che possono sostenere alternative?

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