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3 luglio 2012

Al mercato delle armi
di Roberto Roveda

I signori del Male. Il commercio degli armamenti muove, sul piano globale, interessi enormi di tipo economico e politico. Un mondo complesso in cui, nonostante i limiti imposti dalle legislazioni degli stati, mancano controlli a livello internazionale. E in cui gli accordi sottobanco e la corruzione prosperano facilmente
 

Nei mesi scorsi alcuni esperti delle università di Zurigo e Berna hanno espresso le loro critiche alla legislazione svizzera sull’esportazione di materiale di guerra, sottolineando in particolare una mancanza di trasparenza sull’utilizzo finale (1). A suscitare questa reazione è stata principalmente la decisione, risalente allo scorso dicembre, di revocare il divieto di esportare materiale bellico verso il Qatar. Un divieto deciso nel mese di luglio dopo la scoperta che munizioni prodotte dall’azienda svizzera Ruag, inizialmente destinate a un paese del Golfo Persico, erano poi state fatte transitare verso la Libia. Destinatari finali i ribelli che combattevano il regime di Gheddafi. Un fatto questo che viola la legge svizzera sul commercio di armi, in più punti molto restrittivo. Non è possibile, infatti, vendere armi a paesi coinvolti in conflitti armati, un divieto esteso anche ai casi in cui sussiste un forte rischio che le armi esportate vengano trasferite a un “destinatario finale indesiderato”. La legge esclude poi dalla vendita i paesi che violano “in modo grave e sistematico i diritti umani” e quelli in cui esiste un forte rischio di impiego delle armi contro la popolazione civile. Insomma la legge svizzera sull’esportazione di armi è sicuramente molto rigida, anche se non è così semplice controllare fino in fondo la destinazione finale di ciò che viene venduto, anche nel pieno rispetto della legislazione vigente. Nel 2011, per fare un esempio, sono stati forniti, con l’autorizzazione del Consiglio federale, agli Emirati Arabi Uniti 25 aerei non armati da addestramento Pilatus PC-21. Una commessa da 500 milioni di franchi che ha fatto del paese mediorientale il maggior partner commerciale della Confederazione in campo militare. Un affare che però qualche interrogativo lo pone perché gli Emirati Arabi Uniti non sono esattamente uno stato democratico, dove i diritti umani, come vuole la nostra legislazione, sono rispettati fino in fondo (2). Tutto questa ci fa capire come l’universo del commercio delle armi sia estremamente complesso e non sia sempre così semplice decidere cosa è legale fino in fondo e cosa non lo è. Senza dimenticare gli enormi interessi economici e politici che alimentano questo settore, come ci spiega Francesco Vignarca coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo (www.disarmo.org) e autore del volume L’economia armata (Altreconomia, 2011).

 

Dottor Vignarca, qual è il giro di affari dell’industria delle armi a livello mondiale?

A livello mondiale i vari stati, per mantenere i loro eserciti, muovono all’incirca 1700 miliardi di dollari ogni anno. Una cifra che è aumentata in maniera sensibile negli ultimi dieci anni, anche se nel 2011, per la prima volta dopo un decennio, si è avuta una stasi. In questa cifra non entrano solo gli armamenti, ma anche tutto ciò che serve a un esercito – divise, benzina – però certamente l’acquisto di sistemi d’arma è una delle voci più consistenti. Un aspetto evidente è che il mercato delle armi continua a funzionare, non ha conosciuto la crisi di altri settori. Anche perché si è spostato verso nuovi lidi” (3).

 

Quali nazioni?

Oggi sono i paesi dell’area asiatica i maggiori acquirenti perché hanno più soldi a disposizione: India, Pakistan, la Cina stessa e poi tutta l’area mediorientale. Non solo hanno soldi, ma si trovano tutti nelle zone più “calde” del mondo. Un’analisi condotta dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ha messo in luce come l’India sia diventata la prima al mondo per l’import di armamenti (4). Problemi di bilancio hanno invece costretto i paesi europei e anche gli Stati Uniti a effettuare dei tagli sulle spese militari”.

 

Quali sono invece i maggiori paesi produttori?

La produzione di armamenti è sempre saldamente nelle mani dei paesi occidentali, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna. Le prime venti industrie produttrici a livello mondiale sono, infatti, occidentali. Pensi che solo pochi anni fa oltre l’80% delle armi prodotte e vendute nel mondo provenivano dai cinque paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; questo significa che chi ha il pallino politico ha anche in mano la produzione e il commercio degli armamenti”.

 

Allacciandomi a quello che dice, le chiedo allora in che modo industria delle armi e politica sono legate. Si influenzano a vicenda oppure uno dei due attori prevale sull’altro?

 “Storicamente gli stati hanno sempre avuto il controllo sull’industria della produzione degli armamenti. Oggi invece i grossi gruppi di produzione di armi non sono più società di media grandezza, a controllo quasi statale, ma sono diventati dei colossi internazionali che operano su diversi mercati. Sono loro a influenzare le politiche degli stati ricorrendo sia a mezzi leciti di pressione, sia a quelli illeciti e cercando di fare in modo che i propri prodotti armieri vengano acquistati. Vorrei ricordare, infatti, che il commercio di armi rappresenta circa il 2% di quello mondiale totale, ma è responsabile del 45% della corruzione del pianeta e questo non è un dato da sottovalutare. Le industrie armiere nazionali fanno pressione sui propri governi perché venga pubblicizzato il proprio prodotto nei paesi in cui può essere acquistato. Si assiste così allo scandalo di vedere funzionari statali e ministri, che dovrebbero occuparsi di costruire la struttura della difesa, andare in giro per le fiere delle armi a fare i piazzisti”.

 

Ma non è comunque compito dei governi favorire le aziende che offrono lavoro e magari anche innovazione al loro paese?

Prima di tutto, il fatto che quella bellica sia un’industria che garantisce posti di lavoro e ritorni economici è solo una scusa. In Italia due grandi industrie come Finmeccanica e Alenia Aermacchi hanno fatto enormi pressioni sui governi per acquistare i cacciabombardieri statunitensi F35. Prima il lotto comprendeva 131 velivoli, oggi ridotti a 90. Spesa stimata 10 miliardi di euro per l’acquisto, 30 per il mantenimento degli aerei nel loro ciclo di vita. Come contropartita è stato detto che così si garantivano 10.000 posti di lavoro. Adesso il calcolo si è ridotto a 2.500 posti di lavoro. Ora, lei spenderebbe 40 miliardi di euro per soli 2.500 posti di lavoro? Non mi pare un grande affare. Così come quando si dice che l’industria bellica restituisce un grande ritorno economico, si dice una esagerazione. In Svizzera le esportazioni di materiale bellico hanno raggiunto la cifra, nel 2011, di circa 870 milioni di franchi. Cioè solo lo 0,4% del prodotto interno lordo. Diciamo piuttosto che dietro il mercato delle armi ci sono dei ritorni di prestigio, in un certo senso strategici e soprattutto economici che non sono a vantaggio del sistema-paese ma di chi fa affari. Questo tipo di industrie puntano a vendere, a fatturare e insieme a mostrare che l’azienda vende. In questo senso è chiaro che un dirigen- (...) te di quelle aziende punta a forzare il governo affinché compri direttamente e si faccia portatore di acquisti verso altri perché poi vi è un ritorno diretto in termini di prestigio, di potere e anche di remunerazione per il management”.

 

Dal punto di vista del ritorno tecnologico, la sperimentazione e la ricerca militare hanno delle ricadute positive anche sull’industria civile?

Una ricaduta tecnologica certamente esiste. La domanda esatta però sarebbe: «è la maniera più efficace per avere le stesse ricadute? ». Ora, nel momento in cui si parla di innovazione legata all’industria militare, si cita solitamente il caso di Internet. La rete è nata negli anni Cinquanta e Sessanta da una sperimentazione militare, ma è diventata quella che è oggi e che ci permette di lavorare meglio perché a metà degli anni Ottanta il CERN di Ginevra, che è un’istituzione non militare ma civile di ricerca, l’ha presa in carico e l’ha fatta diventare WorldWideWeb. Prima con la rete originaria non si riusciva nemmeno a scambiare i file o lo si faceva in maniera poco efficace. Quindi il punto è: se gli stessi investimenti messi a disposizione del settore bellico fossero subito stati dati a un’istituzione come il CERN o comunque a un’istituzione di ricerca aperta, libera, Internet sarebbe stata sviluppata meglio, prima e inmaniera più trasparente, chiara? Alla fine certo, a fronte di una grande massa di investimenti, la ricerca militare dà qualche beneficio anche all’industria civile. Ma il gioco, cioè il costo economico, vale la candela?”.

 

Ogni paese ha la sua legislazione in merito al commercio delle armi. Esiste però un controllo forte su questo mercato oppure le regole sono fatte per essere aggirate?

La Svizzera dispone di una legislazione nazionale restrittiva e controlli che funzionano, tanto che viene messa ai primi posti per livello di trasparenza da tutti gli analisti. Il problema, però, non sono le leggi nazionali. Il problema è che queste leggi sono limitate dalla mancanza di una legislazione internazionale valida per tutti. Basarsi solo sulle leggi nazionali, infatti, non funziona più. Funzionava prima, quando tutti avevano come riferimento il modello-Francia, per cui lo stato controllava direttamente le industrie degli armamenti. Con il controllo diretto delle vendite degli armamenti delle aziende nazionali gli stati vendevano basandosi su considerazioni di tipo strategico o legate ad alleanze politiche. Oggi le grandi aziende che producono armi sono dei grossi conglomerati che fanno ciò che vogliono e operano a livello sovranazionale. Quindi il fatto che non ci sia una legislazione internazionale che integri le legislazioni nazionali diventa un problema. Per questo si sta cercando con la campagna internazionale Control Arms (www.controlarms.org) di formulare un trattato internazionale sul controllo degli armamenti da discutere alle Nazioni Unite. Quindi regole uguali per tutti e controlli uguali per tutti. Non potrà più succedere, per esempio, che Finmeccanica, che sa che la legge britannica in tema di export delle armi è meno stringente di quella italiana, faccia costruire il pezzo finale di un suo prodotto in Gran Bretagna ed esporti secondo le leggi inglesi. Questo oggi può accadere. Se ci fossero leggi uguali per tutti o un trattato a livello internazionale, con controlli uguali, che io produca in Italia, Francia o Svizzera non cambierebbe le cose”.

 

Prima ci ha detto che il commercio delle armi è un grande produttore di corruzione. Come mai?

Perché non è un mercato vero: non è né aperto né trasparente. Dove c’è trasparenza e controllo la corruzione viene in un certo senso mitigata dal fatto che ci sono altri attori che intervengono. È un non-mercato in cui operano pochi big players dal punto di vista della produzione e dell’acquisto e le commesse non sono fatte sulla base di quanto costa il bene o quanto sia utile ma in relazione ad accordi politici. In questo contesto è facile esercitare pressioni su chi deve decidere non solo mettendo sul piatto della bilancia motivazioni strategiche, di alleanza politica tra stati, ma anche soldi in nero. Un mercato dovrebbe essere aperto, libero, fatto da vari competitors mentre il mondo degli armamenti funziona con commesse e sussidi; la corruzione può prendere la forma esplicita della mazzetta oppure del riconoscimento di un compenso di intermediazione, compenso che spesso è pure citato nei contratti di acquisto e vendita. Una terza possibilità, più insidiosa ancora, è quella che in America chiamano revolving door: il capo dell’ufficio del Pentagono sceglie certi armamenti, va in pensione e due anni dopo diventa presidente o amministratore delegato dell’azienda che produce quel sistema d’arma da lui acquistato quando era al Pentagono. In definitiva questi meccanismi di finto mercato portano a un aumento dei costi, sottraggono in ultima analisi risorse economiche ai bilanci statali, risorse che potrebbero essere usate per settori come la sanità e l’istruzione. Infine, non si parla solo di grandi somme di denaro ma anche di “prodotti” problematici. Vendere elicotteri da guerra, mitragliatrici o carri armati non equivale a vendere carote o beni di altra natura”.

 

Esiste un commercio legale delle armi e un mercato illegale, il cosiddetto traffico d’armi. La vendita illegale che fetta del mercato copre?

Innanzitutto bisogna tener conto che secondo le stime il traffico di armi illegale rappresenta solo il 5% delle armi che vengono trasferite in tutto il mondo; il 75% è commercio legale e il restante circa 20% è un commercio grigio, cioè che inizia legalmente e poi viene triangolato, nei modi che ho spiegato prima, illegalmente. Per cui quando parliamo di traffico d’armi illegale non stiamo affrontando il problema grosso. Esiste il contrabbando di armi, esistono forniture che possono avere una provenienza opaca. Ma dietro le grandi commesse, dietro i grandi

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