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7 gennaio 2012

Mini: «Scelta F-35 velleitaria, Difesa più snella»
di Umberto De Giovannangeli

«Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi possibili e indispensabili, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura di Difesa attuale a quella ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere». A sostenerlo è il generale Fabio Mini, ex Capo di Stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo nel periodo 2002-2003.

Generale Mini, avverte il rischio, paventato nell’intervista a l’Unità dall’ex Capo di Stato Maggiore, generale Vincenzo Camporini, che le nostre Forze Armate si trasformino in uno «stipendificio»?

«Stipendificio è una espressione denigratoria che non tiene conto della realtà economica e sociale del Paese . Allora, “stipendificio” sarebbe anche mantenere in piedi un apparato di polizia che è il più numeroso al mondo in termini di rapporto cittadini/forze di sicurezza. Allora, sarebbe “stipendificio” anche la Cassa integrazione guadagni che va a beneficio di lavoratori che non dipendono dalla Pubblica amministrazione. Mi sembra anche disonesto intellettualmente affrontare questo argomento come se il personale fosse responsabile dei debiti e gli armamenti fossero più importanti del personale, e come se i tagli sulla sopravvivenza e la dignità delle persone dovessero compensare i lussi della tecnologia».

Ma allora, a suo avviso, che cosa è davvero necessario fare per ridisegnare complessivamente, in termini di assetti, costi, funzioni, la Difesa italiana?

«Innanzitutto, occorre cercare di far cassa sui programmi che non incidono sugli equilibri sociali. E qui bisogna vedere quali sono i programmi di armamento non indispensabili nella qualità e nella quantità. In secondo luogo, è fondamentale ridisegnare completamente al Difesa con una riforma strutturale profonda, che deve, a mio avviso, avere le sue basi concettuali da alcune considerazioni strategiche...».

Quali?

«Essenzialmente tre: 1) La minaccia militare alla sopravvivenza dell’Italia non esiste e quand’anche si manifestasse, sarebbe affrontabile anche con poco; 2) Non siamo soli nella difesa e nella gestione della sicurezza. Dobbiamo chiedere e dobbiamo dare un equo contributo alla sicurezza comune. Equo vuole dire non solo sostenibile dal punto di vista finanziario, ma soprattutto come impegno politico nella difesa. In terza istanza, noi non siamo né americani, né russi, né cinesi, e se continuiamo così, rischiamo di non essere più nemmeno europei. Non possiamo, non dobbiamo prendere i modelli altrui che hanno mire globali, per imitare maldestramente i grandi. Finora abbiamo contribuito alla sicurezza internazionale partecipando con una quota assolutamente non equa rispetto agli impegni degli altri. Ci siamo fatti grandi di essere il terzo Paese contributore di forze militari alle missioni internazionali, credendo che questo, di per sé, ci consentisse di essere anche terzi nella considerazione mondiale. Una illusione. Perché in realtà abbiamo visto che questo non è vero, e i nostri sforzi militari, per quanto encomiabili, sono stati vanificati da atteggiamenti politici velleitari e non pari alla dignità dello sforzo della sicurezza. Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi a cui ho fatto riferimento, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura attuale a quella, ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere».

Ma quanto può durare questa transizione?

«Per gli armamenti non c’è problema. Si può cominciare da subito a individuare i mezzi che saranno necessari da qui ai prossimi dieci anni. Per il personale, la transizione durerà per il periodo minimo indispensabile a fare in modo che gli esuberi vengano assorbiti senza penalizzare il personale, e che le nuove immissioni da subito siano calibrate alla struttura del futuro. Se la crisi continua per due, tre anni, si potrà parlare della fine della transizione tra otto-dieci anni. Ma allora non avremo lo stesso strumento di oggi, diventato ancora più inefficiente, ma avremo uno strumento piccolo che ci darà la possibilità di esprimere con dignità la nostra posizione politica sullo scenario internazionale».

Resta il fatto che il dibattito e le polemiche di questi giorni si sono concentrate sul programma di acquisto di 131 F35. Qual è in proposito la sua opinione?

«Sugli F35 non contesto la scelta tecnica. Si tratta certo di un aereo migliore di quelli che abbiamo, e ci mancherebbe altro visto quanto ci costano…È però, l’F35, un aereo che è già meno sofisticato di quelli che stanno uscendo adesso e per i fanatici della tecnologia, sarà vecchio quando entrerà in servizio da noi. Quello che è ormai insostenibile, è la base concettuale sulla quale è stato fatto il programma: era velleitaria la pretesa italiana di volersi dotare di aerei che nemmeno gli Usa avevano in quel momento; era velleitario il programma numerico che nessuno in Europa si poteva permettere. Ed era velleitario, alla fine, perché non si capiva, e non si continua a capire, contro chi quel programma doveva essere impiegato».

Il presidente Obama ha annunciato per i prossimi anni un taglio di 450 miliardi di dollari al bilancio del Pentagono. È un esempio da seguire?

«È da seguire ma dobbiamo stare molto attenti perché, probabilmente, le lobby americane faranno pressioni sulla Nato affinché gli europei non solo mantengano gli impegni presi ma ne assumano altri per compensare - nel nome di una condivisione dei sacrifici - le riduzioni Usa».

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