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31/7/12

Mini: tagliamo la spesa militare, serve solo agli Usa

Bilanci in rosso e niente più nemici alle frontiere: perché allora spendere montagne di soldi in armamenti? Se proprio bisogna tagliare la Difesa, lo si può fare in due mosse: creare un modello militare agile, a basso costo, e bloccare ogni nuova fornitura di armamenti. «Quando si parla di 90 aeroplani da qui a dieci anni, significa che si mette in piedi una capacità operativa che non avevamo neanche durante la guerra fredda», dice il generale Fabio Mini, che confessa: «Sono uno di quei militari che dalla tragedia della crisi speravano che almeno prendessero forma e sostanza delle forze armate ridotte, qualificate, ammodernate e soprattutto integrate a livello europeo, in modo che il peso degli interventi si distribuisse in maniera equa tra tutti i membri dell’Unione Europea e della Nato. Cosa che fino adesso non è mai successa perché sia le spese, sia gli interventi, gravano nella Nato soltanto su quattro paesi: Germania, Francia, Inghilterra e Italia».

«Come tanti – aggiunge Mini, in un intervento sul blog di Beppe Grillo – speravo che almeno la ristrutturazione delle forze armate che è cominciata nel 1975 e non è mai stata portata a termine, fosse possibile alla luce di questo quadro geostrategico, geopolitico profondamente cambiato, soprattutto in base alle esperienze negative di tutte le guerre che abbiamo combattuto sotto falso nome, dal 1990 in poi». Pie illusioni: «Un governo cosiddetto tecnico, sostenuto dalle stesse forze politiche che ci hanno portato sull’orlo del fallimento, non avrebbe avuto altra possibilità che fare il lavoro sporco, un lavoro talmente sporco che nemmeno i politici avrebbero voluto fare». Banchieri, avvocati e industriali, ovvero il “governo ombra” di Mario Monti, hanno piazzato alla Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, «particolarmente legato alla concezione strategica americana, agli interessi degli economisti, banchieri, industriali e della casta militare».

I tecnici veri non mancano, nelle forze armate italiane, ma «negli ultimi vent’anni – protesta Mini – hanno battuto i teatri operativi, invece che i corridoi ministeriali». Se finora non sono stati in grado di riformare la struttura militare «è stato proprio a causa delle direttive politiche o della loro mancanza». In altre parole: grazie “tecnici” di ben altro genere, «che hanno fatto gli interessi di coloro che invece vedono le forze armate come mucche da mungere». Di Paola, aggiunge Mini, ha stilato direttive che hanno consegnato le nostre forze armate a una Nato diversa, che non pensa più alla difesa collettiva, ma che «è stata trasformata in una specie di Spa appartenente a una holding americana dedicata ad avventure di tipo mercenario in qualsiasi parte del globo». Lui stesso «ha firmato contratti che non esito a definire “capestro”» per l’acquisto e la fornitura «di navi e aerei che non ci servono e che smentiscono la nostra stessa Costituzione».

Sempre Di Paola, continua Mini, «ha organizzato una specie di marketing per conto di Finmeccanica, costringendo i capi di Stato maggiore a fare i piazzisti all’estero, quando Finmeccanica – da gruppo di aziende di interesse pubblico – si staccava dall’economia reale, dal mondo del lavoro, per diventare una finanziaria specializzata in speculazioni internazionali». Senza contare che i tagli della spending review non è affatto certo che si concentreranno sui “generali di cartone”, promossi con carriere-lampo senza una vera esperienza sul terreno, solo per ragioni di casta. Al contrario, «la riduzione dei dirigenti militari inciderà sui tenenti e sui colonnelli, che di fatto sono i veri tecnici specialisti». La spending review non risolve nemmeno il problema immediato dei risparmi, insistendo coi caccia F-35: «Non si sa bene contro quale avversario potenziale debba essere rivolta questa forza, e soprattutto non si sa bene perché nella Nato e in Europa debba ancora prevalere quel senso di avere forze armate pesanti, hard e separate, se non per soddisfare così quegli appetiti industriali, oppure le velleità delle varie gerarchie nazionali».

In Europa, ricorda Mini, abbiamo 27 nazioni con 27 eserciti, per un totale di un milione e 880.000 soldati in servizio attivo. «Abbiamo più navi degli americani, più aerei da combattimento degli americani, molti di più di quelli dei russi. Ma poi, quando dobbiamo andare a fare le operazioni, gli americani mettono in piedi quattro guerre contemporanee. E noi, per mandare 300 uomini in Macedonia – io me lo ricordo bene perché ero lì – abbiamo dovuto fare i salti mortali». Altro capitolo fallimentare: l’alienazione di caserme e poligoni per “fare cassa”. «Fino ad oggi non abbiamo venduto a prezzo di mercato un solo immobile», protesta Mini. «Non si considera che, per utilizzare e valorizzare questi immobili più importanti, sono necessari finanziamenti altissimi che si possono permettere soltanto i grandi speculatori, i privati e i “furbetti del quartierino”, non certo i Comuni».

Il Disegno di Legge di Di Paola, che chiede carta bianca per riformare le forze armate entro il 2024, in realtà è una delega al buio, che si limita ad enunciare tagli in modo vago, e verso guerre senza scrupoli: «Questo stesso concetto di ricorrere ai droni o ai velivoli senza pilota che è venuto fuori al vertice Nato di Chicago, e che è un prodotto concettuale della leadership di Di Paola, non è un modo di risparmiare soldi, ma serve soltanto ad ammazzare meglio rischiando di meno. E soprattutto trasformando la guerra, che è sempre una tragedia, in un costoso ma anche inconcludente videogioco». Mini la chiama “la guerra di Nintendo”. «Succede che qualcuno dalla Virginia guida un drone, questo drone sta ammazzando qualcuno, ma

lo vede come su uno schermo, come se fosse qualcosa che non lo tocca. La guerra viene spersonalizzata, viene disumanizzata, sembra che sia una realtà virtuale: questo secondo me è un grosso rischio, un rischio psicologico per chi deve farla la guerra».

Invece di essere una garanzia di stabilità, la linea di continuità con il passato che Di Paola garantisce «è una manifestazione di caparbietà, di perseveranza nell’errore». Si parla sempre di “minaccia incerta” e si dice che ci dobbiamo “preparare a tutto”. Così, «questo futuro incerto ma tecnologico è l’escamotage per mantenere forze armate numerose e aprire i cordoni della borsa pubblica a più speculatori». Il problema sta nel manico, ragiona Mini: l’idea americana è di lasciare alle forze regionali (in pratica, alla Nato) gli interventi nelle aree periferiche, «nel senso che il Medio Oriente per loro ormai è diventato periferico», come la stessa Siria. Tutto questo, «per poter concentrare le proprie forze su quelle che loro considerano le vere minacce del futuro potenziali, che sono la Cina e la Russia». Problema: «Questa linea per noi non è perseguibile, ci comporta il suicidio politico europeo».

Con il ricorso alle guerre regionali, sostiene Mini, non ci possiamo permettere nessun tipo di politica né europea e neanche mediterranea: «Non possiamo far partire questa nuova idea di guerra locale proprio dal Mediterraneo, dalla Libia, dall’Algeria, dalla Siria, perché saremmo i primi a rimetterci, come ci stiamo rimettendo in termini economici nella questione con l’Iran». Si trascurano elementi fondamentali che sono in evoluzione: la riduzione dell’impegno in Afghanistan è un fatto, anche i francesi se ne sono andati e gli americani se ne andranno a breve, perché per loro diventerà periferico anche l’Afghanistan. Inoltre, «non si considera una più equa ripartizione dei compiti militari in ambito Nato e non si considerano le minacce non prettamente militari, quelle che stanno venendo fuori». Si ignora «la limitazione di sovranità in fatto di politica estera, perché in realtà le pressioni degli Stati Uniti oppure della Nato, di tutti gli altri ambienti, ci portano a essere veramente non sovrani». Questo comporta anche una disomogeneità dei comportamenti alleati in ambito Nato, come si è verificato per l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e la Siria.

«Inoltre – aggiunge Mini – si prosegue nella strumentalizzazione degli interventi umanitari per condurre azioni di vera e propria guerra». La Germania non vuole più avere avventure di questo genere: una politica così interventista finisce per privilegiare solo gli strumenti hard, quelli duri, i carri armati della politica rispetto a quelli soft. «L’Unione Europea e la Nato si sono allargate, ma il carico maggiore di interventi grava sempre su quattro paesi. I primi tre – Gran Bretagna, Francia e Germania – si sono già di fatto sganciati da buona parte delle avventure Nato, noi invece continuiamo e stabiliamo dei principi che ci legano a filo triplo con questo tipo di concezioni che vanno bene per gli americani ma non certo per il mondo e soprattutto non vanno bene per noi e per la nostra politica, la nostra economia». Aggravante: molte crisi non sarà più possibile affidarle alle nostre forze armate, «perché si è compromesso in maniera irrimediabile il clima di consenso nazionale nei riguardi della politica e quindi la volontà politica di esprimere forza militare come surrogato e sostegno della politica estera».

Strumenti come il “soft power” della deterrenza, collaudati durante la guerra fredda, avevano potenzialità enormi ma sono stati completamente trascurati: «Non si fanno più interventi militari per rassicurare qualcuno che è sottoposto a una minaccia, quindi cooperando veramente, ma si fanno soltanto delle cose punitive». Inoltre, «stiamo ancora giocando su questa concezione che noi siamo costretti agli interventi militari hard perché qualcuno ce lo chiede, ma non è vero: siamo noi stessi che ci proponiamo, siamo noi stessi che pretendiamo di essere militarmente forti come se fossimo soli contro tutti». Tra missioni all’estero che appaiono “infinite” e persino senza un vero scopo strategico, scopriamo che ci sono operazioni che lo strumento militare non potrà più fare, perché sarà la politica a smettere di richiederlo: «E’ inutile che abbiamo 80 aeroplani, cacciabombardieri con un lungo raggio di azione, quando poi se si dovesse trattare di andare da qualche parte, in Georgia oppure in Bulgaria, un Parlamento o un governo direbbe “no, grazie”».

La Difesa è uno di quei comparti che più hanno contribuito alla crescita del debito pubblico, col pretesto di acquisire prestigio internazionale: prestigio reale, conquistato sul campo, ma  «vanificato dalle intemperanze morali dei responsabili politici, dall’inconcludenza delle operazioni». Trenta miliardi per la sicurezza? E’ una cifra abnorme, rispetto alla situazione attuale: i rischi non giustificano esborsi così clamorosi. La verità che è bisogna ridurre la drasticamente la spesa militare per almeno un decennio, dice Mini: riformare la Difesa con idee chiare, verso una forza armata più agile e sinergica con gli altri eserciti europei, e intanto sospendere ogni maxi-fornitura di sistemi d’arma, «invece di andare a mettere 14 miliardi in aerei». La finta spending review dell’ammiraglio Di Paola? Puro maquillage, sostiene Mini: si taglia personale, ma solo per trasferirlo verso altre amministrazioni statali, e non si toccano le maxi-spese militari. E senza neppure darne una seria motivazione.

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