Fonte: Al Jazeera
http://www.palestinarossa.it
14 luglio 2012

Qual è il tipo “giusto” di resistenza?
di Ibrahim Shakaki

Laureato alla UC Berkeley.
Lavora come ricercatore associato presso il Palestine Economic Research Institute (MAS)
ed è un organizzatore della gioventù di Ramallah.
Traduzione a cura di Mariano Mingarelli

La copertura mediatica del movimento di resistenza palestinese è modellato per adattarsi alla narrativa occidentale della nonviolenza.

Nel corso degli ultimi mesi, diversi mezzi di informazione internazionali hanno pubblicato articoli fissati sul cosiddetto “nuovo” movimento palestinese non-violento. Due sono gli errori che hanno accompagnato rapporto e analisi di questo tipo: Primo l’uso del termine “non-violento” e le sue connotazioni; secondo la narrativa che circonda il movimento.

Purtroppo la fonte di questi articoli è spesso data da organi di stampa influenti che hanno riferito onestamente sulla causa palestinese, compreso Al Jazeera English. Gli articoli più recenti della serie sono da Aljazeera in inglese, “Germogli verdi spuntano al checkpoint di Qalandia”, dal blog del The Economist, “Ecco che arriva la resistenza non-violenta” e dal Time Magazine’s, “Proteste di confine palestinesi: il modello di primavera araba per affrontare Israele.”

Gli articoli sono pieni di citazioni del tipo di: “eppure la resistenza tradizionale del bruciare pneumatici e del lanciare pietre non cambierà dall’oggi al domani. Abbiamo bisogno di dare al mondo un’immagine di resistenza palestinese non-violenta”, e “continueremo a marciare in modo non-violento fino a che nei media internazionali non sarà del tutto chiaro chi viola i diritti umani.”
 

#1: Non esiste una cosa del tipo di resistenza palestinese “non violenta.”

Tanto per cominciare, il pericolo insito nell’uso del termine “resistenza non violenta” sta nel suggerire l’idea che ogni altra forma di resistenza è violenta, dando quindi ad essa una connotazione negativa.

In arabo, i palestinesi non fanno distinzione tra resistenza violenta e non violenta, ma piuttosto tra resistenza armata e resistenza popolare. Il popolo palestinese e le fazioni politiche hanno appoggiato, in tutto il secolo passato, entrambe le forme, così come altre.

Infatti, a differenza di altri regimi coloniali, in Sud Africa o in Algeria, l’obiettivo del progetto coloniale sionista è quello di sradicare, di fare in Palestina pulizia etnica delle sue popolazioni indigene - e quindi, per il solo esistere e rimanere saldamente attaccati alla propria terra, i palestinesi stanno di fatto resistendo.

Quantunque non intenda patrocinare qui una specifica forma di resistenza, deve esserci una chiara distinzione tra i due diversi concetti.

Da un lato, ci sono tentativi di imporre l’idea che la nonviolenza sia l’unica forma di resistenza “consentita”, insinuando così falsamente che tutte le altre forme di resistenza sono violente, immorali o illegali. Dall’altro, l’opinione dominante ritiene la resistenza un legittimo diritto del popolo palestinese, così come lo è per qualsiasi popolo che vive sotto l’oppressione, la colonizzazione e l’occupazione straniera.

Secondo questo punto di vista, in questa fase della lotta la resistenza popolare viene ritenuta più efficace della resistenza armata. A causa della discrepanza tra queste due asserzioni, il termine “violento” è stato esteso fino a essere attribuito al lancio di pietre contro i carri armati israeliani o i posti di blocco militari solidamente blindati.

La prima Intifada si è caratterizzata per le molte e diverse forme di resistenza popolare, compresa quella dei bambini che saltano da una casa all’altra durante le ore di coprifuoco per rifornire i vicini di zucchero e farina; dei giovani che giocano a calcio sui bordi delle strade in modo da avvertire gli autori di graffiti del passaggio di un veicolo militare; del lavoro volontario; degli scioperi del commercio e dei boicottaggi; così come quella delle proteste di massa che comportavano il lancio di pietre agli avamposti militari e ai veicoli militari.

Il fatto è che affrontare con pietre una brutale macchina da guerra è però un gesto simbolico. Si tratta di un simbolo del grande divario di forza esistente tra il popolo palestinese e la macchina da guerra di Israele.

Le pietre destinate ai carri armati israeliani o ad altri veicoli armati per la inerme popolazione indigena della Palestina erano un mezzo per dimostrare il suo rifiuto dell’occupazione e dell’oppressione. Giovani, donne, anziani e tutti i settori della società hanno partecipato a questa forma di resistenza.

Le pietre potrebbero essere violente, invece, quando vengono usate sistematicamente dai soldati israeliani per fracassare gli arti ai palestinesi, come parte della politica ordinata da Yitzhak Rabin, allora ministro israeliano della difesa, del “rompere le ossa.” La Knesset si è rifiutata perfino di indagare sull’ordine di Rabin, e lui non è mai stati ritenuto responsabile.

Inoltre, gli organi di stampa che sostengono queste tattiche non violente hanno preferito trascurare del tutto il movimento di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni contro Israele. Anche se non rientra tra le due forme di resistenza accennate in precedenza, non lo si può classificare se non come una tattica rigorosamente non-violenta, che si prefigge lo scopo di fare pressione su Israele affinché ottemperi ai propri obblighi nei confronti del diritto internazionale.

La crescita travolgente del movimento BDS , unita alla poca o nessuna copertura dei suoi successi dalla maggior parte dei principali organi di informazione, non può che essere un indicatore dell’ipocrisia della loro dissertazione sulla resistenza palestinese: che mette in luce solo le forme di resistenza che vengono classificate come rilevanti – o, oserei dire, degne.

Infine, è importante comprendere il contesto del conflitto israelo-palestinese che viene spesso definito come “complesso”. I realtà, a rischio di una eccessiva semplificazione, è un conflitto tra un oppressore e un oppresso. In tale contesto, l’uso della violenza e della forza può essere esemplificato perfettamente nelle parole di Paulo Freire:

“Mai, nella storia, sono stati gli oppressi a dare l’avvio alla violenza. Come potrebbero essere gli iniziatori, se essi stessi sono il frutto della violenza? Come potrebbero essere i promotori di qualcosa il cui inizio oggettivo è stato causa del loro destino di oppressi? Non ci sarebbero degli oppressi, se non ci fosse stata in precedenza una situazione di violenza a determinare la loro sottomissione. La violenza è stata iniziata da coloro che opprimono, che sfruttano, che non riescono a riconoscere gli altri come persone e non da coloro che sono oppressi, sfruttati e non riconosciuti.”
 

# 2: Narrativa occidentale e terminologia.

Il secondo problema, sollevato da questa narrativa e dalla dissertazione relativa a questi articoli, è più importante e degno di critica.

Gli articoli presentano l’attuale cosiddetto movimento non-violento come il modo “corretto” per resistere, dove la scelta dei palestinesi di una forma corretta di resistenza starà a dimostrare il merito acquisito perché ci vengano dati i nostri diritti e l’indipendenza.

Raffigurare i nostri diritti alla libertà e all’autodeterminazione come dipendenti dalla scelta del nostro modo di resistere nella migliore delle ipotesi è inesatto, in quella peggiore piuttosto razzista.

Il sottintendere che i nostri diritti non sono stati soddisfatti perché non abbiamo dimostrato di meritarceli, solleva Israele dalla necessità di sottostare al diritto internazionale e di concederci i nostri diritti fondamentali, e fornisce pure una scusa ai paesi egemoni occidentali per concedere a Israele la totale impunibilità nel caso in cui prosegua con le sue violazioni e i suoi crimini.

Deve essere ben chiaro che il nostro diritto al ritorno e alla fine dell’occupazione israeliana, della colonizzazione e dell’Apartheid sono garantiti dalle convenzioni internazionali e la loro attuazione è un obbligo – a prescindere dai metodi di resistenza che abbiamo scelto di praticare o da qualsiasi altro fattore che riguardi tale materia.

Inoltre, suggerendo l’idea che la protesta popolare sia un fenomeno nuovo in Palestina dove “sono arrivati veri manifestanti palestinesi nonviolenti sullo stile di Martin Luther King”, è una vergognosa distorsione dei fatti da parte degli organi di stampa.

La resistenza, e in particolar modo quella popolare, ha più di un secolo di vita in Palestina, dove la stragrande maggioranza della resistenza alla colonizzazione sionista, al Mandato Britannico e poi all’oppressione di Israele ha assunto la forma di civili lotte popolari. La resistenza popolare palestinese non può che essere di stile palestinese! I giornalisti è bene che abbandonino il giornalismo pigro e che estendano la portata della memoria a più di dieci anni.

In tal modo ci è permesso seguire valori e personaggi dell’Occidente, o le orme di tutti coloro che ritengono accettabili, come Gandhi, Martin Luther King Jr (MLK). Mentre tutti sono in attesa del prossimo “Gandhi palestinese”, che cosa succede se noi vogliamo un Che Guevara o un MalcomX palestinese?

Sono loro, dopo tutto, che hanno analizzato e posto l’attenzione sulla “struttura internazionale del potere occidentale”, una struttura che è cresciuta in influenza e mezzi fin dagli anni ’50 e ’60. E pur avendo il massimo rispetto per la battaglia del satyagraha [colui che pratica la lotta non-violenta, n.d.t.] Gandhi e per il movimento per i diritti civili di Martin Luther King, non è necessario che i palestinesi guardino lontano per trovare modelli di ruolo all’interno della storia della Palestina e un retaggio di mezzi alternativi di resistenza.

Su tale questione, come nelle altre, l’ipocrisia dei poteri egemonici occidentali è predominante.

La democrazia è accettabile solo se i risultati sono quelli che loro hanno scelto - solo le politiche economiche liberiste che sono di gradimento dell’asse del male (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio) sono ammesse nei paesi in via di sviluppo; e le comunità di tutto il mondo che non stanno bene devono seguire i meccanismi occidentali di coraggio e di sostegno.

Anche se queste sono tutte questioni apparentemente diverse, vale per tutte il medesimo paradigma: ideologie dominanti occidentali e forme di intervento sono utilizzate per valutare la legittimità delle altre che vengono proposte in tutto il mondo. In particolare, per i palestinesi la narrativa è una delle questioni chiave.

Israele ha il mondo nelle sue mani, non perché usi la minaccia del potere delle armi, ma perché controlla la narrativa. Ecco perché quando un gruppo di israeliani maltratta dei palestinesi e complotta per assassinare il capo di una moschea, gli organi di stampa li etichettano come “mafiosi e bande”, o mentalmente instabili, come nel caso di Baruch Goldstein – ma mai come “terroristi” o “estremisti”.

Questo è simile ai processi di controllo indiretto che sono stati applicati in centinaia di anni di colonialismo, lo stesso tropo che è stato utilizzato per rafforzare il potere del colonizzatore: i barbari primitivi contro le persone illuminate.

Lo dimostra una recente campagna pubblicitaria negli Stati Uniti in cui si legge: “In ogni guerra tra l’uomo civilizzato e il selvaggio, sostieni l’uomo civilizzato. Sostieni Israele. Sconfiggi la Jihad…”

Fa parte del nostro ruolo di palestinesi l’essere a conoscenza delle distorsioni narrative e lottare contro tali argomentazioni. Se ci riusciamo, sarebbe molto più difficile per chiunque umiliare il popolo palestinese e la cosiddetta “leadership” palestinese, come ha fatto di recente Benjamin Netanyahu di fronte al Congresso degli Stati Uniti.
 

La forma “giusta” di resistenza?

Mentre non vi è dubbio che, all’interno della società palestinese, tutte le forme di resistenza all’oppressione devono essere rispettate e valorizzate, è fondamentale non lasciarsi trascinare nella narrativa occidentale, soprattutto perché tra i giovani della nazione un gran numero di noi si è già esposto tramite i mezzi di informazione, internet o con lo studiare all’estero.

L’idea che esiste un solo modo “giusto” di resistenza o che la resistenza armata e quella popolare siano in contraddizione è falso (o almeno non ci sono prove storiche) se si effettua una semplice analisi applicata alla storia coloniale (Algeria, Sud Africa, ecc..).

Anzi, oggigiorno, la priorità dovrebbe essere quella di coinvolgere, su vasta scala, tutti i movimenti, i gruppi e le persone nella pretesa di creare una nuova, autentica struttura dirigente che rappresenti tutti i palestinesi a prescindere dalla loro sede. Tale organismo sarebbe in grado di individuare democraticamente (e all’interno) la forma più efficace di resistenza.

Negli articoli sopraccitati, vengono riportati i partecipanti alle proteste popolari in questo modo: “Se alcuni ragazzi hanno lanciato pietre è perché, a quanto pare, non erano riusciti a frequentare i seminari sulla nonviolenza che gli organizzatori avevano preparato” e “hanno persistito a non lanciare pietre fino al momento in cui le truppe israeliane non hanno sparato gas lacrimogeni, e poi solo ad opera di adolescenti”.

Queste affermazioni danno l’impressione che i manifestanti palestinesi si scusino del gesto simbolico del lancio di pietre – e questo avviene a scapito del mettere in discussione la presenza stessa delle forze di occupazione israeliane.

La storia ha dimostrato che è costante l’uso della violenza da parte di Israele – a prescindere dalle azioni violente o non-violente dei palestinesi. E’ fondamentale che ci si renda conto che durante tutti gli anni della nostra lotta contro il sionismo e il colonialismo, la risposta sionista a tutte le forme di resistenza è sempre stata, in sostanza, la stessa – violenta.

Sessant’anni fa, quarant’anni fa, nella prima e nella seconda intifada, e nei recenti cortei “pacifici”, la risposta israeliana è sempre stata la violenza e lo spargimento di sangue – giovani uomini e donne sono stati colpiti da pallottole vere e da proiettili rivestiti di gomma, presi a randellate e soffocati dai gas tossici.

Sarebbe ingenuo aspettarsi che la risposta israeliana possa differire nel futuro, e neppure dovrebbe essere necessario resistere in modo nonviolento per mostrare la faccia abietta dell’occupazione israeliana – dato che è confermato da ogni singolo atto della vita quotidiana dei palestinesi.

Indipendentemente dalla nostra strategia, Israele continuerà a negare la nostra esistenza come nazione, non ammetterà mai la pulizia etnica che ha compiuto nel 1948 e continuerà a mettere in atto ovunque le sue misure repressive e di oppressione nei confronti dei palestinesi. Il nostro compito è quello di focalizzarci sulle nostre affinità e i punti relativi alla resistenza su cui concordiamo piuttosto che su ciò in cui divergiamo.

Il popolo palestinese deve mobilitarsi per resistere all’Apartheid israeliano grazie ad un programma che è scaturito da una discussione all’interno di un organismo veramente rappresentativo – che è possibile solo tramite l’elezione diretta di un nuovo Consiglio Legislativo Palestinese (PNC)

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