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18 luglio 2012

Palestina. "La legittima critica della Resistenza Popolare"
di Maath Musleh
traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra 

All'articolo di Linah Alsaafin - "Come l'ossessione per la nonviolenza danneggia la causa palestinese", Maath Musleh, un altro giovane giornalista e attivista, risponde: "Solo quando prenderete le armi e scenderete in strada potremo discutere. Fino ad allora, l'unica cosa che state facendo è criticare". 

La resistenza popolare che si sta svolgendo in diversi villaggi palestinesi è l’unico ostacolo attuale allo status quo. Da quando Abbas (Mahmoud “Abu Mazen” Abbas, ndt) è arrivato al potere, nel 2005, e Hamas è entrato nell’arena politica di Oslo, nel 2006, tutte le forme di resistenza si sono interrotte.

Le diverse fazioni della resistenza si sono limitate a risposte occasionali o in caso di attacchi “eccezionali” da parte di Israele. La resistenza popolare comprende manifestazioni settimanali e azioni saltuarie organizzate dal Comitato di Coordinamento della Lotta Popolare (Popular Resistance Coordination Committee - PSCC) , l’unica forma attuale di resistenza in campo.

Ma cosa ci aspettiamo da questa? Cosa sta andando male e cosa invece sta funzionando? 

Non è previsto che le manifestazioni settimanali di Nabi Saleh demoliscano l’insediamento di Halamish (anche conosciuto come Neveh Tzuf, ndt). Non ci si aspetta neanche che le azioni di resistenza popolare che si svolgono regolarmente a Hebron facciano riaprire Shuhada Street.

Dobbiamo essere realistici. Se ci si unisce alla resistenza popolare con grandi aspettative di ottenere risultati concreti si sarà presto destinati alla frustrazione e a rivoltarsi contro di essa. 

Ma ciò non toglie l’estrema importanza che queste azioni assumono.

Senza la costanza della resistenza popolare, l’Occupazione troverebbe ancora più semplice annettere ulteriore terra palestinese, demolire più case, portare avanti la pulizia etnica della Palestina. La resistenza popolare è diventata una solida forma di difesa da questi progetti. 

Nonostante il suo meraviglioso lavoro, il PSCC va incontro a numerose critiche e legittime preoccupazioni. Affrontarle è essenziale.

La critiche non indeboliscono la nostra resistenza: al contrario, la rendono più forte

Mi fa piacere constatare che il PSCC è ben consapevole di tutte queste problematiche: tra i membri che lo compongono la discussione è aperta in un modo che mi sembra costruttivo. Tuttavia, continuo a credere che sia necessario renderla pubblica.  

Una delle questioni principali che vengono spesso sollevate riguarda la fonte dei finanziamenti del PSCC. Non è un segreto che il Comitato riceva soldi dall’Autorità Palestinese, e dall’ufficio di Salam Fayyad (il primo ministro palestinese, ndt) in particolare.

Come possono accettare finanziamenti da una struttura anti-resistenza? Si tratta di una domanda perfettamente logica e legittima, ma io potrei non essere, invece, un legittimo inquirente. Il PSCC utilizza i finanziamenti per salvare dozzine di manifestanti dall’arresto. Le cauzioni per il loro rilascio possono aggirarsi tra i 2.000 e i 7.000 Shekels. Il PSCC paga anche gli avvocati che assumono la difesa degli arrestati. 

Il giorno in cui sarò in grado di fornire una fonte alternativa di soldi, mi convincerò ad alzarmi in piedi e domandare “perché i soldi di Fayyad?”. 

Per gli attivisti che partecipano alle manifestazioni settimanali è fondamentale sapere che se verranno arrestati qualcuno li tirerà fuori. Fa una bella differenza quando sei in carcere sapere che qualcuno sta seguendo il tuo caso. 

D’altra parte, Fayyad non sta facendo alcun favore al PSCC. I finanziamenti che destina al PSCC arrivano dalle tasse palestinesi. Sono soldi del popolo: non vengono dal portafogli di Fayyad. Non sarebbe giusto chiedere al Comitato di rifiutare quei fondi quando non siamo in grado di fornire un’alternativa. 

Tutte le componenti dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ricevono mensilmente finanziamenti da Mahmoud Abbas, e nessuno mette in discussione questa cosa. 

I costi che devono sostenere gli arrestati vanno oltre la parcella dell’avvocato e la cauzione. Se un attivista viene condannato a scontare del tempo in carcere, lui o lei avrà bisogno di sostegno soprattutto per la mensa. In molti casi ignoriamo completamente i prigionieri che provengono da differenti classi sociali.

Il gruppo di attivisti ebrei – prevalentemente anarchici – che hanno cittadinanza israeliana, sostengono molti di quei prigionieri ignorati. Raccolgono regolarmente fondi da destinare loro in carcere. Questo gruppo di attivisti prende parte ogni settimana alle manifestazioni organizzate dal PSCC. 

Se è però ovvio che le relazioni con i cosiddetti “sionisti liberali” è inaccettabile, è vero anche che i palestinesi non hanno raggiunto un consenso chiaro sulle relazioni con gli ebrei anti-sionisti. 

Qualche palestinese sostiene che gli attivisti ebrei che hanno cittadinanza israeliana dovrebbero lavorare esclusivamente all’interno della loro comunità.

Ma che cos’è esattamente la loro comunità? È la comunità israeliana? Se sì, mi chiedo: la vostra definizione comprende anche il milione e mezzo di palestinesi con cittadinanza israeliana? Se non è così, comprende invece elusivamente gli ebrei? 

Stiamo sostenendo che vogliamo rimandare gli ebrei nel ghetto di Tel Aviv? Ricordiamoci che molti di questi ebrei anti-sionisti hanno costruito la loro visione anti-sionista proprio quando lo hanno lasciato, quel ghetto. 

Il governo israeliano fa pressioni sull’OLP perché cambi la sua definizione di “palestinese” stabilita durante gli Accordi di Oslo. L’OLP definisce “palestinese” qualunque persona che vivesse in Palestina prima del Piano di Partizione del 1947 e i loro discendenti. Questo include tutti gli ebrei che vivevano sul territorio della Palestina storica. Gli ebrei che vivevano in Palestina prima del novembre 1947 dovrebbero avere cittadinanza palestinese. 

Stiamo anche dimenticando che diversi ebrei si trovano attualmente nelle carceri israeliane per il ruolo assunto durante resistenza armata palestinese.

Gli esempi di ebrei che hanno partecipato alla lotta palestinese contro il sionismo sono moltissimi. Anche il Consiglio rivoluzionario di al-Fatah ha al suo interno un membro ebreo: Uri Davis. 

Anche se la maggior parte degli attivisti ebrei non definisce se stesso come “israeliano”, è tempo per loro di assumere una definizione chiara. Chi sono? Sono ebrei palestinesi? Questo punto dovrebbe essere chiarito fra loro, e potrebbe rappresentare la chiave per aiutare i palestinesi a raggiungere un consenso in merito. 

Uno degli argomenti sollevati contro la partecipazione di ebrei anti-sionisti alla lotta palestinese è che si tratta di privilegiati. Ma anche molti palestinesi non-ebrei lo sono. Io sono un privilegiato. 

È corretto sostenere che gli ebrei con cittadinanza israeliana hanno molti privilegi in più. Possono avere benefici dalle leggi di apartheid messe in pratica dallo stato di Israele. Ciò nonostante, questi attivisti rinunciano spesso a moltissimi dei loro privilegi.

Sono stato personalmente testimone della brutalità che le forze di Occupazione israeliana usano contro gli ebrei anti-sionisti.

L’unica cosa che ferma lo stato di Israele dal dichiarare gli anti-sionisti come non-israeliani è che contraddirebbero la loro stessa retorica. Punterebbero un arma alla testa della retorica per cui “Israele è la casa di tutti gli ebrei”. Sarebbe l’inizio della fine. 

Qualche palestinese sostiene che la partecipazione di questi ebrei anti-sionisti migliora l’aspetto che Israele da di sé. Ma come può essere vero se questi attivisti fanno pubblicamente appello al Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) in ogni contesto?

Sostengono lo smantellamento dello stato di Israele: in che modo questo può migliorarne l’immagine? Se c’è qualcosa che stanno facendo, è esattamente l’opposto. 

Stanno mostrando il volto peggiore dello stato sionista. Questi ebrei anti-sionisti partecipano della resistenza palestinese perché è anche la loro lotta contro lo stato sionista. Non possiamo chiedere loro di restare nel ghetto. 

Vale la pena notare che hanno una comprensione chiarissima di tutte queste sensibilità. Non hanno mai provato a influenzare l’agenda politica delle lotte. Hanno sempre accettato tutte le critiche e gli attacchi contro la loro partecipazione con il cuore aperto. 

Ma, lasciatemelo ricordare, si tratta di esseri umani, con sensibilità e sogni. Si trovano nel mezzo, e meritano di essere accettati da qualche parte.

Non saranno certamente accettati nella comunità sionista; tuttavia, per essere accettati completamente all’interno della lotta palestinese, dovrebbero trovare una chiara definizione di chi siano. 

Molti palestinesi mettono in discussione la partecipazione di attivisti internazionali alle manifestazioni settimanali. È vero che in molte di queste dimostrazioni il numero di attivisti internazionali supera quello dei palestinesi. 

Non è perché gli internazionali partecipano a centinaia. È semplicemente perché i palestinesi non partecipano abbastanza. La soluzione è semplice: invece di criticare la superiorità numerica, scendete per strada e partecipate voi stessi alle manifestazioni. Solo così riusciremo facilmente ad essere più di loro.

Oltretutto, il numero di palestinesi che critica la partecipazione degli internazionali è di gran lunga superiore al numero di internazionali che prendono parte alle manifestazioni. Tutte queste critiche e preoccupazioni sono legittime, ma nella maggior parte dei casi rimangono critiche negative. 

Tanti mettono anche in discussione l’utilizzo del termine “resistenza non armata”, ma quale sarebbe l’alternativa? Stare a casa e non fare niente? Nessuno sta impedendo a nessun altro di praticare qualunque tipo di resistenza. 

È importante ricordare che la maggior parte dei palestinesi che guidano la resistenza popolare ha sempre affermato il nostro diritto a resistere in ogni modo, compresa la resistenza armata. 

Solo quando prenderete le vostre armi e scenderete in strada per resistere, solo allora potremmo avere una discussione. Fino ad allora non state facendo niente, se non criticare. 

 

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