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26 settembre 2012

Cooperare per una nuova democrazia
di Patrizia Sentinelli

L’articolo di Monica Di Sisto e Riccardo Troisi, «Requiem per la cooperazione internazionale», rimbalza in rete facendo molto discutere. Anche Patrizia Sentinelli, già vice ministra degli affari esteri nel governo Prodi (II), (ma anche consigliera comunale a Roma e deputata con il Prc, per il quale è stata responsabile nazionale dell’area Movimenti, e promotrice del progetto Altramente), qui di seguito scrive prendendo spunto dalla legge di riforma della cooperazione internazionale.

Continuare a discutere di cooperazione senza affrontare il quadro radicalmente cambiato in cui siamo rischia di essere inutile e frustante e di creare solo fraintendimenti e divisioni che non corrispondono neppure alla realtà delle cose. Da quando nel secondo governo Prodi mi occupai, per ventidue mesi, di cooperazione allo sviluppo e di Africa Sub sahariana ad oggi possiamo ben dire che tutto è diverso. Da un lato è andata avanti una crisi della politica nei termini che anche in queste ore appaiono drammaticamente evidenti. Dall’altro si è aperta quella che mi pare essere una vera e propria fase costituente di una nuova dimensione della politica e cioè quella tecnocratica.

Non può non colpire chi come noi ha operato per una dimensione internazionale della politica stessa, e lo ha fatto dal versante dei movimenti, ma anche da quello più istituzionale, il fatto che la internazionalizzazione della politica stia effettivamente realizzandosi ma in forme radicalmente inverse a quelle per le quali ci eravamo impegnati. Intendiamoci: la internazionalizzazione è in corso da tempo e noi che abbiamo militato nel movimento di critica altermondialista l’abbiamo saputa riconoscere nel suo dispiegarsi e ne abbiamo denunciato la sua natura e il suo agire. Una natura connessa alla globalizzazione liberista, al suo carattere predatorio, all’egemonia esercitata dal nuovo potere finanziario. Un agire in rottura con i vecchi compromessi sociali, tale da rimettere in discussione la stessa dimensione democratica in nome dell’imposizione di quello che è stato chiamato il pensiero unico e la logica «Tina», there is not alternative. La novità dell’oggi che stiamo vivendo è che questa dimensione non solo sta sopravvivendo a una crisi gravissima e senza precedenti ma ne ha fatto l’occasione per costruire in uno dei punti più avanzati della Storia nostra, l’Europa, una nuova dimensione di internazionalizzazione segnata da logiche di dominio finanziario e tecnocratico.

La fase costituente che sta vivendo l’Europa è senza precedenti e, nel corso di pochissimi mesi, ha visto imporre un nuovo pensiero unico, quello del debito, e una nuova struttura di governance che si sta costituzionalizzando attraverso la sostanziale fuoriuscita dalle vecchie forme democratiche. Il vecchio modello del compromesso sociale europeo rischia di non esistere più e di essere sostituito definitivamente da una creazione che sembra stare a metà tra il modello Nord americano e quello cinese, nei loro aspetti peggiori. Per far capire che non esagero invito a riflettere su come anche un paradigma che avevamo contestato e contrastato come avverso a quello della cooperazione, quello della competizione, viene oggi addirittura messo in secondo piano dall’irrompere della categoria del domino dell’austerità e della stessa intollerabilità di elementi di concorrenza reali a fronte dell’imposizione del comando. Lo stesso vale per un altro termine «tossico» come sviluppo anch’esso ormai soppiantato nei fatti, se non nei proclami, dalla narrazione assolutizzante dell’austerità. L’Europa, come già capitò per l’avvio della fase della finanziarizzazione, è quella che indica la strada di un ulteriore salto di qualità verso un nuovo ordine a dominio finanziario e tecnocratico capace di superare la crisi della vecchia globalizzazione liberale. E così facendo contribuisce in negativo a definire i trend delle grandi governance globali. Basti pensare agli esiti delle Conferenze di Copenhagen e di Rio più 20 per vedere che il compromesso che fu del protocollo di Kyoto viene sempre più forzato in direzione della mercificazione degli elementi naturali e della finanziarizzazione del mercato del carbonio; e di una gestione neoimperiale degli scambi tecnologici. Come ciò possa evitare il default ambientale della specie umana è tutto da vedere. Ma intanto il pensiero unico impone la spada di Damocle del debito finanziario.

Dicevo all’inizio che l’altro elemento di novità, in realtà non nuovo ma sempre più grave, è la crisi della politica, che porta con sé anche la crisi della stessa dimensione della res pubblica. In realtà questa crisi discende nella sua natura oggettiva, che non giustifica naturalmente i comportamenti soggettivi, ma che porta a concezioni privatistiche della politica e della intera sfera pubblica. È un processo di privatizzazione che in profondo è una privazione: privazione della possibilità di esser riconosciuti come soggetti, nella pluralità delle esistenze. La politica non deve più scegliere ma solo servire il dominio; il pubblico non deve più realizzare accesso ma al contrario permettere profitto e discrezionalità. In questo quadro la cooperazione è morta, sostanzialmente ed etimologicamente. È morta perché non esiste più in quella tecno sfera che il nuovo dominio vuole sostituire alla realtà sovrapponendosi ad essa.

Nella megamacchina del dominio di cui ci parla Luciano Gallino la cooperazione è indicibile, come la lettura di libri in Fahrenheit 451! Ma proprio i vecchi film di fantascienza, ormai superati in immaginazione dalla realtà, ci dicono che c’è sempre una Resistenza che sopravvive al potere. Perciò occorre spostare lo sguardo per vedere le pratiche agite e le esperienze maturate. Non attardarsi e accapigliarsi su una legge di riforma della cooperazione che è rivolta all’indietro, né se è meglio collocare i suoi responsabili istituzionali presso il ministero degli esteri o farne un ministero autonomo. Si pensi, invece, alla cooperazione come essa stessa politica e si rompa quel circolo vizioso e infruttuoso costruito attorno alle politiche di cooperazione. Così acquista rilevanza programmatica sostenere le pratiche per i beni comuni, o quelle delle economie solidali, e ancora tutto ciò che muove e promuove autogoverno e il Comune. Per riuscirci, bisogna scartare e valorizzare le reti, i movimenti, gli attori sociali che si costituiscono come altro. Penso anche a nuove strade, come quelle ad esempio che indica l’iniziativa internazionale Dichiariamo illegale la povertà volta attraverso campagne di sensibilizzazione a cambiare le leggi e le istituzioni che hanno portato in campo il dominio della finanza e accresciuto la povertà nel mondo. Insomma la cooperazione per una nuova democrazia.

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