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6 ottobre 2012

Il tempo della de-cooperazione
di Ilaria Olimpico

Ilaria Olimpico, scrive un commento articolato a «La cooperazione non vende fumo. Semmai petrolio».Secondo Ilaria è giunta l’ ora della «de-cooperazione: è ora che chi lavora per la solidarietà internazionale abbia il coraggio di rifiutare in toto il paradigma della “cooperazione” e sperimentarsi con un paradigma altro, che costruisca relazioni nord-sud, centri-periferie, completamente nuove. Ecco perchè, in analogia con l’espressione decrescita, Ilaria propone di utilizzare l’espressione decooperazione.

La «cooperazione» si inserisce in un quadro di riferimento geopolitico e culturale: geopolitico, in quanto prevede una relazione tra due o più attori, con posizioni di potere differente (al di là della recente retorica sulla partnership), individuati per appartenenza sostanzialmente geografica, e culturale, in quanto la relazione risente delle rappresentazioni e autorappresentazioni degli attori, ed è finalizzata a un obiettivo culturalmente caratterizzato, ossia il cosiddetto «sviluppo».

Nello specifico, la cooperazione si innesta nel contesto geopolitico-culturale sorto dal periodo post-seconda guerra mondiale: il bipolarismo e il processo di decolonizzazione. Sia il comunismo sovietico sia il capitalismo occidentale condividono una cronosofia lineare e progressista, ereditata dall’Illuminismo, una visione dello «sviluppo per stadi necessari» e quindi una comune «teoria della modernizzazione». Quando il presidente statunitense Truman nel suo discorso inaugurale del 1959 usa il termine «sottosviluppo» due milioni di esseri umani che erano definiti prima «selvaggi e primitivi» diventano «sottosviluppati».

Si passa da una retorica razzista a una culturalista: le condizioni differenti di vita dei popoli «altri», secondo la retorica razzista, erano il risultato della loro «natura di esseri inferiori», secondo la retorica culturalista, sono il risultato della loro «cultura inferiore»; rimane quindi la distinzione tra «popoli superiori e inferiori», ma si dà l’opportunità ai «popoli inferiori» di «svilupparsi» e «progredire» (ovviamente secondo le modalità previste dai «popoli superiori»).

Si può, estremizzando, immaginare un continuum che va dal concetto di white man’s burden dell’era colonialista, all’espressione «aiuti allo sviluppo» dell’era della cooperazione. Così la relazione di potere, che in apparenza diventa più labile, in realtà si rafforza in maniera sempre più subdola.

Il termine «sviluppo», obiettivo primario della cooperazione (non a caso si parla di «cooperazione allo sviluppo» e moltissime Ong riportano tale termine nei loro nomi, nella loro mission e nei loro progetti), non soltanto è invischiato in un discorso eurocentrico, ma presuppone l’esistenza di un modello unico e omologante, in cui la crescita economica, l’inurbamento e l’industrializzazione sono i parametri della modernità. Tutti gli aggettivi che dagli anni Ottanta sono stati utilizzati per accompagnare il termine «sviluppo» (umano, sostenibile, locale, autocentrato, etc) hanno inizialmente fatto sperare in un cambiamento di prospettiva e approccio, ma in realtà non appena sono stati istituzionalizzati hanno perso la loro carica «rivoluzionaria» e sono diventati «i nuovi vestiti del re nudo».

Lo sviluppo propugnato nell’ambito della cooperazione da Ong e governi, come la panacea di tutti i mali, come la nuova strada per la pace, è un mito.

I teorici della dipendenza (André Gunder Frank, Samir Amin, etc.) hanno rivelato tutte le incongruenze delle teorie della modernizzazione, spiegando come lo sviluppo del «centro» si nutra del sottosviluppo della «periferia». Il nocciolo della questione non è nel cambiamento di posizione dei paesi «poveri» nel Sistema Mondo ma piuttosto il cambiamento del Sistema Mondo.

In quest’ottica, le Ong che fanno cooperazione diventano facilmente «appendici di un regime di sviluppo neoliberista», tanto più quando condividono visioni del mondo e strategie di modernizzazione e sviluppo con gli Stati e con le agenzie internazionali, di cui utilizzano i fondi. Non stupisce allora che gli operatori delle Ong siano malvisti in alcune zone del mondo dalla popolazione e dai movimenti che si oppongono in toto all’egemonia neoliberista, o addirittura diventino talvolta bersagli di rappresaglie perché simboli dell’Occidente.

Non si può pretendere di essere allo stesso tempo «santi» e «mercenari». Le Ong inoltre sembra che attraversino la fase di «spostamento dei fini» delle organizzazioni: l’organizzazione perde di vista il suo fine originario e l’unico fine diventa la sua autoperpetuazione, così che spesso troppa parte dei fondi viene spesa in gestione amministrativa e «mantenimento». Pur volendo accettare la buona fede delle Ong e delle organizzazioni umanitarie bisognerà pur sempre considerare il potere esercitato attraverso il «discorso» e la «conoscenza».

Secondo Michel Foucault, il «discorso» sull’altro è una forma di dominio sull’altro; come ha ben spiegato Edward Said, a proposito dell’Orientalismo, la conoscenza non è mai «neutrale», l’altro è studiato, interpretato, conosciuto e rappresentato al di là di se stesso, postulando che l’altro, «non essendo capace di rappresentarsi ha bisogno di essere rappresentato». Allora, bisognerà porsi molte domande circa la sindrome da «angeli custodi» delle Ong, che, vestite di ali, minacciano la libertà espressiva e di autorappresentazione dell’altro.

Così come bisognerà porsi molte domande sulla responsabilità delle Ong nel perpetuarsi del sistema neoliberista: facendosi carico di rimediare ai danni o alle emergenze provocate dal sistema neoliberista e dalle guerre (che ne sono parte integrante), senza opporvisi con decisione, contribuiscono a nascondere il vero volto disumano del sistema e rallentarne la caduta.

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