Domenica 11 Novembre 2012 23:06

Eclissi della cooperazione dal basso?
Riflessioni a margine dell’ultimo Forum della Cooperazione Internazionale
di Antonino Drago e Gianmarco Pisa

In Italia ci sono più di venti corsi di laurea in “Cooperazione allo sviluppo e pace”. Il numero rilevante di corsi di questo tipo, ormai in quasi tutte le Università italiane, indica che il tema della cooperazione ha acquisito un peso culturale notevole come corrispettivo, nella attuale storia post-coloniale, delle molte attività in tal senso che si svolgono in Italia e all’estero. Mentre tutti gli altri corsi sono di fatto circoscritti ai primi due temi – la cooperazione e lo sviluppo – il corso di laurea in “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa è l’unico che include e articola il tema della pace in maniera significativa. Si tratta di una scelta culturale e politica di fondo, che risponde alle tre 'anime' del corso di laurea: quella matematico-scientifica, quella nonviolenta (alla quale si può associare quella della democrazia e dei diritti umani) e quella della cooperazione. Secondo questa impostazione, le questioni relative alla cooperazione sono articolate all’interno del più ampio e complesso tema della pace; e giustamente. Perché senza giustizia non c’è pace, e senza la costruzione o il ristabilimento di rapporti di equità, la proposta di pace diventerebbe ipocrisia.

A meno che, come avviene da molto tempo, a proporre la cooperazione e la pace siano soggetti differenti per finalità, organizzazione e modus operandi. Infatti è noto che lo Stato offre forme di cooperazione all’interno delle strutture militari (ad esempio dal 2004 la cooperazione scientifico-tecnologica con Israele, la quale coinvolge anche le Università) e, nel civile, all’interno dei rapporti di espansione dell’industria e più in generale delle multinazionali italiane. Ben diversa è la cooperazione che offrono le ONG che, già dagli anni ‘60 come ad esempio la Overseas di Modena, hanno deciso di intervenire solo “da società civile a società civile”, direttamente e dal basso, magari invitando nei paesi più ricchi le persone del paese partner per acquisire esperienza professionale e tecnica da riportare nel paese d’origine.

Questo ‘doppio binario’ della cooperazione dipende strettamente dal Ministero degli Affari Esteri, che ha il compito per legge di regolare i rapporti delle ONG all’estero; e lo fa con esosità e pignoleria, imponendo anche direzioni generali. Ad esempio, nel dopo 1989, gran parte dei fondi sono stati dirottati alle ONG che intervenivano nei Paesi ex-socialisti, lasciando in difficoltà gli interventi negli altri continenti. Come pure non sorprende che nascano ONG dall’alto, come nel caso della guerra in Afganistan, dal momento che la maggior parte delle organizzazioni esistenti non vollero compartecipare neanche nell’assistenza. Negli ultimi cinque anni i fondi per la cooperazione sono stati drasticamente e unilateralmente ridotti ameno della metà, mentre altre spese, ad esempio quelle militari, non hanno subito questa riduzione ma registrano continui aumenti. Per fortuna negli ultimi decenni le ONG hanno potuto accedere anche ai finanziamenti dell’Unione Europea, accettando di sottostare a regole assai esigenti dal punto di vista della gestione. Complessivamente dunque questo doppio binario, per quanto problematico, non ha finora impedito alle ONG di sopravvivere, sia pure imponendo loro un grande spirito di adattamento.

La due-giorni di Forum italiano della Cooperazione Internazionale, svoltosi a Milano, tra l’1 e il 2 ottobre scorsi, ha indubbiamente contribuito a ricollocare all’interno del dibattito pubblico il tema che ne era stato letteralmente espulso nel corso di anni passati, tra disinteresse sociale, depauperamento economico e (gravi) responsabilità politico-istituzionali. Difficile tuttavia ascrivere a questo Forum altri meriti se non quello della ripresa di una certa pubblica attenzione. Nessuna innovazione vera nelle categorie, nelle policy proposte e nelle pratiche presentate, con un continuo ritorno, perfino imbarazzante, alle categorie dello sviluppo e dello “sviluppismo” tradizionali, su cui peraltro, il dibattito e la letteratura si stanno confrontando (per superarle) almeno da due decenni. Poco spazio alla realtà dinamica della cooperazione del nostro Paese quale questa è, sia nell’intervento dello Stato in termini di Aiuto Pubblico allo Sviluppo (ridotto a percentuali infinitesimali del Prodotto Lordo Italiano) e cooperazione bilaterale e multilaterale (ridimensionata intorno alle aree di prevalente interesse economico e strategico del cosiddetto “sistema Italia”), sia nell’azione della società civile, relegata quasi al ruolo di spettatore, se non di comparsa, invece che di attore cooperante all’interno di una vera e paritaria collaborazione tra popoli, territori e comunità.

Una quantità ridondante, infine, di presenze a dir poco imbarazzanti. Blaise Compaoré, attuale presidente del Burkina Faso, è stato presentato come l’artefice della mediazione internazionale che ha consentito la liberazione della nostra Rossella Urru ma tutti sanno, dopo la vibrante campagna innescata dal Comitato Italiano “Thomas Sankara”, che genere di presidente-mediatore sia costui: citato negli elenchi dell’inchiesta contro Charles Taylor, implicato nei conflitti sanguinosi in Liberia e in Sierra Leone e nei traffici d’armi e diamanti per l’UNITA di Jonas Sawimbi, all’epoca sotto embargo, principale artefice dell’assassinio di Thomas Sankara, dopo la cui uccisione prese il potere, “normalizzando” il Paese e “destituendo” la rivoluzione sankariana.

Paolo Scaroni, amministratore delegato di ENI, ha vantato le dimensioni dell’azienda come global player e competitore saliente nel mercato africano del petrolio e soprattutto del gas, ha rivendicato il suo ruolo nella promozione di programmi di sviluppo attraverso il reinvestimento degli utili e ha richiamato la lezione di Enrico Mattei, con la sua “diplomazia energetica” e l’apertura di nuovi scenari di cooperazione. Ma non ha potuto far dimenticare quello che la presenza di ENI significa negli scenari in cui l’azienda opera: la riduzione del fenomeno del gas flaring lungo il delta del Niger è stata una mera dichiarazione d’intenti; in realtà la portata della devastazione sociale, ambientale e territoriale legata all’estrazione del gas ad opera dell’azienda nella regione è stata e continua ad essere ampiamente documentata e denunciata tra gli altri dall’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, mentre numerose comunità del delta del Niger, residenti in prossimità degli stabilimenti produttivi dell’ENI, continuano a non disporre di elettricità.

Infine, Giuseppe Sala, amministratore delegato di EXPO 2015, nella sessione conclusiva, ha illustrato il percorso e il profilo dell’Esposizione che attende Milano ormai di qui a poco, parlando di innovazioni strategiche e cluster tematici che suonano, tuttavia, ambigui sulla bocca di chi dal 2009, nella fase terminale dell’amministrazione di Letizia Moratti, ha rivestito l’incarico di Direttore Generale del Comune di Milano.

Sin qui l’imbarazzo. Che, tuttavia, durante la sessione plenaria introduttiva, ha lasciato il luogo alla profonda delusione nel vedere numerosi esponenti del Consiglio dei Ministri senza però riuscire ad ascoltare nessuna seria riflessione sul fenomeno della cooperazione nell’attuale scenario di crisi economiche, ambientali, energetiche globali: dal Presidente del Consiglio Mario Monti, che si è limitato a svolgere una relazione all’insegna della dignità, della credibilità e dell’immagine dell’Italia nel mondo, passando per i ministri degli Esteri Terzi, degli Interni Cancellieri, della Salute Balduzzi, dell’Economia Grilli. Chiudendo i lavori, durante l’assise finale, il Ministro della Cooperazione Andrea Riccardi, che più di ogni altro ha voluto (ed in questa forma) il Forum della Cooperazione, solo in un paio di rapidi passaggi del suo intervento ha ricordato che cooperazione è “anche” cooperazione dei territori e tra i territori e che il nesso tra cooperazione e sviluppo è anche il nesso tra cooperazione e pace: forse è l’unica volta che, tra le relazioni in plenaria, si è sentita sente risuonare velocemente la parola “pace”.

È sembrato di essere tornati indietro di molti anni: ad un vecchio mondo, in cui il rapporto partenariale era quello tradizionale e gerarchico tra donatore e beneficiario; quando la dinamica di relazione tra mondo (e interessi) profit era privilegiata in maniera quasi esclusiva dallo Stato rispetto al mondo (ed agli interessi) no-profit; quando l’Unione Europea non si era ancora esercitata nel cosiddetto LRRD (Linking Relief, Rehabilitation and Development) e l’OSCE non aveva ancora emesso le proprie importanti raccomandazioni sulla declinazione del nesso tra pace e sviluppo e sulla cooperazione comunitaria allo sviluppo come via praticabile per il lavoro di pace positiva, capace cioè di unire pace con giustizia. Il ‘nuovo volto’ della cooperazione presentato a Milano è stato, purtroppo, inopinatamente confermato persino da alcuni interventi di ‘operatori del settore’, che hanno invitato a “superare definitivamente la separazione ideologica tra cooperazione [quella fatta dalle comunità] e internazionalizzazione [quella fatta per i profitti delle imprese]”. Gli stessi hanno ricordato che “non si può procedere in ordine sparso; e quindi la cooperazione deve essere resa coerente con la politica estera del governo”. Politica estera che, purtroppo, aderisce ai piani della ‘guerra umanitaria’, ha salutato con favore l’intervento ‘protettivo’ in Libia e si prende complice della sanguinosa guerra civile che sta devastando la Siria.

C’è dunque molto da rivedere, nella cooperazione allo sviluppo, ma non nel senso per il quale spinge questo governo. Non nel senso, cioè, della cooperazione fatta dai privati, per esigenze di immagine e a tutela degli interessi nazionali e dei profitti economici, non più semplicemente ‘inscritta’ nella ma addirittura ‘a servizio’ della politica del governo e della logica del business, coinvolgendo persino, sempre più, i militari nella gestione delle crisi e delle emergenze. Giustamente nei gruppi di lavoro è stato ricordato che la cooperazione internazionale è una scelta politica. Ma allora, non dovrebbe essere lasciata nelle mani di burocrati, di tecnocrati e di militari nell’ambito del CIMIC (Cooperazione Civile e Militare).

D’altra parte anche la pace non vive un momento migliore nel nostro paese. La legislazione sulla difesa civile non armata e nonviolenta (legge 230/1998) è stata smantellata. Il decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66, l’ha in gran parte abrogata salvandone solo alcuni articoli: quelli del riconoscimento individuale dell’obiezione di coscienza e quelli del mantenimento della struttura operativa del servizio civile (UNSC). Ma questo Ufficio è stato fatto dipendere da una dirigente ministeriale che si occupa di generiche politiche sociali. Tutta la materia restante nella legislazione è stata organizzata in un testo unico, quindi organicamente legiferante su un oggetto giuridico unico, relativo al Codice dell’ordinamento militare; come se né obiezione di coscienza né difesa civile non armata e nonviolenta fossero più alternative alla difesa militare. Di fatto è stato deciso di non proseguire con l’esperienza del Comitato ministeriale per la Difesa civile non armata e nonviolenta, caduto anch’esso come la Consulta Nazionale per il Servizio Civile sotto i colpi della spending review dell’attuale governo.

Come fa con i Comuni, le Province, le Regioni, le parti sociali il governo ripete che siamo in tempo di crisi, e che ogni decisione drastica è giustificata dall’emergenza. Il corso di laurea in “Scienze per la Pace” conosce bene l’emergenza: l’ha vissuta fin dalla sua nascita, quando ha dovuto faticare per rompere un ghiaccio culturale universitario millenario; l’ha vissuta in fase acuta due anni fa, per aver dovuto rientrare nei nuovi criteri ministeriali finalizzati, di fatto, alla riduzione quantitativa dei corsi a prescindere dalla loro qualità. Dalle due sfide è uscito indenne, anzi rafforzato di una laurea magistrale. Oggi però si impone una nuova emergenza. Si tratta di affrontare la povertà politica attuale, espressa dallo statalismo accentratore e autoritario travestito da ‘governo dei tecnici’, che colpisce in modo particolare due delle ‘anime’ del corso: la cooperazione e la difesa alternativa nonviolenta.

Spesso, in tempi difficili, le università ha dovuto accollarsi rispetto alla politica il compito di illuminare criticamente il quadro esistente, per prefigurare un salto storico verso una nuova realtà. Nel nostro caso, negli ultimi decenni la popolazione italiana ha sentito molto vicina questa nuova realtà, ma il suo consolidamento e la sua diffusione hanno incontrato numerosi ostacoli che oggi sembrano farsi particolarmente forti. In questo scenario, anche l’esercizio della memoria è utile a riaprire il futuro a partire da un presente assai incerto: il prossimo dicembre ricorreranno i cinquant’anni dalla prima legge sulla obiezione di coscienza in Italia, con la conseguente nascita del Servizio civile in forma auto-gestita. Dopo due guerre mondiali, nei paesi che le avevano promosse incuranti degli enormi danni per le popolazioni civili, lo spirito dell’obiezione di coscienza ha aperto una nuova stagione: a quello spirito dobbiamo tornare, per costruire le condizioni per un futuro di pace e giustizia dopo la crisi globale.

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