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01/10/2012.

Il De Profundis della Cooperazione

Roma, 1 ottobre 2012 – In occasione del Forum della Cooperazione, attualmente in corso a Milano, Re:Common rende pubblica la sua posizione molto critica sull’attuale sistema di aiuti allo sviluppo promosso dalla cooperazione italiana e del resto dei Paesi del Nord del mondo e sullo sdoganamento del settore privato transnazionale come l’attore principe dello sviluppo.

Re:Common ha da pochi mesi raccolto il testimone dalla Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, che per 16 anni si è occupata di finanza per lo sviluppo, provando a svelare i meccanismi attraverso i quali, dietro l’aiuto pubblico allo sviluppo, altro non si celasse che un sistema post-coloniale per continuare a predare le risorse naturali dei Paesi del Sud.

Gli strumenti utilizzati per assicurarsi questi obiettivi sono noti: la trappola del debito, le condizionalità, gli aggiustamenti strutturali, l’aiuto legato. Per limitare le critiche e non percepirci come avidi sfruttatori è stata impiegata in maniera diffusa la retorica dello sviluppo.

I concetti di “aiuto”, “cooperazione” e “sviluppo”, hanno permesso di strutturare un impianto di sfruttamento e sottomissione, al livello dell’etica filantropica. Mentre depredavamo i Paesi del Sud per garantire il nostro insostenibile stile di vita, lo facevamo a “fin di bene”, con lo scopo di migliorare il mondo e ridurre la povertà. Questo meccanismo si è a sua volta smascherato da solo proprio quando, con la grave crisi finanziaria ed economica che sta tormentando anche le economie “avanzate”, ogni impegno finanziario per l’aiuto allo sviluppo è definitivamente saltato, a fronte di un atteggiamento più aggressivo e palese di accaparramento delle risorse naturali nel Sud globale. In proposito le economie emergenti purtroppo hanno sposato appieno lo stesso modello fallimentare di sviluppo e di aiuto.

Ma un’ulteriore riflessione va fatta, anche in base ai dati disponibili: ogni dollaro che il Sud riceve in aiuto pubblico allo sviluppo, 10 dollari seguono il percorso inverso, tornano a Nord, tramite l’utilizzo di sofisticati trucchi finanziari, la realizzazione di progetti tanto faraonici quanto inutili, i sussidi più o meno mascherati alle nostre imprese e l’utilizzo sistematico e sfrontato dei paradisi fiscali. Un flusso finanziario inverso che da solo supera la somma degli aiuti allo sviluppo e degli investimenti diretti esteri. Una vera e propria fuga di capitali che va a pesare negativamente sui bilanci pubblici dei Paesi poveri. Ed oggi di fronte la crisi del sistema degli aiuti il governo e l’Unione europea propongono che proprio gli stessi investitori privati transnazionale prendano il timone della cooperazione, invece di far pagare a loro il conto.

Se fino ad oggi ci eravamo concentrati su campagne di solidarietà con le comunità impattate dai progetti finanziati nel Sud del mondo dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali e contro la criminalizzazione dei movimenti sociali e di chi si mobilita per difendere i propri diritti, da alcuni anni, appare sempre più evidente che questo non è un fenomeno che ha appartenenza geografica, perché avviene sia nel Sud che nel Nord del mondo, in Africa sub-Sahariana come in Grecia, ovunque i beni comuni siano sotto scacco e le comunità locali scelgano di non arrendersi.

“Riteniamo che occorra trovare un nuovo modo di elaborare e praticare il concetto di solidarietà internazionale, intesa come dare voce a chi non ce l’ha, a chi è vittima di concentrazioni di potere, ovunque esso sia localizzato, a Sud come a Nord. Allo stesso tempo dobbiamo affrontare con decisione come ripagare il debito storico ecologico e sociale che le nostre società ad economia avanzata hanno accumulato negli ultimi secoli nei confronti degli altri paesi, senza ricadere nel fallimentare paradigma degli aiuti finanziari” ribadisce Re:Common.

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A seguire il documento di Re:Common sulla cooperazione internazionale.

DAL MERCATO DEGLI AIUTI AL RIPAGAMENTO DEL (NOSTRO) DEBITO

Oggi si apre il forum della cooperazione sul quale abbiamo già avuto modo di evidenziare, nei giorni scorsi, le controverse sponsorizzazioni.

Cogliamo quest’occasione per condividere pubblicamente alcune delle riflessioni che hanno guidato la trasformazione di CRBM in Re:Common.

Per 16 anni la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale si è occupata di finanza per lo sviluppo, cercando di svelare i meccanismi attraverso i quali, dietro l’aiuto pubblico allo sviluppo, altro non si celasse che un sistema post-coloniale per continuare a predare le risorse naturali dei Paesi del Sud, a garantire i profitti delle multinazionali occidentali, a rafforzare la sudditanza politica dei Paesi impoveriti nei confronti di quelli ricchi. Gli strumenti utilizzati per assicurarsi questi obiettivi sono noti: la trappola del debito, le condizionalità, gli aggiustamenti strutturali, l’aiuto legato. La narrativa che ha consentito di calmierare le critiche e non percepirci come avidi sfruttatori è stata la retorica dello sviluppo.

I concetti di “aiuto”, “cooperazione” e “sviluppo”, hanno permesso di elevare un meccanismo di sfruttamento e sottomissione al livello dell’etica filantropica. Mentre depredavamo i Paesi del Sud per garantire il nostro insostenibile stile di vita, lo facevamo a fin di bene, con lo scopo di migliorare il mondo e ridurre la povertà. Questo meccanismo si è a sua volta smascherato da solo proprio quando, con la grave crisi finanziaria ed economica che sta tormentando anche le economie “avanzate”, ogni impegno finanziario per l’aiuto allo sviluppo è definitivamente saltato, a fronte di un atteggiamento più aggressivo e palese di accaparramento delle risorse naturali nel Sud globale.

La cooperazione targata “società civile” è rimasta intrappolata in questo meccanismo, pur gestendo le briciole del portfolio APS, ne ha garantito la legittimità e continua a farlo con iniziative come quella che si apre oggi, perdendo sempre più di vista a quale sviluppo si pretende di cooperare. La leggerezza con cui si aderisce a un forum sponsorizzato da ENI, Microsoft e Banca Intesa ne sono la dimostrazione.

Non importa che i dati siano noti da tempo e siano implacabili: per ogni dollaro che il Sud riceve in aiuto pubblico allo sviluppo, 10 dollari seguono il percorso inverso, tornando a Nord, tramite l’utilizzo di sofisticati trucchi finanziari, la realizzazione di progetti tanto faraonici quanto inutili, i sussidi più o meno mascherati alle nostre imprese e l’utilizzo sistematico e sfrontato dei paradisi fiscali. Un flusso finanziario inverso che da solo supera la somma degli aiuti allo sviluppo e degli investimenti diretti esteri.

Una vera e propria fuga di capitali che va a pesare negativamente sui bilanci pubblici dei Paesi poveri, e che da un lato aumenta il loro debito estero, e dall’altro smantella la capacità dei governi locali di assicurare la fornitura di beni e servizi. Servizi che vengono così privatizzati, (e spesso lasciati di competenza degli aiuti), aprendo enormi opportunità e nuovi mercati per le nostre imprese.Da molti anni pensatori e attivisti del Sud come del Nord del mondo[1] hanno iniziato a denunciare il fatto che la dipendenza dagli aiuti non è un danno collaterale a un sistema altrimenti virtuoso, quanto piuttosto un obiettivo alla base di esso, e che dietro il paradigma sviluppista e ai suoi protagonisti ci sia proprio l’interesse primario di imporre un modello unidirezionale ed asimmetrico mirato al consolidamento delle tradizionali relazioni di potere. Dei moniti che andrebbero ascoltati attentamente, e a cui non ha senso rispondere con un’agenda tecnocratica centrata sul rendere più “efficiente” l’aiuto allo sviluppo, come se il problema fosse soltanto lo strumento usato e non il fine politico con cui questo viene brandito dai Paesi cosiddetti “donatori”, vecchi o nuovi che siano, oppure il tipo di cultura che porta alla definizione delle politiche cosiddette di sviluppo.

Ma negli ultimi anni anche altri sono stati i cambiamenti che hanno portato a mettere profondamente in discussione la stessa categoria Nord/Sud. Le cosiddette economie emergenti che negli anni del liberismo sfrenato guidavano il fronte dei Paesi del Sud, critico nei confronti delle politiche della istituzioni finanziarie internazionali, hanno assorbito completamente il modello liberista e lo hanno riproposto su scala regionale o globale. Cina, India, Brasile hanno infatti acquisito in maniera definitiva il ruolo di nuovi attori finanziari nell’arena globale, arrivando a rimpiazzare in parte le istituzioni finanziarie tradizionali. Attualmente la Cina è tra i principali finanziatori di progetti infrastrutturali in Africa, spesso con enormi impatti ambientali e sociali, al pari di quelli finanziati dalla cooperazione dei paesi OCSE o multilaterale. La Banca Brasiliana di Sviluppo è divenuta in pochi anni la più grande istituzione finanziaria pubblica al mondo, con una crescente presenza in America Latina e in Africa. Le responsabilità dell’India in merito alla delicata questione del land grabbing in Africa stanno aumentando in maniera esponenziale.

Il caso cinese va molto al di là delle mere questioni sviluppiste. L’entrata della Cina nel WTO ha significato la rapida e profonda trasformazione dell’economia mondiale, rendendo il commercio e quindi l’economia reale sempre meno attraente per i grandi investitori, che così hanno dovuto trovare altre strade per cercare di realizzare grossi profitti, rivolgendosi alla sfera della finanza.

Gli enormi capitali, saldamente detenuti da pochi soggetti privati (fatta eccezione dei pochissimi fondi sovrani), generano profitti a doppia cifra principalmente nell’alveo dei prodotti finanziari e fondi speculativi e sempre meno nell’economia reale, su cui però scaricano una logica economica sempre più centrata sul breve termine e sulla distruzione degli asset produttivi. Una delle ragioni della crisi di accumulazione (troppa ricchezza presente in mani private che non trova investimenti sufficientemente redditizzi) diventata ormai strutturale, anche nella sfera della finanza per alcuni Paesi fino a poco tempo fa considerati ricchi.

Sta emergendo un nuovo ordine mondiale guidato non da Paesi o istituzioni, bensì da una vera e propria oligarchia globale, dove la dipendenza del pubblico dalla finanza e dal privato è elevata al punto da cancellare il confine tra le due categorie. Un ulteriore stadio del liberismo, che è giusto chiamare finanziarizzazione non solo dell’economia ma dell’intera società, natura inclusa: ossia sempre più banche, imprese, cittadini e Stati sono dipendenti dall’andamento dei mercati di capitale.

In quest’ottica appare perfettamente coerente che il principale argomento del Forum della Cooperazione sia lo sdoganamento definitivo del settore privato, e soprattutto di quello finanziario, nel sistema degli aiuti.

Assistiamo al refrain quotidiano sui vantaggi del partenariato pubblico/privato, del “Sistema Paese”, della convergenza di attori e risorse impegnati in egual modo (ma non misura) nella strenua lotta alla povertà. Nel farlo si dimentica di spiegare come dietro l’affinità elettiva pubblico/privato si celi la logica perversa per la quale il pubblico si assume i rischi (inclusi quelli relativi agli impatti sociali ed ambientali delle diverse operazioni), mentre il settore privato si assicura profitti certi anche in presenza di parziali fallimenti. Come dire: mettere a disposizione risorse di tutti per il profitto di pochi, pochissimi. Una deriva che ha una ricetta precisa che si chiama finanziarizzazione della stessa finanza per lo sviluppo, ossia subordinazione di questa al funzionamento dei mercati di capitale.

Una ricetta che parte dalla valorizzazione degli investimenti privati come investimenti per lo sviluppo, e dal sostegno al settore privato tramite strumenti tradizionalmente legati alla finanza per lo sviluppo, per attrarre l’interesse dei mercati finanziari e favorire la loro partecipazione in progetti e programmi.

Una ricetta che si basa su un sillogismo tutt’altro che perfetto perché imperfette sono le premesse: se la crescita economica è una condizione necessaria allo sviluppo, e l’attore efficiente a garantirla è il settore privato, i finanziamenti debbono passare attraverso di esso. Un sillogismo che continua a minare alla base il ruolo dello Stato come principale erogatore di beni e servizi, e a causare una carenza degli stessi in paesi che ne hanno particolarmente bisogno.

Qualcuno obietterà che in tempo di crisi ci si deve arrendere all’evidenza e radunare risorse da chi ce l’ha, ovvero da quei soggetti che sono parte integrante degli squilibri sociali, ambientali ed economici del nostro pianeta. In tal caso è meglio che il circo degli aiuti finisca subito.

Fermo restando che l’attuale crisi economica e finanziaria mondiale, e le sempre più frequenti sciagure naturali ed emergenze umanitarie richiedono strumenti nuovi e democratici di cooperazione e solidarietà tra Stati e popoli nel breve termine (quale ad esempio un autentico prestatore di ultima istanza ben diverso dall’attuale Fmi) secondo noi sono due le domande centrali che dovrebbe porsi chi aspira a fare “cooperazione” e solidarietà internazionale con un approccio trasformativo e di lungo termine:

•                Nonostante il mondo e i rapporti di forza stiano rapidamente cambiando, il Nord ha maturato un enorme debito economico, ecologico e sociale nei confronti del Sud. Per centinaia di anni il nostro stile di vita è stato costruito e continua ad essere sostenuto dalla depre­dazione delle risorse naturali di altri popoli. Questo debito deve essere ripagato e ciò potrebbe avvenire con degli strumenti non necessariamente di incentrati sul trasferimento di risorse finanziarie. Ecco solo alcuni dei possibili esempi: contrasto globale dell’elusione fiscale, rilascio della proprietà intellettuale su tecnologie fondamentali, controllo stringente degli standard sociali e ambientali delle imprese (cominciando da quelle a partecipazione pubblica), trasformazione del sistema monetario internazionale.

•                Quale sviluppo? E quali forze sociali occorre sostenere per raggiungerlo? Al riguardo è centrale chiedersi cosa significa oggi solidarietà e cooperazione, quando ampi strati della popolazione dei Paesi cosiddetti ricchi stanno progressivamente finendo in povertà, soffrendo la schiavitù del ripagamento del debito come avvenuto in passato nelle realtà più povere. Cosa significa quindi andare oltre le categorie di Nord e di Sud e promuovere un’azione per la giustizia sociale, ambientale ed economica che funzioni nel Nord come nel Sud geografico, in Grecia come in Africa sub-Sahariana.

Sarebbe in sostanza necessario un processo di rifondazione che parta dal basso e da approfondite analisi interne alle singole organizzazioni, dalla loro condivisione e dal recupero di uno spirito originario di solidarietà militante.

Il Forum di Milano non ci pare sia il contesto giusto per avviare un processo del genere e per questo non parteciperemo.

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