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8 agosto 2012

Il tempo per danzare
di Gianluca Carmosino

La Città dell’altra economia di Roma è morta. Inutile nasconderlo. Non godeva di ottima salute, è vero, per diversi motivi, ovviamente anche per errori. Ma in realtà è stata uccisa dall’arroganza di piccoli poteri: quelli istituzionali e quelli di imprese e organizzazioni sociali che in buona parte non vogliono, e in ogni caso non sanno, cercare alfabeti diversi dai paradigmi del capitalismo. Perché questo è una parte del problema. Piccoli poteri che non hanno nessuna volontà di cooperare in modo paritario, di ragionare, meno ancora di gestire conflitti con altri («non sono d’accordo con te, non voglio confrontarmi con te, e allora il tuo nemico diventa mio amico»). Preferiscono nascondersi dietro modi di fare elitari, rifiutano le relazioni con i mondi più informali. Si nascondono dietro etichette e ossimori: «bio», «altro mercato», «green economy», «sviluppo sostenibile». E dietro linguaggi noti, anche un po’ macisti, dietro relazioni di dominio, il tipo di relazioni che solitamente servono a difendere modelli sociali verticali: accordi con i poteri forti, bandi-truffa, uso della forza.

La Città dell’altra economia è morta e nel peggiore dei modi, con posti di lavoro mandati all’aria, con otto denunce per occupazione abusiva, con associazioni e cooperative sociali sbattute fuori con la forza dall’ex mattatoio di Roma. Le loro principali colpe? Non sanno fare business, pretendono troppa autonomia dalle istituzioni.

La Città dell’altra economia (Cae) è morta e il suo funerale è stato celebrato dai nuovi sacerdoti del qualunquismo, secondo i quali di fatto destra e sinistra sono categorie nel migliore dei casi noiose, l’antifascismo superato.

Eppure, a molti e molte tra coloro che in diverso modo negli ultimi mesi, soprattutto durante l’occupazione, hanno percorso un tratto di strada insieme ai cittadini e alle organizzazioni sociali cacciati dalla Cae, questa descrizione potrebbe sembrare incompleta. C’è un patrimonio di pratiche, di principi e prima ancora di relazioni sociali e interpersonali, di reciprocità, di gesti di gratuità, di capacità di ascolto e di cooperazione (tra persone e gruppi sociali) che, a poco più di ventiquattro ore dallo sgombero, molti scoprono come per magia ancora intatti. Erano lì, tra la farina delle fettuccine fatte in casa insieme per la cena di lunedì 6 (foto), sotto il cartellone Occupy your self che invitava a prendersi cura di quello spazio pubblico, sopra il sellino di chi preferisce le biciclette ai Suv, intorno ai tavoli che hanno ospitato assemblee difficili e momenti di convivialità, accanto alla cassetta del compost, nei sacchi a peli e nei materassini messi a disposizione, nella piccola piscina popolare dei bambini, nei bicchieri di vino bio non certificato. Ma per gli agenti delle forze dell’ordine, per i nuovi mercanti e i loro alleati di destra, erano invisibili. Nessuno ha potuto sgomberarli, nessuna forma di arroganza è in grado di metterli sotto sequestro. C’è chi giura di averli visti in piccole dosi già nella vivace e caotica assemblea al Teatro Valle occupato, a cominciare dal gesto di disponibilità del Valle di ospitare gli sgomberati, dal desiderio degli occupanti del Teatro più noto d’Italia di capire qualcosa in più di quanto accaduto. La Città dell’altra economia è morta? E noi, devono aver pensato quelle pratiche, quei principi, quelle relazioni invisibili, nate prima e durante l’occupazione (e la cui definizione altra economia è stretta e probabilmente sbagliata), cominceremo presto a diffonderci in modo spontaneo per le strade, le piazze, per altri spazi sociali e culturali di Roma.

Per scoprire l’elenco completo di quelle pratiche, di quei principi, di quelle relazioni sociali non occorre mettere in gioco chissà quali analisi di pensiero critico. Vale la pena ripensare, anche con spirito autocritico, quanto vissuto negli ultimi anni, negli ultimi mesi, durante l’occupazione. Vale la pena soprattutto cambiare «occhiali». Si tratta probabilmente di imparare una nuova lingua, un processo complesso, fragile, lento, un camminare in compagnia di domande aperte più che di certezze e certificazioni. Si tratta di rendere visibili processi che legano pratiche e teorie, processi non privi di limiti, ma già sperimentati, qui e ora, e non in un’isola felice. Processi sporcati dalla complessità delle relazioni, ad esempio dalla rabbia, quella sana e molto diffusa tra le persone che sono state cacciate dalla Cae (e che in tanti sbagliano a sottovalutare). Si tratta dunque di dare importanza a quelle pratiche che cercano di creare direttamente forme democratiche di decisione, che riguardano la vita quotidiana, la gratuità, la partecipazione, l’equità, la costruzione paziente ma determinata di un modo diverso di fare le cose, la creazione di forme differenti di coesione sociale e di mutuo soccorso. Perché una cosa è certa: il cambiamento sociale profondo non è mai stato frutto di bandi, di cordate anomale, di azioni di repressione, oppure di etichette è piuttosto il frutto della trasformazione quasi invisibile delle attività quotidiane e delle relazioni sociali di migliaia di persone.

In un saggio dal titolo «L’insurrezione in corso», Gustavo Esteva, richiamando Foucault, a proposito di innovazioni politiche radicali spiega come pezzi di società in movimento e piccoli gruppi di cittadini, negli ultimi anni in tutto il mondo abbiano imparato a «commuovere»: «Con-muovere è una bella parola, suppone di muoversi con l’altro, come in una danza, e farlo con tutto, con il cuore e lo stomaco e l’intero essere, non solo con la testa, e la conmocion agisce per contagio». Insomma, da oggi nonostante la stanchezza e la rabbia, ci sono buone probabilità che con la morte della Città dell’altra economia, lontano dall’ex mattatoio, ci siano sempre più persone e organizzazioni interessate a «danzare» insieme ad altri pezzi della città di Roma e non a utilizzare arroganza e vernice verde.

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