http://znetitaly.altervista.org
30 ottobre 2012

La Siria: il nuovo anti-imperialismo in confronto alla realtà
di Vicken Cheterian
Traduzione di Maria Chiara Starace

Perché non ci sono manifestazioni a Parigi contro la violenza in Siria? Un amico che conosce il movimento pacifista francese si è impegnato a fornire una risposta: perché la sinistra francese è profondamente divisa tra coloro che appoggiano la rivolta popolare e molti altri che vedono nel regime siriano l’ultimo regime arabo anti-imperialista.

Questa confusione non è limitata alla Francia. Lo stesso si può dire dei movimenti pacifisti in Gran Bretagna o in Australia (dove, a Sydney, mentre l’aviazione siriana e l’artiglieria stavano  bombardando i quartieri poveri di Aleppo, i dimostranti chiedevano: “via le mani dalla Siria!”). Questa divisione interna ha poco a che fare con quello che sta accadendo in Siria o nell’area stessa, e di più a che vedere con la profonda crisi di visione e di chiarezza teorica  della sinistra.

Quando la “Primavera Araba” ha perduto lo slancio all’inizio del 2011, c’è stata esultanza tra gli intellettuali di sinistra,  i terzo-mondisti, e coloro che si auto definiscono anti-imperialisti di varie sfumature. Un movimento popolare aveva rovesciato  due dittature (in Tunisia e in Egitto) che per decenni – in nome della battaglia contro l’estremismo islamista – hanno collaborato con gli stati occidentali e hanno represso le loro stesse popolazioni. Riguardo al Bahrein, è stato facile adesso condannare un intervento saudita benedetto dall’Occidente che ha aiutato a soffocare un movimento popolare che chiedeva parità di diritti e libertà democratiche. Le cose si sono però complicate in Libia, quando il minaccioso approccio verso e a Bengasi da parte delle forze militari di Muammar  Gheddafi, ha portato a richieste urgenti per la protezione dei civili; questo ha aperto la strada alle forze aeree della NATO, mentre la Lega Araba e le Nazioni Unite fornivano le giustificazioni necessarie.

La campagna della NATO in Libia  ha provocato un intenso dibattito all’interno della sinistra. Per dieci anni e più, la sinistra aveva concentrato i suoi sforzi nell’opposizione a una serie di interventi militari degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Le proteste contro la guerra in Iraq del 2003 sono state particolarmente imponenti, con la vasta opinione pubblica e anche la sinistra che non credevano alla versione ufficiale che le “armi di distruzione di massa” e i presunti collegamenti con al-Qaida rappresentassero un pericolo, e (quando questi argomenti sono stati screditati),  che la guerra era fatta per portare la democrazia in Iraq. Per gran parte del pubblico occidentale, e per molti altri ancora, le guerre in Iraq e in Afghanistan erano state scatenate dai tentativi di mantenere il dominio sul mondo, e, nel caso dell’Iraq, per saccheggiare le ricche risorse petrolifere del mondo arabo e musulmano.

In Libia, gran parte della sinistra (anche se non del grande pubblico occidentale), ha avuto lo stesso atteggiamento: questo era un intervento imperialista che cercava di controllare il petrolio del paese. Anche quelle persone di sinistra (come Gilbert Achcar) che difendevano il diritto dei Libici di chiedere protezione dall’esterno davanti al pericolo di un massacro immediato, anche se continuavano a essere critici dell’intervento della NATO al di là di questo criterio, venivano attaccati con forza.

 

Guerra versus rivoluzione

La Siria ha reso più profonde le divisioni di una sinistra già divisa. C’è scarso accordo sul modo di descrivere gli eventi siriani “in un’analisi finale”. Forse è una rivoluzione già rubata dalle forze imperialiste e dai loro rappresentanti locali (come suggerisce Tariq Ali), oppure potrebbe essere ancora una rivoluzione popolare da parte di coloro che chiedono libertà politiche e che sono repressi pesantemente da un regime dittatoriale?

Gli atteggiamenti più scettici riguardo all’insurrezione siriana sono permeati da un profondo sospetto nei riguardi delle politiche ufficiali dell’Occidente in Medio Oriente che attinge dall’esperienza degli ultimi 10 anni. Questo sospetto permea anche i servizi di alcuni importanti giornalisti occidentali. Rainer Hermann, il corrispondente del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha scritto due articoli sul massacro di 108 civili a Houla, metà dei quali donne e bambini, i quali non soltanto sollevavano dubbi  sulla versione  dominante, ma faceva pensare che le uccisioni erano state perpetrate dagli stessi combattenti ribelli.

Hermann si è  basato su interviste con uno o due “testimoni” di Damasco, e cita la famigerata Suor Agnese* per sostenere il suo ragionamento sulla violenza dei ribelli, piuttosto che fare una qualsiasi ricerca approfondita per conto suo; perfino l’indagine minuziosa delle Nazioni Unite, basata su molte interviste a testimoni oculari, non era bastata a convincerlo di rivedere la sua assoluzione delle autorità siriane.

I servizi di questo tipo portano Tariq Ali ad accusare i ribelli di compiere i massacri alfine di provocare l’intervento della NATO. In seguito Ali  ha fatto una precisazione al riguardo, dicendo che ora non c’era più dubbio su quale parte avesse causato il bagno di sangue di Houla, senza abbandonare il suo impianto analitico complessivo. Robert Fisk, il noto giornalista del quotidiano The Indipendent, analogamente ha fatto capire, dopo aver visitato la città di Daraya a metà agosto 2012, che il massacro avvenuto là (dove sono state uccise  circa 500 persone, in massima parte civili o militanti non armati) era responsabilità dei combattenti dell’opposizione (Yassin Al Haj Saleh & Rime Allaf, “Syria Dispatches: Robert Fisk’s indipendence”), [vedi "Rapporti dalla Siria: l'indipendenza di Robert Fisk",  14 settembre 2012].

 Ribelli versus jiadhisti-islamisti

Una commissione dell’ONU ha presentato le conclusioni riguardo alle violazioni dei diritti umani in Siria nel settembre 2012. più di 20 giornalisti erano presenti a una conferenza stampa tenutasi a Ginevra per discutere il rapporto.  La discussione, però, non si è incentrata sulle oltre 100 pagine che registravano gli abusi, le violazioni, le torture e le uccisioni sommarie; non è neanche stata fatta una sola domanda sul massacro di Daraya. Più di metà delle domande hanno riguardato pochi paragrafi che parlavano della presenza di  combattenti jihadisti stranieri in Siria. Quanti erano, di dove erano, c’era un elenco delle loro violazioni dei diritti umani? (La risposta all’ultima domanda è stata, no, ma le domande sui jihadisti sono comunque continuate). Mi sono ricordato dell’osservazione di George Bernard Shaw che “un giornalista è qualcuno che non sa distinguere tra un incidente di bicicletta  e il crollo della civiltà”.

Forse è ora di leggere, anche di rileggere Covering Islam [L'Islam sui media] *di Edward Said. Gli intellettuali critici non credevano nella propaganda statunitense sui collegamenti di al-Qauda con il regime iracheno precedenti all’invasione del 2003.  Gli stessi criteri non dovrebbero essere usati nel caso della Siria? Il regime di quel paese ha anche giustificato la repressione che ha messo in atto contro il movimento popolare dalla primavera del 2011, descrivendola come opera dei “Salafiti” e di “agenti stranieri” finanziati dal Qatar, dall’Arabia saudita, dalla Turchia, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dall’America. Uno scetticismo analogo rispetto alle autorità siriane a alle loro rivendicazioni sarebbe il benvenuto.

 

Il nuovo  anti imperialismo

I classici pensatori della sinistra sono stati sempre consapevoli della interrelazione tra le lotte locali e l’equilibrio internazionale delle forze.  I loro successoti moderni tendono a separare i due  livelli. Così, le rivoluzione nel mondo arabo sono lette come se fossero  isolate da quello che accade a livello globale, come se la  duratura   crisi del capitalismo scoppiata nel 2008 (o anche dei fattori

globalmente rilevanti come le crisi alimentari e dell’acqua) non avesse alcun collegamento con gli avvenimenti. Il risultato è che si trascura la possibilità di considerare le rivoluzioni arabe come se rappresentassero una nuova “catena più debole” in un sistema che si spacca.  Oggi c’è il bisogno  urgente di opinioni critiche che colleghino le lotte locali alla politica globale e aiutino la comprensione delle relazioni dialettiche tra di loro.

Gli intellettuali con tendenze di sinistra, che considerano il problema della Siria in termini di  “Islamisti” appoggiati dagli Stati Uniti o per mezzo di categorie di lotte interconfessionale tra Sunniti e Sciiti - ma nei termini del del regime di Bashar al-Assad – hanno abbandonato le analisi delle dimensione locale degli eventi per attenersi soltanto a quella internazionale. Non hanno alcuna comprensione degli eventi siriani in termini di classe e di rivolta contro l’ingiustizia, la repressione, e la censura. Invece la loro lettura geopolitica  auto gratificante li considera soltanto come una lotta tra un tentativo appoggiato dagli Stati Uniti per imporre un ordine di tipo imperialistico e una resistenza  araba  disperata e  sostenuta dalla Russia e dalla Cina.,

Un esempio di questo atteggiamento è l’intervista del giornale del Partito comunista francese, L’Humanité, fatta allo studioso libanese George Corm, dove la sua replica a una domanda sulla Primavera Araba è di tipo socio-economico (in riferimento alla disoccupazione giovanile e alle richieste di apertura politica), mentre quella a una domanda sulla Siria riguarda soltanto le lotte di potere regionale e globale).

Questa lettura in senso “anti-imperialista” degli avvenimenti in Siria ha chiari limiti. Ha difficoltà a spiegare perché, dopo 18 mesi, gli aerei della NATO non sono intervenuti, perfino dopo che le difese aeree siriane hanno abbattuto un bombardiere turco F-4 il 22 giugno 2012 (che si poteva pensare fosse un perfetto pretesto per un’azione diretta); perché, se esiste una “cospirazione universale”  per rovesciare il regime di Assad, questa dovrebbe essere impedita  da un veto della Russia; o perché i cospiratori non forniscono ai combattenti dell’opposizione missili Stinger anti-aerei portatili (come quelli che l’amministrazione statunitense ha fornito ai mujahideen negli anni ’80).

La critica di Gilber Achcar nei riguardi del Consiglio Nazionale Siriano e delle sue speranze di un appoggio aereo della NATO  è più pertinente delle le opinioni semplicistiche che considerano l’intervento come l’essenza del conflitto. I dettagli della guerra all’interno della Siria sono il miglior antidoto a tali opinioni che possono essere sostenute soltanto adottando la retorica che è astratta dalla realtà dei fatti  e quindi fa sì che sia  facile attribuire i massacri come quelli di Houla e di Daraya alle forze di opposizione senza fare un’indagine accurata.

 

La classe in confronto all’imperialismo

L’abbandono graduale dell’analisi che considera gli sviluppi sociali interni come motore dei più di importanti avvenimenti politici come le rivoluzioni, ha radici più profonde.  Per la maggior parte del secolo passato, l’esperienza sovietica e la prospettiva marxista sulla classe, era dominante tra gli intellettuali di sinistra. Il crollo dell’Unione Sovietica ha fatto a pezzi le loro certezze e ha indebolito i fondamenti analitici della loro visione del mondo alternativa.  E’ però stato ancora più fatale il fatto che non siano riusciti ad impegnarsi nell’analisi delle conseguenze del crollo sovietico, e a farsi domande pertinenti. Per esempio: come spiegare il crollo di uno stato di quel genere senza apparenti pressioni interne o esterne; questa fine che cosa rivela della passata esperienza sovietica; perché la classe lavoratrice sovietica non si è mobilitata per difendere i suoi diritti sociali quando un’apertura politica glielo permetteva; perché la classe lavoratrice russa non si è opposta a un livello non soltanto individuale contro la massiccia privatizzazione di Boris Yeltsin?

Il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe dovuto anche portare a dubitare del modello di progresso che aveva stabilito l’Unione Sovietica, che alla base la “cattura” dello stato da parte di una piccola avanguardia come fondamento dello sviluppo socio-economico, e dei regimi “progressisti” nel “terzo mondo”, compresi quelli in Libia e in Siria che preferirebbero provocare un bagno di sangue piuttosto che andarsene.

L’eredità del deterioramento  silenzioso di sistemi di analisi più vecchi (compresa la lotta di classe, e i lavoratori in quanto classe rivoluzionaria) è di lasciare la dimensione geopolitica come unica struttura utilizzabile. Il mondo è di nuovo  immaginato   in termini di guerra quasi fredda, con una mentalità che rieccheggia il punto di vista di alcuni dei falchi di Washington, cioè l’invasione statunitense dell’Iraq e la politica statunitense in Siria viste negli stessi termini indiscriminati. Questa visione anti imperialista ha anche il problema di non essere in grado di trovare un degno oppositore dell’imperialismo occidentale: la Russia di Vladimir Putin può essere considerata “progressista” così poco come la Siria o l’Iran (il curriculum  spaventoso  del Baathismo siriano comprende  l’invasione del Libano nel 1976 per appoggiare i Falangisti di destra e per  reprimere le guerriglie palestinesi e la sinistra libanese, un esempio tra tanti altri).

Il conflitto siriano si sta evolvendo in un contesto internazionale e per comprendere questo è necessario andare oltre la lettura dogmatica, semplicistica e geopolitica  delle persone il cui atteggiamento da Godot   di “aspettare l’invasione imperialista” sarebbe una commedia noir  se non fosse così tragica. Nel frattempo, il massacro continua.

 


*http://www.you-ng.it/blog/2291-la-monaca-di-assad-a-roma.html

** L’Islam nei media. Come i mezzi di informazione e gli esperti determinano il modo in cui vediamo il resto del mondo.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/syria-neo-imperialism-vs-reality-by-vicken-cheterian

Originale: Open Democracy

top