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11 giugno 2012

Interviste di primavera – 3
di Christian Elia

Quanto resta di una primavera? Il dibattito, ormai, è sempre più acceso. I ragazzi pronti a morire in Avenue Bourghiba a Tunisi e in piazza Tahrir al Cairo sono stati solo il grimaldello per il trionfo dell’islamismo politico? In Yemen e in Bahrein, il metro dei diritti umani applicato altrove dall’Occidente non vale? In Libia e in Siria si assiste a un’evoluzione bellicosa e violenta delle istanze popolari? La terza intervista è quella a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all’Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo.

Da Sidi Bouzid a Damasco. E’ possibile tracciare un bilancio delle rivolte arabe? Quali le prospettive?

Secondo me è necessario, all’interno di tutto quello che è accaduto, distinguere due periodi. Un primo frangente, in Tunisia ed Egitto, in cui le rivolte erano disarmate, pacifiche, animate da uno spirito costruttivo e ottimistico. In un secondo momento, invece, questa ‘primavera’ si è trasformata in ‘un’estate’ davvero calda: Bahrein, Yemen, Libia (con l’intervento della Nato) e Siria. Questo ha totalmente mutato l’immagine idealista delle prime insurrezioni; un cambiamento confermato all’inizio di quest’anno dalle elezioni tenute dove si è cambiato tutto, che hanno premiato partiti religiosi a scapito delle istanze delle società civili. Ecco, questo passaggio pone molti interrogativi su quello che accadrà in futuro, confermando che ogni processo rivoluzionario è molto lungo. In Francia la rivoluzione è arrivata nel 1789, ma la vera architettura istituzionale repubblicana molto dopo. Amo ricordare, quando parliamo di quello che succede, che nel mondo arabo contemporaneo abbiamo avuto due periodi rivoluzionari: quello di Muhammed Ali in Egitto, dall’alto, e quello di Nasser, sempre in Egitto, che raccolse le istanze sociali diventando un modello per tutto il mondo arabo, almeno fino al 1967, quando subì la sconfitta da Israele.

In molti hanno tentato di interpretare queste sommosse. Ritiene che assistiamo a un fenomeno totalmente interno, o ritiene che ci sia una qualche regia esterna?

Credo che nel primo periodo abbiamo assistito ad autentiche rivolte interne, popolari, legate a un’agenda tutta nazionale. Non credo che riesci a tenere milioni di persone in piazza solo per una spinta esterna. E credo anche che il significato di quella lotta abbia passato i confini, contagiando Marocco, Algeria, Oman, Yemen, Bahrein, Arabia Saudita, Giordania, Iraq fino a un piccolo movimento in Libano, che chiedeva l’abolizione del sistema settario. Un fenomeno impressionante, popolare, in tutto il mondo arabo. A quel punto, in Libia, è possibile vedere l’inizio di un intervento esterno, che poi ha riguardato anche il Bahrein (con l’intervento militare della monarchia saudita). Nel silenzio dei media, almeno in questo ultimo caso. In Libia, invece, l’intervento esterno (Nato e Qatar su tutti) ha mutato il volto di un’insurrezione popolare pacifica in una guerra. Non ci sono dubbi, a mio parere, che in Siria al movimento popolare – che esprime un profondo sdegno per la situazione del Paese – si siano affiancati una serie di pressioni esterne. Basta guardare la mappa degli scontri per rendersene conto: la maggior parte degli scontri armati avvengono ai confini del Paese, con Giordania, con il Libano, con la Turchia. Tutti, al momento, influiscono sulla crisi siriana, dalla Russia all’Iran, dalla Lega Araba al Qatar. In questo momento la situazione siriana è paragonabile alla guerra civile spagnola degli anni Trenta.

Al centro di polemiche è finito il ruolo di al-Jazeera e del Qatar. E’ nata una nuova potenza, che ha magari preso il posto dell’Arabia Saudita come partner privilegiato di Europa e Ue?

La monarchia, in Arabia, non è più dinamica come prima. C’è un’autocrazia vecchia, che il Qatar sostituisce con una politica estera dinamica e concordata comunque con Riad, dalla leadership nella Lega Araba all’intervento in Libia, e adesos in Siria. L’agenda è la stessa, ma c’è stato un passaggio di consegne.

Il Bahrein, rispetto ad altre insurrezioni, non ha trovato lo stesso sostegno politico in Europa e negli Stati Uniti. Perché? A suo avviso c’entra in qualche modo la componente sciita e la vicinanza dei rivoltosi con l’Iran?

Il silenzio non riguarda solo il Bahrein. Anche lo Yemen. Migliaia di persone, ogni giorno, nelle strade. Represse con violenza. E nessuno ne parla, perché vengono considerati nella sfera di influenza dell’Arabia Saudita e, come sempre, c’è un doppio standard nel chiedere il rispetto delle istanze popolari. Nessuno interferisce con le politiche del Ccg, a maggior ragione in un periodo di forti tensioni regionali con l’Iran.

Il conflitto israelo – palestinese resta fermo al palo. In quale modo il cambio avvenuto in tanti paesi arabi potrebbe cambiare la situazione in Palestina?

Per me resta comunque il fattore di maggiore tensione nella regione. Il fatto che i media internazionali e arabi siano focalizzati sul fattore iraniano non ha eliminato il problema, soprattutto se Hezbollah ha la capacità di resistere. E’ chiaro che nella geopolitica della regione, l’antagonismo con l’Iran è l’obiettivo degli stati del golfo e di Israele.

Ritiene che, almeno a livello di slogan e simboli, esiste una vicinanza tra i movimenti arabi e i movimenti Occupy in Usa e Ue?

Io credo di si, soprattutto all’inizio la spinta della sponda meridionale del mediterraneo ha contagiato e affascinato l’Europa meridionale e i suoi movimenti. Anche a New York.

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